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Il Decameron di Pier Paolo Pasolini

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Il Decameron di Pier Paolo Pasolini 

Decameron film completo  (novella di Andreuccio fino al minuto 22, novella dell’usignolo (quinta giornata novella quarta), novella di Lisabetta e seconda cornice con Pasolini come “allievo di Giotto” dal minuto 54 al 124)
I luoghi del Decameron di Pier Paolo Pasolini

Il commento-recensione di Alberto Moravia (L’Espresso 11 luglio 1971)

È giunto forse il momento di parlare del modo con il quale Pier Paolo Pasolini affronta e risolve il problema dell’illustrazione cinematografica di quei testi di cui è convenuto dire che appartengono al patrimonio culturale dell’umanità.

Al tempo del Vangelo secondo Matteo Pier Paolo Pasolini spiegò che per l’interpretazione aveva voluto evitare le ipotesi particolari e aggiornate e tenersi invece al senso comune. Cosa intendeva Pasolini per senso comune? Evidentemente, la fruizione del testo, attraverso i secoli, “fuori della storia”, da parte di infiniti lettori, nei luoghi e nelle situazioni più diverse. Il senso comune: cioè il senso di tutto ciò che sfugge alla moda, alla storia, al tempo.

Pasolini, d’altra parte, come è noto, è un manierista, forse il maggiore della nostra letteratura dopo D’Annunzio. Così fin dal Vangelo secondo Matteo abbiamo avuto questo curioso e raffinato connubio: la visione “inattuale” del senso comune accoppiata coi mezzi espressivi “attuali” del manierismo decadente.

Per Il Decameron, Pasolini ha proceduto in maniera non dissimile che per Il Vangelo. Ha accettato e fatta sua la visione del senso comune di tutti i tempi la quale considera Il Decameron come un libro non solo privo di tabù ma anche privo del compiacimento di non averne; un libro, cioè, in cui letteratura e realtà si identificano perfettamente per una rappresentazione totale dell’uomo. Accettata questa visione in fondo scandalosa (rispetto alla morale repressivamente permissiva di oggi) Pasolini è passato a lavorare sui racconti del Boccaccio con tutte le risorse del suo estetismo critico e virtuosistico.

Per prima cosa ha notato che nel Decameron la rappresentazione realistica della civiltà contadina è chiusa in una cornice umanistica e raffinata. Indubbiamente questa cornice ha una grande importanza; essa crea quel rapporto tra gentilezza e rusticità, tra realismo e letteratura, tra immaginazione e verità che è uno degli aspetti più affascinanti del Decameron. Gettando via questa cornice illustre ed elegante, Pasolini sapeva di modificare profondamente il testo boccaccesco; ma dimostrava al tempo stesso di essere un regista irresistibilmente originale ossia fatalmente infedele.

Pasolini non soltanto ha gettato via la cornice umanistica ma ha anche sostituito la “favella” toscana con il dialetto napoletano. Si comprende anche facilmente perché. Una volta distrutta la finzione della villa deliziosa in cui, in tempi di pestilenza, si ritira una brigata di gentiluomini e di gentildonne per godersi la vita e raccontarsi dilettose vicende immaginarie, alla rappresentazione del mondo boccaccesco conveniva meglio il napoletano ancora oggi vivo ed aggressivo che il toscano così estenuato persino in bocca ai contadini e agli artigiani. L’operazione linguistica è perfettamente riuscita ed è uno dei caratteri più originali del film. Ne è venuto fuori un Decameron in cui gli umidi e sordidi vicoli di Napoli sostituiscono le pulite rughe di Firenze e la rozza e rigogliosa campagna campana il pettinato contado toscano. Questa sostituzione topografica a ben guardare è resa visibile soprattutto dalla sostituzione linguistica. A conferma una volta di più dell’importanza della parola nel cinema.

Altra soluzione felice è quella del problema dell’erotismo boccaccesco altrettanto proverbiale quanto, in fondo, incompreso. Pasolini ha eliminato ogni tentazione di scollacciatura e ha fuso arditamente la serenità rinascimentale con l’oggettualità fenomenologica moderna. Nel film di Pasolini c’è più nudo che nel “musical” Oh! Calcutta!; ma senza il compiacimento di infrangere tabù, semmai con l’idea di spingere la rappresentazione fin dove è necessaria e dunque lecita. Crediamo che sotto questo aspetto Il Decameron pasoliniano segnerà una data importante. Forse è la prima volta che l’atto della copula viene presentato al cinema come puro e semplice gesto dei corpi, privo di significato e di valore, anzi visto come qualche cosa di difficile, di goffo e di scomodo che richiede la cooperazione di ambedue gli amanti.

Adesso bisognerebbe parlare di ogni singola novella e vedere dove Pasolini ha espresso meglio il suo sentimento del Decameron. Ci pare che tre novelle si levino al di sopra delle altre: quella dell’Isabetta e della pianta di basilico (qui la lezione di Mizoguchi e del cinema giapponese è messa a frutto); quella cosiddetta dell’usignolo (un po’ leziosa ma è leziosa anche nel Boccaccio); quella di Masetto da Lamporecchio (la più importante per quanto riguarda il trattamento “oggettuale” dell’erotismo – vedi immagine a sinistra). A queste tre pensiamo che bisogna aggiungere i due aneddoti di Peronella e di compar Pietro nei quali è recuperata l’antica rusticità della Campania. Nella novella celebre di Andreuccio preferiamo la parte della cattedrale (vedi immagine a destra) a quella della casa della cortigiana.

Gli interpreti sono tutti bravi per merito loro e di Pasolini che ha saputo sceglierli e dirigerli. Ma essi valgono soprattutto come volti inventati e rappresentati con estraniata immediatezza da encausto pompeiano.

