Archivio mensile:Giugno 2016

Una buona occasione. L’importanza di scrivere con onestà contro l’indifferenza di Virginia Pignata VAL a.s. 2015/16

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Una buona occasione pdf

“Non c’è più bellezza e conforto se non nello sguardo che fissa l’orrore, gli tiene testa, e, nella coscienza irriducibile della negatività, ritiene la possibilità del meglio.” T. Adorno

Virginia Pignata V AL a.s. 2015/16

INTRODUZIONE
Decidere un giorno di smettere di mangiare animali è stato per me come un punto zero: mettermi di fronte a immagini dolorose, violenze innecessarie è stato un duro bagno di verità, ma mi ha permesso di vedere il mondo con una lente diversa. Tante cose che mi definiscono oggi partono da lì. Imparare ad amare gli animali mi ha insegnato ad amare gli uomini, partendo dal principio che nessuna vita vale più di qualsiasi altra, mai, che la violenza non è mai lecita, non è mai lecita la discriminazione, e che anche singoli, piccoli ceppi di bene sanno moltiplicarsi veloci; e che sì, se pur piccola, una differenza è sempre possibile farla.
Qualche mese fa sono stata al cinema a vedere Fuocoammare, documentario meritatamente premiato di Gianfranco Rosi: una poesia gentile e discreta sulla realtà triste di una tra le isole più belle e intrise di tragedia del mondo intero: Lampedusa. Fuocoammare non ostenta nulla, perché nulla c’è da ostentare. Con poche parole, attraverso l’anima curiosa di un protagonista bambino dagli occhi furbi e limpidi, Fuocoammare racconta della tragedia che macchia la nostra terra e le nostre coscienze di sangue umano, lo stesso che oggi, qui, scorre nelle mie vene, e mi rende viva. Di vivo invece, di uomini che forse più di molti la vita l’hanno amata proprio da morire, non resta più nulla. Non sapremo il nome del loro primo amore, cosa sognavano da bambini, se di bambini ne avevano o volevano averne, come li avrebbero chiamati; di loro non conosciamo nemmeno il nome, l’età, non abbiamo famigliari da avvertire, funerali da celebrare, corpi da seppellire, e onorare. Solo numeri, sterili e freddi, che sentiamo ripetere incessantemente, insieme alle proteste di molti per tenere questi numeri (numeri certo, ormai numeri prima che uomini) il più bassi e conciliabili con le nostre esigenze da occidentali privilegiati possibile. Fuocoammare mi ha fatto sentire arrabbiata, impotente e piccola. Mi sono sentita di abitare ingiustamente la vita che vivo, con un privilegio di nascita che non mi sono mai meritata, che tutte le mie preoccupazioni sono inutili e superficiali in confronto al loro disperato desiderio di vita e pace, che se esiste qualcosa che io posso fare per loro, non lo sto facendo. Ma la rabbia non serve, e così la tristezza, ed è valida e giusta la mia vita tanto quanto quella di ogni altro uomo. Sta a me però, renderla di una qualche utilità. Io non credo nella guerra, se non in quella che si combatte con una penna in una mano e l’altra mano sul cuore. Credo nel potere delle parole e dell’onestà, credo nel dialogo e nella condivisione, nel guardarsi negli occhi e riconoscersi uomini. Per questo oggi ho deciso di parlare di chi una differenza l’ha fatta, uomini e donne che hanno svolto il proprio compito con elegante sapienza, con coraggio e gentilezza, che hanno saputo scrivere per gli uomini tutti (ed esiste a tal proposito una bella parola collettiva che si dovrebbe usare di più: umanità), per creare una cultura di pace, disintegrare il conformismo, smascherare la menzogna, screditare l’odio. Uomini prima che scrittori, tutti appartenenti, al di là delle generazioni, a quella categoria che Romano Luperini definisce dei nuovi intellettuali, che “non hanno più nulla della figura tradizionale dell’intellettuale-uomo di cultura, orgoglioso della propria missione individuale e della singolarità del proprio sapere-potere. Della loro passata funzione probabilmente conservano solo questo: la volontà di capire e di intervenire con la loro voce. Tutto sommato, non è poco.” Riconoscere l’indifferenza, esporla e denudarla, per cercare una ricetta che la abbatta, la rada al suolo e ne disperda i resti, per potercene un giorno ricordare come della più letale e spietata tra le malattie, che ha ucciso tanti e condannato nessuno, poiché mai nessuno ha saputo realmente di esserne affetto. Ecco allora che per curare occorre diagnosticare, e nessuna parola appare più inutile o di poco conto. Parlare di uomini, della pietas che ci muove e avvicina l’un l’altro: questo significa già farla, la guerra, ma una guerra per la non-violenza, che non si combatte contro nessuno, ma insieme a tutti. La letteratura la rivoluzione la fa così.