Approfondimento: l’amore pericoloso: la novella di Alatiel

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430px-Trouillebert-servante_du_harem                                        Paul-Désiré Trouillebert, Servante du Harem, 1874

Nella puntata di Umana Cosa dedicata alla seconda giornata del Decameron, quella delle novelle a lieto fine, Maurizio Fiorilla e David Riondino leggono e spiegano la novella di Alatiel, la bellissima figlia del sultano di Babilonia, che nel corso del viaggio che deve condurla al suo promesso sposo, il re del Garbo, attraversa molte avventure e conosce molti uomini, che per lei perdono la ragione e muoiono. La bellezza e il desiderio sono presentati in questa novella come fonti di distruzione e  morte. Boccaccio riprende l’antica tradizione greca e latina che vedeva l’amore come pericoloso. (a questo link leggi una riflessione su Alatiel e la sua vicenda)
Di seguito sono riportati i passi letti e commentati nella puntata. Per il testo integrale della novella vai a questo link

(link a tutti i podcast della trasmissione)

Seconda giornata settima novella
(…) Già è buon tempo passato che di Babillonia fu un soldano, il quale ebbe nome Beminedab, al quale ne’suoi dì assai cose secondo il suo piacere avvennero. Aveva costui, tra gli altri suoi molti figliuoli e maschi e femine, una figliuola chiamata Alatiel, la quale, per quello che ciascuno che la vedeva dicesse, era la più bella femina che si vedesse in quei tempi nel mondo;
(…)
In su la nona, per avventura da un suo luogo tornando, passò di quindi un gentile uomo, il cui nome era Pericon da Visalgo, con più suoi famigli a cavallo, il quale, veggendo la nave, subitamente imaginò ciò che era e comandò ad un de’ famigli che senza indugio procacciasse di su montarvi e gli raccontasse ciò che vi fosse.(…)
Era Pericone uomo di fiera vista e robusto molto; e avendo per alcun dì la donna ottimamente fatta servire, e per questo essendo ella riconfortata tutta, veggendola esso oltre ad ogni estimazione bellissima, dolente senza modo che lei intendere non poteva né ella lui, e così non poter saper chi si fosse, acceso nondimeno della sua bellezza smisuratamente, con atti piacevoli e amorosi s’ingegnò d’inducerla a fare senza contenzione i suoi piaceri. Ma ciò era niente: ella rifiutava del tutto la sua dimestichezza; e intanto più s’accendeva l’ardore di Pericone.
(…)
Ultimamente, partitisi i convitati, colla donna solo se n’entrò nella camera; la quale, più calda di vino che d’onestà temperata, quasi come se Pericone una delle sue femine fosse, senza alcuno ritegno di vergogna, in presenza di lui spogliatasi, se n’entrò nel letto. Pericone non diede indugio a seguitarla; ma spento ogni lume, prestamente dall’altra parte le si coricò allato, e in braccio recatalasi, senza alcuna contradizione di lei, con lei incominciò amorosamente a sollazzarsi; il che poi che ella ebbe sentito, non avendo mai davanti saputo con che corno gli uomini cozzano, quasi pentuta del non avere alle lusinghe di Pericone assentito, senza attendere d’essere a così dolci notti invitata, spesse volte sé stessa invitava, non colle parole, ché non si sapea fare intendere, ma co’ fatti. (…)
I marinari, avendo buon vento e fresco, fecero vela al lor viaggio. La donna amaramente e della sua prima sciagura e di questa seconda si dolfe molto; ma Marato, col santo Cresci in man che Iddio ci diè, la cominciò per sì fatta maniera a consolare, che ella, già con lui dimesticatasi, Pericone dimenticato avea; (…)
E questo fatto, manifestamente conoscendo sé non esser stati né dalla donna né da altrui sentiti, prese il duca un lume in mano, e quello portò sopra il letto, e chetamente tutta la donna, la quale fisamente dormiva, scoperse; e riguardandola tutta, la lodò sommamente, e se vestita gli era piaciuta, oltre ad ogni comparazione ignuda gli piacque. Per che, di più caldo disio accesosi, non spaventato dal ricente peccato da lui commesso, con le mani ancor sanguinose, allato le si coricò e con lei, tutta sonnocchiosa e credente che il prenze fosse, si giacque.(…)
Mentre queste cose andavano in questa guisa, Osbech, allora re de’ turchi, il quale in continua guerra stava collo imperadore, in questo tempo venne per caso alle Smirre; e quivi udendo come Constanzio in lasciva vita con una sua donna, la quale rubata avea, senza alcun provedimento si stava in Chios, con alcuni legnetti armati là andatone una notte e tacitamente colla sua gente nella terra entrato, molti sopra le letta ne prese prima che s’accorgessero li nemici esser sopravenuti; e ultimamente alquanti, che, risentiti, erano all’arme corsi, n’uccisero; e arsa tutta la terra, e la preda e’prigioni sopra le navi posti, verso le Smirre si ritornarono.
Quivi pervenuti, trovando Osbech, che giovane uomo era, nel riveder della preda, la bella donna, e conoscendo questa esser quella che con Constanzio era stata sopra il letto dormendo presa, fu sommamente contento veggendola; e senza niuno indugio sua moglie la fece e celebrò le nozze e con lei si giacque più mesi lieto. (…)
E sopra la nave montati, data loro una cameretta nella poppa, acciò che i fatti non paressero alle parole contrari, con lei in uno lettuccio assai piccolo si dormiva. Per la qual cosa avvenne quello che né dell’un né dell’altro nel partir da Rodi era stato intendimento, cioè che incitandogli il buio e l’agio e ’l caldo del letto, le cui forze non son piccole, dimenticata l’amistà e l’amor d’Antioco morto, quasi da iguale appetito tirati, cominciatisi a stuzzicare insieme, prima che a Baffa giugnessero, là onde era il cipriano, insieme fecero parentado; e a Baffa pervenuti, più tempo insieme col mercatante si stette.
(…)
– Padre mio, forse il ventesimo giorno dopo la mia partita da voi, per fiera tempesta la nostra nave, sdrucita, percosse a certe piaggie là in ponente, vicine d’un luogo chiamato Aguamorta una notte; e che che degli uomini, che sopra la nostra nave erano, s’avvenisse, io nol so né seppi giammai;(…) Essi, dopo lungo consiglio, postami sopra uno de’ lor cavalli, mi menarono ad uno monastero di donne secondo la lor legge religiose, e quivi, che che essi dicessero, io fui da tutte benignissimamente ricevuta e onorata sempre, e con gran divozione con loro insieme ho poi servito a san Cresci in Val Cava, a cui le femine di quel paese voglion molto bene
. (…)
Di ciò fece il re del Garbo gran festa, e mandato onorevolmente per lei, lietamente la ricevette. Ed essa che con otto uomini forse diecemilia volte giaciuta era, allato a lui si coricò per pulcella, e fecegliele credere che così fosse; e reina con lui lietamente poi più tempo visse. E perciò si disse: – Bocca basciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna.

La premessa di Panfilo: il significato “filosofico” della novella
(…)
Malagevolmente, piacevoli donne, si può da noi conoscer quello che per noi si faccia, per ciò che, se come assai volte s’è potuto vedere, molti estimando, se essi ricchi divenissero, senza sollecitudine e sicuri poter vivere, quello non solamente con prieghi a Dio addomandarono, ma sollecitamente, non recusando alcuna fatica o pericolo, d’acquistarle cercarono; e, come che loro venisse fatto, trovarono chi per vaghezza di così ampia eredità gli uccise, li quali avanti che arricchiti fossero amavan la vita loro.
Altri di basso stato per mille pericolose battaglie, per mezzo il sangue de’ fratelli e degli amici loro saliti all’altezza de’ regni, in quegli somma felicità esser credendo, senza le infinite sollecitudini e paure di che piena la videro e sentirono, conobbero, non senza la morte loro, che nell’oro alle mense reali si beveva il veleno.
Molti furono che la forza corporale e la bellezza, e certi gli ornamenti, con appetito ardentissimo disiderarono, né prima d’aver mal disiderato s’avvidero, che essi quelle cose loro di morte essere o di dolorosa vita cagione. (…)
Ma per ciò che, come che gli uomini in varie cose pecchino disiderando, voi, graziose donne, sommamente peccate in una, cioè nel disiderare d’esser belle, in tanto che, non bastandovi le bellezze che dalla natura concedute vi sono, ancora con maravigliosa arte quelle cercate d’accrescere, mi piace di raccontarvi quanto sventuratamente fosse bella una saracina, alla quale in forse quattro anni avvenne per la sua bellezza di fare nuove nozze da nove volte.

Il servitore di due padroni e l’Arlecchino di Strehler

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INTRODUZIONE:
Il servitore di due padroni è una celebre  opera di Carlo Goldoni, scritta nel 1745.
In piena sintonia con la tradizione della Commedia dell’Arte, Goldoni scrisse l’opera in forma di canovaccio per l’attore Antonio Sacchi, o Sacco, il quale, secondo l’uso del tempo, recitava improvvisando. Con successive riscritture, l’opera si dotò di un copione steso per intero.
Questo famoso attore impersonava con il nome di Truffaldino il secondo zani, ovvero servo, della Commedia dell’Arte. In seguito il nome di Truffaldino venne sostituito con quello di Arlecchino, il nome più famoso e noto del secondo servo della commedia italiana e con questo nome il personaggio della commedia è ora chiamato.
Al centro della commedia troviamo Arlecchino, servo di due padroni, che, per non svelare il suo inganno e per perseguire il suo unico intento, ovvero mangiare a sazietà, intreccia la storia all’inverosimile e crea continuamente equivoci e guai.

PERSONAGGI PRINCIPALI:

Arlecchino: astuto servitore del defunto Federigo Rasponi. In seguito alla morte di questo servirà la sorella, Beatrice Rasponi. Per uno scherzo del destino Arlecchino trova un secondo padrone, Florindo Aretusi.
Federigo Rasponi: agiato torinese che avrebbe dovuto sposare la giovane Clarice e che però viene ucciso da Florindo Aretusi a seguito di una lite.
Beatrice Rasponi: sorella di Federigo. Lei indosserà i panni del fratello per andare alla ricerca del suo amato Florindo e ostacola il matrimonio fra Clarice e Silvio.
Clarice: figlia del locandiere veneziano Pantalone de’ Bisognosi. Innamorata di Silvio, ma inizialmente promessa in sposa a Federigo Rasponi.
Silvio: fidanzato di Clarice.
Smeraldina: serva di Clarice,innamorata di Arlecchino.
Brighella: un ex servitore ora locandiere.