ITALIANO Lettere contro la guerra, Tiziano Terzani
Tiziano Terzani (1938-2004) è stato per 30 anni corrispondente dall’Asia per Der Spiegel, settimanale tedesco, e in seguito Repubblica e Corriere della Sera. Si è sempre trovato in prima linea nei luoghi in cui si faceva la Storia: ha seguito l’ascesa del comunismo in Cina, per condannarne poi con delusione e amarezza i risultati, ma anche la guerra in Vietnam, il crollo dell’Unione Sovietica, sempre con uno sguardo lucido e onesto. La ricerca della verità è stata il filo conduttore della sua vita e della sua carriera: la verità delle cose, senza fronzoli e giri di parole, al di là delle ideologie e della retorica, dei pregiudizi e delle cose taciute. Nel 2002 Terzani pubblica Lettere contro la guerra, una raccolta di lettere senza alcun destinatario se non l’umanità stessa. La prima, intitolata Una buona occasione, compare sul Corriere della Sera il 14 settembre 2001, pochi giorni dopo l’attentato alle Torri gemelle: per Terzani è questa una buona occasione per riflettere, ripensare al nostro modo di abitare il mondo, al nostro modo di essere occidentali; ripensare all’ideale della globalizzazione, della democrazia e collocarlo in contesti e realtà diverse dalla nostra, dove forse non funziona ugualmente bene, ammesso funzioni bene anche qui, s’intende. Ripensare alla diversità, ma soprattutto all’uguaglianza. E dalla rabbia, dal dolore, imparare. Non era quella l’occasione per fare la guerra, scrisse Terzani, ma piuttosto una buona occasione per fare finalmente la pace. “L’ecatombe di New York ci ha dato l’occasione di ripensare a tutto e ci ha messo dinanzi a nuove scelte. Se vogliamo capire il mondo in cui siamo, dice Terzani, lo dobbiamo vedere nel suo insieme e non solo dal nostro punto di vista.“ E ricordare, ad esempio, che prima della tragedia delle Torri ci fu anche il mezzo milione di morti, molti dei quali bambini, a causa della malnutrizione e la miseria generate dall’embargo posto dagli USA all’Iraq di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo. Il nemico non sta mai da una parte sola. Offrire un solo racconto di una storia è pericoloso, come raccontò anche la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie.
In un discorso tenuto presso la sede TED, ‘The danger of a single story’, la Adichie, appartenente per nascita alla classe media del suo paese, racconta dello stupore della sua coinquilina al college, negli Stati Uniti, nello scoprire che in Nigeria si parlasse inglese, e che Chimamanda non ascoltasse musica tribale, ma Mariah Carey. Chimamanda le faceva già pena ancor prima di incontrarla. La sua posizione di partenza verso di lei, come africana, era una specie di pietà condiscendente, e piena di buone intenzioni. La sua coinquilina aveva una storia unica dell’Africa. Una storia unica di catastrofi. In questa storia unica, non c’era alcuna possibilità che gli africani le somigliassero, in alcun modo. Nessuna possibilità di sentimenti più complessi della pietà. Nessuna possibilità di rapportarsi tra esseri umani di pari livello. La Adichie, dice, il perché è riuscita a capirlo in pochi anni stando in America: se non fosse cresciuta in Nigeria, e se tutto quel che avesse saputo dell’Africa fosse derivato da immagini mediatiche, anche lei avrebbe pensato che l’Africa fosse un continente dalla natura incontaminata, popolato da animali esotici e persone incomprensibili, che combattono guerre senza senso, che muoiono di povertà e AIDS, incapaci di far sentire la propria voce, che aspettano solo di essere salvati da uno straniero, bianco e gentile.