TRAMA:
La commedia si apre a Venezia in casa di Pantalone de’ Bisognosi, anziano mercante che sta assistendo alla promessa di matrimonio tra sua figlia, Clarice e Silvio.
I testimoni della promessa sono Smeraldina e Brighella. Senza alcun preavviso irrompe sulla scena Arlecchino, servo di Federigo Rasponi, il quale annuncia la venuta del suo padrone, giunto a Venezia per incontrare la sua futura sposa, Clarice. Costui, in realtà , è Beatrice Rasponi, sorella del defunto Federigo, la quale indossa i panni del fratello per cercare il suo amato, Florindo Aretusi, fuggito a Venezia a seguito dell’omicidio per mano sua di Federigo.
Brighella, pur avendo riconosciuto Beatrice, non svela l’inganno, anzi, sta al gioco, assicurando tutti che lo sconosciuto è Federigo Rasponi in persona. Neanche Arlecchino si interessa della vera identità del padrone, dato che il suo unico obiettivo è quello di saziare la sua perenne fame. Non soddisfatto del trattamento di Beatrice, che trascura gli orari del pranzo e lo lascia spesso da solo, per uno scherzo del destino si trova a servire un altro padrone, Florindo Aretusi, l’innamorato di Clarice, sotto falso nome.
Beatrice e Florindo, raggirati dall’astuzia dell’abile servitore, si ritrovano alloggiati nella locanda di Brighella in cerca l’una dell’altro. Arlecchino per non farsi scoprire, addossa tutte le responsabilità sul fantomatico Pasquale, servo che in realtà non esiste. Anche quando Beatrice e Florindo si rincontreranno, Florindo crederà che il servitore di Beatrice sia Pasquale e viceversa. Arlecchino soffre la fame, mente, corteggia, ama, finge di saper leggere, serve i due padroni in stanze diverse, pasticcia la trama e la risolve, tutto ciò mentre lo “pseudo” Federigo Rasponi complica la vita dei due amanti Silvio e Clarice e delle rispettive famiglie.
L’intreccio culmina, all’inizio dell’atto terzo, quando Arlecchino , per errore scambia il contenuto di due bauli che appartengono rispettivamente ai suoi due padroni. Egli si vede costretto a spiegare a Florindo come mai nel baule si trovi un suo ritratto e a Beatrice perché nel suo si trovino due lettere da lei scritte a Florindo. Arlecchino si libera dalla spiacevole situazione raccontando ad entrambi di avere avuto tali oggetti da un suo precedente padrone defunto.
Beatrice e Florindo credono ciascuno che l’altro sia morto e si disperano. La situazione, apparentemente irrimediabile si risolve con un incontro casuale, seguito dalle nozze, dei due innamorati. Una volta svelato l’inganno di Beatrice, Clarice e Silvio si riappacificano con le rispettive famiglie.
Alla fine Arlecchino per avere in moglie Smeraldina, la serva di Pantalone, rivela il suo inganno e dichiara di avere servito due padroni nello stesso tempo.
“Arlecchino: Sior sì, mi ho fatto sta bravura. Son intrà in sto impegno senza pensarghe; m’ho volesto provar. Ho durà poco, è vero, ma almanco ho la gloria che nissun m’aveva ancora scoverto, se da per mi no me descovriva per l’amor de quella ragazza. Ho fatto una gran fadiga, ho fatto anca dei mancamenti, ma spero che, per rason della stravaganza, tutti sti siori me perdonerà.” (scena ultima)

“Il servitore di due padroni” è un’opera di intrattenimento, comica e divertente.
La commedia scritta da Goldoni su richiesta di Antonio Sacchi, famoso Truffaldino, ebbe fin dalle sue prime rappresentazioni un grande successo di pubblico.

L’ARLECCHINO DI GIORGIO STREHLER.

Giorgio Strehler nato a Trieste il 14 agosto del 1921, è stato un importante registra teatrale italiano.
Strehler  fondò insieme a Nina Vinchi e Paolo Grassi il Piccolo Teatro di Milano,  inaugurato il 14 maggio del 1947 con lo spettacolo “ L’albergo dei poveri” di Maxim Gorki.
Nel corso della la sua attività Strehler si rifà alla tradizione teatrale italiana ed europea e mette in scena spettacoli, che sono rimasti nella storia del teatro italianoed europeo.
Nel 1990 fonda insieme a Jack Lang, allora ministro della cultura in Francia, “L’unione dei teatri d’Europa” , un’associazione a scopo culturale, con il fine di riunire produzioni e lavori artistici europei e consentire gli scambi culturali.
Nello stesso anno gli fu assegnato il premio “Europa per il teatro”.
Strehler ha messo in scena tutti i principali drammaturghi italiani ed europei. Tra i suoi più importanti spettacoli ricordiamo, oltre all’Arlecchino servitore di due padroni, il più longevo dei suoi allestimenti, “La trilogia della villeggiatura” e “Le baruffe chiozzotte” sempre di Goldoni, “Il flauto magico” e “Così fan tutte” di Mozart, “L’anima buona di Sezuan” , “Opera da tre soldi” e “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht, “Re Lear” e “La tempesta” di Shakespeare, “Il giardino dei ciliegi” di Checov, “I giganti della montagna” di Pirandello, “L’ultimo nastro di Krapp” di Beckett.
Ha pubblicato saggi e testi autobiografici, tra cui “Per un teatro umano”, raccolta di scritti vari sul teatro pubblicato nel 1974.
Morì a Lugano il 25 dicembre del 1997 durate le prove del suo spettacolo “Così fan tutte”.

La commedia di Goldoni fu rappresentata sia nei teatri italiani sia in quelli europei più volte sempre con successo.
Giorgio Strehler mette in scena “Il Servitore di due padroni”, da lui rinominato “Arlecchino servitore di due padroni” al Piccolo Teatro di Milano nel luglio del 1947 come ultimo spettacolo della prima stagione del nuovo teatro milanese.
L’Arlecchino era lo spettacolo allegro e spensierato dopo gli spettacoli seri e impegnati.
Lo spettacolo di Strehler è stato rappresentato, in più di duemila repliche, nei teatri di moltissime città di tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Cina ed è tuttora (2013) nel cartellone del teatro milanese.
Due i grandi attori che hanno interpretato l’Arlecchino di Strehler Mario Moretti e Ferruccio Soleri, che tuttora interpreta il personaggio nello spettacolo che stagione dopo stagione continua ad andare in scena al Piccolo di Milano.
A questo spettacolo Strehler rimase per tutta la vita profondamente legato e non smise di rimetterlo in scena fino all’anno della sua morte nel 1997 in occasione del cinquantenario della fondazione del Piccolo Teatro di Milano.
Dagli archivi del Piccolo riportiamo uno stralcio dagli appunti di regia che Strehler scriveva per i programmi di sala dello spettacolo. archivio.piccoloteatro.org

Appunti di regia Arlecchino tournée 1954
Riflessioni sullo spettacolo pubblicate sul programma di sala in occasione della tournée in America Latina del 1954
Un segno di continuità.
Recitato per la prima volta dal Piccolo Teatro nel corso del suo primo anno di vita, Il servitore di due padroni di Carlo Goldoni (da noi poi chiamato Arlecchino servitore di due padroni, per indicare più chiaramente ai pubblici stranieri il carattere della commedia) è diventato, a poco a poco, il segno della continuità ideale del nostro lavoro e al tempo stesso una bandiera.
Sette anni fa, il nostro Arlecchino segnava in Europa, alla fine di una sanguinosa guerra che aveva ceduto il suo inevitabile debito di sconforto e di disperazioni per tanti, il ritrovamento di alcuni eterni valori di poesia e al tempo stesso di un messaggio di fiducia per gli uomini, attraverso la liberazione del riso più aperto, del gioco più puro. Era il teatro che, con i suoi attori, ritornava (o tentava di ritornare) alle fonti primitive di un avvenimento scenico dimenticato, attraverso le vicende della storia, e indicava un cammino di semplicità, di amore e di solidarietà ai pubblici contemporanei. Era il teatro che riscopriva (se così si può dire) una sua epoca gloriosa: la Commedia dell’Arte, non più come un fatto intellettuale, ma come un esercizio di vita presente, operante. Questo forse fu il punto che più chiaramente distinse la nostra fatica da quella di tanti altri interpreti che ci avevano preceduto sulla stessa strada.
(…)
Il mondo degli equivoci si muove vertiginosamente attorno alla figura misteriosa ed eterna di Arlecchino. Si varcano qui i limiti del logico e del possibile. L’assurdo nella sua forza più piena ed assoluta entra sul palcoscenico e non spaventa. Anzi ci trasporta in un mondo più facile, in cui tutti i nodi si sciolgono e infine ci trascina nell’empireo del grande teatro comico che è tutto un inno gioioso di liberazione e di felicità di esistere.
Abbandonarsi a questa “felicità”, senza peso e senza tempo, è tutto quello che noi chiediamo a noi stessi e a coloro che ci ascoltano.
Sappiamo che quando un tale miracolo avviene si accende, se pur per un attimo, nel nostro cuore una scintilla che lascia la sua incancellabile traccia di calore e di umanità.

La scena XV dell’ atto II prende luogo nella locanda di Brighella,dove alloggiano Florindo e Beatrice. Essi sono giunti a Venezia in cerca l’uno dell’altra. Arlecchino si vede costretto a soddisfare le esigenze dei suoi due padroni e fa di tutto purché l’inganno non venga svelato. In questa scena, è impegnato a servire contemporaneamente la cena a entrambi. Truffaldino porta da solo ogni portata ai padroni e non lascia far nulla ai camerieri.

SCENA QUINDICESIMA
Un Cameriere con un piatto, poi Truffaldino, poi Florindo, poi Beatrice ed altri Camerieri.
CAMERIERE: Quanto sta costui a venir a prender le vivande?                                                   TRUFFALDINO (dalla camera): Son qua, camerada; cossa me deu?
CAMERIERE: Ecco il bollito. Vado a prender un altro piatto (parte).
TRUFFALDINO: Che el sia castrà, o che el sia vedèllo? El me par castrà. Sentimolo un pochetin (ne assaggia un poco). No l’è né castrà, né vedèllo: l’è pegora bella e bona (s’incammina verso la camera di Beatrice).

FLORINDO: Dove si va? (l’incontra).                                                                                   TRUFFALDINO: (Oh poveretto mi!).                                                                                       FLORINDO: Dove vai con quel piatto?
TRUFFALDINO: Metteva in tavola, signor.
FLORINDO: A chi?
TRUFFALDINO: A vussioria.
FLORINDO: Perché metti in tavola prima ch’io venga a casa?
TRUFFALDINO: V’ho visto a vegnir dalla finestra. (Bisogna trovarla).
FLORINDO: E dal bollito principi a metter in tavola, e non dalla zuppa?
TRUFFALDINO: Ghe dirò, signor, a Venezia la zuppa la se magna in ultima.
FLORINDO: Io costumo diversamente. Voglio la zuppa. Riporta in cucina quel piatto.
TRUFFALDINO: Signor sì la sarà servida.
FLORINDO: E spicciati, che voglio poi riposare.
TRUFFALDINO: Subito (mostra di ritornare in cucina).
FLORINDO: (Beatrice non la ritroverò mai?) (entra nell’altra camera in prospetto).
Truffaldino, entrato Florindo in camera, corre col piatto e lo porta a Beatrice.
CAMERIERE: (torna con una vivanda) E sempre bisogna aspettarlo. Truffaldino (chiama).
TRUFFALDINO: (esce di camera di Beatrice) Son qua. Presto, andè a parecchiar in quell’altra camera, che l’è arrivado quell’altro forestier, e portè la minestra subito.
CAMERIERE: Subito (parte).
TRUFFALDINO: Sta piatanza coss’èla mo? Bisogna che el sia el fracastor (assaggia). Bona, bona, da galantomo (la porta in camera di Beatrice. Camerieri passano e portano l’occorrente per preparare la tavola in camera di Florindo). Bravi. Pulito. I è lesti come gatti (verso i Camerieri). Oh se me riuscisse de servir a tavola do padroni; mo la saria la gran bella cossa. (Camerieri escono dalla camera di Florindo e vanno verso la cucina). Presto, fioi, la menestra.     CAMERIERE: Pensate alla vostra tavola, e noi penseremo a questa (parte).
TRUFFALDINO: Voria pensar a tutte do, se podesse. (Cameriere torna colla minestra per Florindo). Dè qua a mi, che ghe la porterò mi; andè a parecchiar la roba per quell’altra camera. (Leva la minestra di mano al Cameriere e la porta in camera di Florindo).