La realtà è sempre più variegata di qualsiasi definizione se ne possa dare. L’unico mezzo, forse, di cui disponiamo per tutelarci dal pericolo di un racconto unico, cioè un’unica limitata prospettiva, è quello di offrirne molteplici. Tiziano Terzani ha sempre cercato di farlo, con onestà, sincero rispetto e attitudine critica. “Fino a quando penseremo di avere il monopolio del bene, fino a che parleremo della nostra come la civiltà, ignorando le altre, non saremo sulla buona strada. Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo.” Oriana Fallaci, come lui giornalista e scrittrice, rispose pubblicamente alla lettera aperta di Terzani con parole cariche di rabbia e risentimento, con ricette di guerra a quello che lei indiscutibilmente definì come inesorabile scontro di civiltà, offrendo forse infine una storia unica, quella dell’Islam invasore, quella dell’inevitabile e fatale scontro di civiltà. Ma la realtà è sempre molto più complessa. Oriana e Tiziano ebbero simile formazione: entrambi fiorentini, entrambi giornalisti. Da corrispondenti di guerra ne avevano entrambi conosciuto l’orrore e la disumanità. Eppure questo ad Oriana non era bastato a riconoscerne l’assurdità.
“(…) pensi davvero, chiede Terzani nella lettera aperta in risposta ad Oriana, che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa.” Ad Oriana, dice Terzani, i kamikaze non interessano. Non le interessa capire le loro motivazioni, cosa li renda disposti ad un atto tanto innaturale come il suicidio. Terzani invece ha voluto andare tra loro, capire cosa nel profondo li muova verso la violenza più estrema e distruttiva tanto da annullarsi, votarsi completamente ad essa. Per risolvere il problema del terrorismo non basterà infatti uccidere i terroristi, ma eliminare le ragioni che li rendono tali, per impedire che nuovi germi di odio si insinuino in altrettanti giovani e li animino alla più distruttiva delle vocazioni: la guerra. “Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.” L’indifferenza nasce dalla volontà di non voler capire, perché sapere, comprendere, significherebbe percepire l’obbligo morale che ci impone di agire, batterci per ciò che riteniamo ingiusto e immorale, ed è una consapevolezza scomoda, perché impone un cambiamento. E l’uomo, per natura, tende a fuggire il cambiamento. L’indifferenza nasce dall’ignoranza, e dalla volontà di preservarla tale. O ancora, dal naturalissimo meccanismo umano della rimozione, consapevole o inconsapevole, che ci permette di continuare a vivere come se niente fosse. Questo produce un terreno arido alle riflessioni di pace, ma fertile all’odio. La paura, i pregiudizi e le soluzioni semplicistiche ben vi s’insinuano e prolificano, e in questo senso vanno le esortazioni di Oriana: tolgono il dubbio, non lasciano spazio alla possibilità di riconsiderare e criticare, sono perentorie e ferme. Il dubbio è però fondamentale, è funzione essenziale del pensiero, privarcene sarebbe come togliere l’aria ai nostri polmoni. Dubitare significa ammettere di non avere risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo, scrive, non fa il politico), ma porsi domande oneste su quelle altrui. Questo è lecito ed essenziale. Non deve quindi essere criminale parlare di pace in tempi di guerra, semmai il contrario, aggiungerei io. E’ questo il loro compito, in quanto giornalisti e persone libere, con la responsabilità di chi si rivolge a un pubblico ed è in grado di influenzarlo e orientarlo. Hanno il compito di creare e non mettere i presupposti per distruggere, “creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia”. “Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e, non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche delle grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto a “creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia”.” Nella lettera