CAMERIERE: E’ curioso costui. Vuol servire di qua e di la. Io lascio fare: già la mia mancia bisognerà che me la diano. Truffaldino esce di camera di Florindo.
BEATRICE: Truffaldino (dalla camera lo chiama).
CAMERIERE: Eh! servite il vostro padrone (a Truffaldino).
TRUFFALDINO: Son qua (entra in camera di Beatrice; i Camerieri portano il bollito per Florindo).
CAMERIERE: Date qui (lo prende).
Camerieri partono.Truffaldino esce di camera di Beatrice con i tondi sporchi.
FLORINDO: Truffaldino (dalla camera lo chiama forte).
TRUFFALDINO: De qua (vuol prendere il piatto del bollito dal Cameriere).
CAMERIERE: Questo lo porto io.
TRUFFALDINO: No sentì che el me chiama mi? (gli leva il bollito di mano e lo porta a Florindo).
CAMERIERE: È bellissima. Vuol far tutto. (I Camerieri portano un piatto di polpette, lo danno al Cameriere e partono).
CAMERIERE: Lo porterei io in camera, ma non voglio aver che dire con costui. (Truffaldino esce di camera di Florindo con i tondi sporchi). Tenete, signor faccendiere; portate queste polpette al vostro padrone.
TRUFFALDINO: Polpette? (prendendo il piatto in mano).
CAMERIERE: Sì, le polpette ch’egli ha ordinato (parte).
TRUFFALDINO: Oh bella! A chi le òi da portar? Chi diavol de sti padroni le averà ordinade? Se ghel vago a domandar in cusina, no voria metterli in malizia; se fallo e che no le porta a chi le ha ordenade, quell’altro le domanderà e se scoverzirà l’imbroio. Farò cussi… Eh, gran mi! Farò cusì; le spartirò in do tondi, le porterò metà per un, e cusì chi le averà ordinade, le vederà (prende un altro tondo di quelli che sono in sala, e divide le polpette per metà). Quattro e quattro. Ma ghe n’è una de più. A chi ghe l’òia da dar? No voi che nissun se n’abbia per mal; me la magnerò mi (mangia la polpetta). Adesso va ben. Portemo le polpette a questo (mette in terra l’altro tondo, e ne porta uno da Beatrice).
CAMERIERE: (con un bodino all’inglese) Truffaldino (chiama)
TRUFFALDINO: Son qua (esce dalla camera di Beatrice).
CAMERIERE: Portate questo bodino…
TRUFFALDINO: Aspettè che vegno (prende l’altro tondino di polpette, e lo porta a Florindo).
CAMERIERE: Sbagliate; le polpette vanno di la.
TRUFFALDINO: Sior si, lo so, le ho portade de là; e el me padron manda ste quattro a regalar a sto forestier (entra). CAMERIERE: Si conoscono dunque, sono amici. Potevano desinar insieme.
TRUFFALDINO: (torna in camera di Florindo) E cusì, coss’elo sto negozio? (al Cameriere).
CAMERIERE: Questo è un bodino all’inglese.
TRUFFALDINO: A chi valo?
CAMERIERE: Al vostro padrone (parte).
TRUFFALDINO: Che diavolo è sto bodin? L’odor l’è prezioso, el par polenta. Oh, se el fuss polenta, la saria pur una bona cossa! Voi sentir (tira fuori di tasca una forchetta). No l’è polenta, ma el ghe someia (mangia). L’è meio della polenta (mangia).
BEATRICE: Truffaldino (dalla camera lo chiama).
TRUFFALDINO: Vegno (risponde colla bocca piena).
FLORINDO: Truffaldino (lo chiama dalla sua camera).
TRUFFALDINO: Son qua (risponde colla bocca piena, come sopra). Oh che roba preziosa! Un altro bocconcin, e vegno (segue a mangiare).
BEATRICE: (esce dalla sua camera e vede Truffaldino che mangia; gli dà un calcio e gli dice) Vieni a servire (torna nella sua camera). Truffaldino mette il bodino in terra, ed entra in camera di Beatrice.
FLORINDO: (esce dalla sua camera) Truffaldino (chiama). Dove diavolo è costui?
TRUFFALDINO: (esce dalla camera di Beatrice) L’è qua (vedendo Florindo).
FLORINDO: Dove sei? Dove ti perdi?
TRUFFALDINO: Era andà a tor dei piatti, signor.
FLORINDO: Vi è altro da mangiare?
TRUFFALDINO: Anderò a veder.
FLORINDO: Spicciati, ti dico, che ho bisogno di riposare (torna nella sua camera).
TRUFFALDINO: Subito. Camerieri, gh’è altro? (chiama). Sto bodin me lo metto via per mi (lo nasconde).
CAMERIERE: Eccovi l’arrosto (porta un piatto con l’arrosto).
TRUFFALDINO: Presto i frutti (prende l’arrosto).
CAMERIERE: Gran furie! Subito (parte).
TRUFFALDINO: L’arrosto lo porterò a questo (entra da Florindo).
CAMERIERE: Ecco le frutta, dove siete? (con un piatto di frutta).
TRUFFALDINO: Son qua (di camera di Florindo).
CAMERIERE: Tenete (gli dà le frutta). Volete altro?
TRUFFALDINO: Aspettè (porta le frutta a Beatrice).
CAMERIERE: Salta di qua, salta di là; è un diavolo costui. TRUFFALDINO Non occorr’altro. Nissun vol altro.
CAMERIERE: Ho piacere.
TRUFFALDINO: Parecchiè per mi.
CAMERIERE: Subito (parte).
TRUFFALDINO: Togo su el me bodin; evviva, l’ho superada, tutti i è contenti, no i vol alter, i è stadi servidi. Ho servido a tavola do padroni, e un non ha savudo dell’altro. Ma se ho servido per do, adess voio andar a magnar per quattro (parte)

L’Illuminismo

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Gli scrittori inglesi del diciottesimo secolo parlano di Illuminismo, per indicare un movimento e un periodo storico, che si estende per tutto il secolo. L’Illuminismo ha inizio in Inghilterra verso la fine del Seicento con la Gloriosa Rivoluzione e gli scritti di Locke e Bayle, la sua fine viene solitamente collocata nel 1776 con la Dichiarazione d’Indipendenza americana  o nel 1789 con la Rivoluzione Francese. Nel corso del Settecento, soprattutto in Francia e in Inghilterra, si svilupparono gli ideali propri dell’Illuminismo. Tutte le nazioni europee diedero importanti contributi al movimento.

Che cos’è l’Illuminismo
L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso” Questa è una citazione dall’articolo di Kant Che cos’è l’illuminismo, uscito nel 1784 sulla Rivista mensile di Berlino, nel quale Kant evidenzia la carica emancipatrice del movimento e valorizza l’uso autonomo della ragione. Minorità è infatti l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Questo stato di minorità è imputabile a se stesso perché l’uomo non ha coraggio di usare autonomamente il proprio intelletto. Kant afferma: “Sapere aude”, cioè “abbi il coraggio di conoscere”.

I fini pratici della ragione e la “metafora della luce”
Gli illuministi affermano che la ragione umana non basta a se stessa per conoscere e la richiamano ad osservare i dati empirici. Lo scopo della riflessione e dell’indagine scientifica è l’utilità pratica, cioè i benefici che tali elaborazioni possono offrire alla società. Gli intellettuali del Settecento, che si sentivano partecipi di un periodo di grandi cambiamenti, celebravano i traguardi raggiunti attraverso la “metafora della luce”: la luce della ragione scaccia le tenebre dell’ignoranza.

Philosophie
In Francia la cultura degli illuministi prende il nome di philosophie e philosophes si appellarono i suoi esponenti. I philosophes condividevano il modo di concepire e praticare l’attività intellettuale e di intendere la funzione sociale del filosofo. Sostenevano che la guida della filosofia doveva essere la filantropia, l’amore per l’uomo, il loro scopo era di contribuire alla felicità degli uomini. L’uomo e il mondo erano gli oggetti del sapere, i valori e gli obiettivi erano mondani e umani. I problemi religiosi furono messi da parte e furono sostituiti dal problema della giustizia tra gli uomini e della felicità sulla terra.

La critica alla società
Ogni aspetto della realtà fu messo in discussione. In particolare furono criticate l’autorità, la tradizione e gli antichi modelli di comportamento. Denis Diderot afferma nell’Enciclopedia: “bisogna esaminare tutto, buttare all’aria tutto, senza eccezioni e senza riguardi”. Sulle basi di tale ideale si svilupparono il deismo come critica alla Chiesa e il dispotismo illuminato come riforma dello Stato assolutistico.
Il deismo, orientamento di pensiero nato in Inghilterra, riconosceva l’esistenza di un Dio come principio creatore e ordinatore del mondo e assunse tra il XVII e il XVIII un significato polemico contro le religioni storiche, le chiese, contro l’idea di rivelazione o di mistero, in nome della ragione e della libertà di coscienza. La cultura dei Lumi, deistica, atea e materialistica, attaccò le istituzioni ecclesiastiche, ne contestò i privilegi e il potere e imputò alla Chiesa la responsabilità dell’ignoranza popolare che frenava il progresso sociale.
In ambito politico il movimento illuminista si contraddistinse per un comune ideale riformatore che si incarnò nel dispotismo illuminato. Il dispotismo illuminato prevedeva l’accettazione dell’assolutismo come forma di governo e la collaborazione tra illuministi e monarchi per la realizzazione delle riforme.

Una nuova idea di Stato
La visione illuministica della politica si fondava sul giusnaturalismo contrattualista. Il giusnaturalismo è una tendenza di pensiero fondata su due principi: l’esistenza per ogni uomo di un diritto naturale e la superiorità del diritto naturale rispetto al diritto positivo, cioè il diritto prodotto dall’uomo che si deve basare sul diritto naturale. Il giusnaturalismo è detto contrattualista perché sostiene che lo Stato deve nascere da un contratto tra i singoli uomini, che decidono di uscire dallo stato di natura – dove sono eguali e liberi, ma privi di garanzie – e di formare una società civile sottomettendosi volontariamente a un potere sovrano. In questa prospettiva nasce una concezione di Stato opposta a quella fino ad allora tradizionale: lo Stato si fonda sul dovere del sovrano di rispettare e proteggere i diritti dell’individuo. Si afferma la consapevolezza che per tutelare gli individui è necessario regolare, limitare e controllare il potere del sovrano. Vengono elaborate quindi le teorie della sovranità della legge e della divisione dei poteri.

Il cosmopolitismo
Gli illuministi si dichiarano cosmopoliti ovvero“cittadini del mondo”. Questa idea, già conosciuta e diffusa nel mondo antico greco e latino, ritorna in auge nel Settecento. Il cosmopolitismo illuministico, erede dell’antico, si richiama al principio dell’universalità della natura e della ragione umana, all’esistenza di una legge naturale comune a tutti gli uomini postulata dal giusnaturalismo, all’idea della fratellanza e uguaglianza di tutti gli uomini. Gli illuministi criticano il concetto di patria, denunciando la sua natura utilitaristica ed egoistica “Tale è dunque la condizione umana, che desiderare la grandezza del proprio paese è desiderare il male dei propri vicini. Chi volesse che la propria patria non fosse mai né più grande né più piccola, né più ricca né più povera, sarebbe cittadino dell’universo.” (Patria in Dizionario filosofico, Voltaire)

La circolazione delle idee
L’illuminismo ebbe come centro principale la Francia, ma si diffuse in tutta Europa nel XVIII secolo grazie a svariati canali comunicativi. Giocarono un ruolo importante le istituzioni culturali e i nuovi luoghi della socialità borghese come le accademie, le società scientifiche e i caffè, insieme a novità come la stampa periodica e il mercato librario. In questo contesto nacque l’opinione pubblica che assunse sempre più potere di fronte ai governi. All’opinione pubblica si rivolgevano i massimi esponenti dell’illuminismo che volevano dare vita a una coscienza collettiva, e che partecipavano alla “vita activa”, cioè alla vita politica e sociale.

Voltaire e Montesquieu
Tra i maggiori esponenti dell’illuminismo francese ve ne furono due che manifestarono un forte legame con la cultura inglese: Voltaire e Montesquieu. Voltaire si impegnò nella lotta contro il dogmatismo e il fanatismo religioso per diffondere il valore della tolleranza e contestare ogni forma di potere arbitrario. Indicò inoltre le prospettive riformatrici nell’organizzazione della convivenza sociale. Tra le sue opere politiche più importanti troviamo il Trattato sulla tolleranza, scritto tra il 1761 e il 1763, che si inspirò a un caso di fanatismo religioso avvenuto in quegli anni in Francia: Jean Calas, un commerciante ugonotto, fu torturato e condannato a morte per motivi religiosi, mentre la famiglia fu esiliata e privata di tutti i beni.
L’opera più famosa di Voltaire è il Candido pubblicato nel 1759. Candido è un giovane che vive in Vestfalia nel castello del barone di Thunder-den-Tronckht insieme alla figlia del barone, Cunegonda, di cui Candido è innamorato, e al suo maestro Pangloss. Candido, scoperto mentre bacia Cunegonda, viene cacciato da castello. Hanno inizio le sue straordinarie avventure in giro per il mondo alla ricerca di Cunegonda che era stata rapita. La trama è molto complessa, ricca di bizzarri episodi e avventure di ogni genere. I tre protagonisti sono spesso alle prese con disgrazie e sciagure. Particolare in questo romanzo è infatti la visione pessimistica di Voltaire, in contrasto con l’ottimismo che era attribuito agli illuministi.
Montesquieu invece ideò una teoria costituzionale di enorme importanza, tanto da influenzare la politica e le scelte politiche di tutti gli stati europei negli anni a venire. Tale teoria era la teoria della divisione dei poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario, all’interno dello stato, che venne descritta nell’opera Lo spirito delle leggi del 1748. In ambito narrativo bisogna ricordare le Lettere persiane, scritte nel 1721. Queste lettere sono una satira rivolta alla società francese, criticata nei suoi usi e costumi dai due giovani protagonisti persiani, Usbek e Rica, che in visita a Parigi raccontano ai loro amici in Persia quello che vedono e fanno.

Encyclopédie
L’opera venne scritta tra il 1751 e il 1766. La progettazione dell’Encyclopédie fu affidata a Diderot e D’Alembert coadiuvati da quasi duecento intellettuali di varia estrazione sociale e culturale e che comprendevano anche i nomi più rappresentativi dell’Illuminismo. La Chiesa e la Monarchia ostacolarono la realizzazione dell’Enciclopedia perché diffondeva idee che minacciavano la loro autorità. I volumi dell’enciclopedia presentavano infatti un carattere eterodosso percepito come una minaccia per le due istituzioni. Lo scopo dell’ Enciclopedia era di trasmettere la conoscenza fino allora raggiunta dall’uomo e di diffondere le nuove idee degli illuministi.

Jean Jacques Rousseau
Illuminista originale e solitario Rousseau interruppe la collaborazione intellettuale con gli illuministi dell’Enciclopedia intorno alla metà del Settecento. Nel 1762 pubblicò le sue riflessioni politiche nel Contratto sociale. In questo scritto Rousseau elabora un modello di società politica fortemente democratica, in cui la sovranità è attribuita a tutti i cittadini dello Stato, le colonne portanti di questo modello sono l’uguaglianza e la libertà dei cittadini. Rousseau si ispirava alle città a democrazia diretta del mondo antico e proponeva un modello di organizzazione sociale fortemente innovativo.

Le scuole economiche
Nel Settecento nascono alcune diverse scuole di pensiero economico: la fisiocrazia e il liberismo. I fisiocrati, Francois Quesnay, sostenevano la superiorità del settore agricolo, ritenuto l’unico capace di produrre vera ricchezza, su tutti gli altri e si battevano contro i mercantilisti che erano protezionisti, per l’abbattimento dei dazi sui cereali e delle dogane. I liberisti, Adam Smith, David Ricardo, sostenevano che il progresso deriva dalla libera iniziativa privata e accusavano il precedente sistema feudale e le politiche mercantiliste degli antichi regimi. Il loro programma era incentrato sugli interessi della borghesia, sulla proprietà privata, sulla libera iniziativa economica e il libero scambio.

L’Illuminismo in Italia
L’Illuminismo si diffuse ampiamente anche in Italia. A Milano nacque l’Accademia dei Pugni sotto la direzione di Pietro Verri, che tra il 1764 e il 1766 pubblicò il periodico Il Caffè. Un milanese, Cesare Beccaria, membro dell’Accademia dei Pugni, scrisse il testo più rappresentativo dell’Illuminismo italiano, Dei delitti e delle pene del 1764, nel quale trattò i temi della tortura, della pena di morte e individuò i fondamenti del diritto penale moderno. L’altro principale centro dell’Illuminismo italiano fu Napoli dove vissero e operarono Giannone, Genovesi, Filangieri e altri importanti illuministi, che si occuparono di diritto ed economia.

(fonte: Illuminismo in Dizionario di storia, Treccani, 2010)

Umana cosa (Rai Tre): 1313-2013 in occasione dei settecento anni dalla nascita di Boccaccio

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Rai Tre Umana cosa:  21/09/2013 – 04/01/2014

Prima puntata 21/09/2013: il Proemio.
COMINCIA IL LIBRO CHIAMATO DECAMERON, COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO, NEL QUALE SI CONTENGONO CENTO NOVELLE, IN DIECE DÌ DETTE DA SETTE DONNE E DA TRE GIOVANI UOMINI.

Umana cosa è aver compassione degli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto, li quali già hanno di conforto avuto mestiere, et hannol trovato in alcuni: fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovanezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d’altissimo e nobile amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato, e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava un tempo stare, più di noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia morto.

Ma sì come a Colui piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn’altro fervente e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per sè medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sè nella mente m’ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette né suoi più cupi pelaghi navigando; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso.

Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benefici già ricevuti, datimi da coloro à quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche: ne passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre virtù è sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abbisogna, a quegli almeno a qual fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio sostenta mento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia à bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e si ancora perché più vi fia caro avuto.

E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro à dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate: e oltre a ciò, ristrette dà voleri, dà piaceri, dà comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopravviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l’animo a sè e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore.

Adunque, acciò che in parte per me s’ammendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all’altre è assai l’ago e ’l fuso e l’arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso, tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto.

Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia; a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi dà suoi legami m’ha conceduto il potere attendere à lor piaceri.