conclusiva della raccolta, Terzani riporta in un passaggio le parole di Gino Strada, fondatore di Emergency, “La guerra non rompe solo le ossa della gente, rompe i rapporti umani”. La guerra è una cosa semplice, non servono giri di parole per descriverla. E’ distruzione, disgregazione e annullamento di tutto ciò che ci rende uomini. Arma fondamentale per debellarla è la comunicazione. Ecco cosa dovremmo promuovere per favorire la pace: comunicazione, parole, dialoghi aperti, non l’odio, che genera solo altro odio, non la violenza, che si autoalimenta in un circolo suicida. Cosa fare? Opporsi! Votando chi non appoggia la politica bellica, l’industria delle armi, la militarizzazione della società. Dicendo ciò che sentiamo essere vero: che ammazzare è in ogni circostanza un assassinio. Parlando di pace, creando una cultura di pace nei giovani, nelle scuole. Cominciando a prendere le decisioni che ci riguardano e che riguardano gli altri sulla base di più moralità e meno interesse. Facendo più quello che è giusto, invece di quel che ci conviene. Educando i figli ad essere onesti, non furbi. Impegnandosi per i valori in cui si crede. Visti dal punto di vista del futuro, scrive Terzani, questi sono ancora i giorni in cui è possibile fare qualcosa. Facciamolo. A volte ognuno per conto suo, a volte tutti assieme. Ogni contributo è importante. Tutte queste guerre, il terrore con cui conviviamo, il dolore delle morti inutili e innocenti: questa è una buona occasione per invertire la rotta, orientarsi alla pace, alla bellezza. Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma certo non è preferibile né in alcun modo auspicabile l’abbrutimento che ci sta davanti.
Pro o contro la bomba atomica, Elsa Morante
Nata, nel 1912, da genitori di modesta condizione, in un affollato casamento romano, come scrisse lei stessa nella sopraccoperta di un suo libro, Elsa Morante è stata scrittrice, saggista, poetessa e traduttrice. Collaborò con il cinema, in particolare modo per i film dell’amico Pierpaolo Pasolini.
Tra i suoi romanzi ricordiamo: Menzogna e sortilegio (’48), L’isola di Arturo (’57), La storia (’74), Aracoeli (’82). Elsa Morante è stata una testimone acuta e libera del secolo breve e delle sue innumerevoli contraddizioni, sempre con estrema indipendenza, disancorata da qualsiasi corrente o gruppo.
Pro o contro la bomba atomica è un breve saggio di grande impegno morale, in cui la Morante espone con coraggio e chiarezza la sua poetica. E’ tratto da una conferenza che l’autrice tenne più volte nel 1965, nel pieno della guerra fredda e della minaccia atomica. E’ un argomento, dice, di cui non ci si deve stupire che lei parli, poiché nessun argomento più di questo interessa oggi uno scrittore. Uno scrittore, non un letterato, dice la Morante: uno scrittore è infatti un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura. “(…) l’aggettivo atomico viene ripetuto in ogni occasione, perfino nelle barzellette e sui rotocalchi. Ma, riguardo al significato pieno e sostanziale dell’aggettivo, la gente, come succede, se ne difende, per lo più, con una (del resto, perdonabile) rimozione. E anche quei pochi che riconoscono l’effettiva minaccia che esso significa, e se ne angosciano (e per questo, magari, vengono considerati dagli altri dei nevrotici, se non dei matti) anche quei pochi, però, si preoccupano piuttosto delle conseguenze del fenomeno, che non delle sue origini, diciamo, biografiche, e dei suoi riposti motivi.“ La minaccia atomica subisce lo stesso meccanismo umano che si applica a molte tra le più grandi preoccupazioni e colpe dell’uomo nella storia, e, a mio avviso, si applica anche oggi alla questione dei migranti, alla guerra in Medio Oriente: una rimozione, che sia cosciente o meno. Siamo infatti consapevoli e addolorati per quanto accade nel mondo, consapevoli pure che probabilmente anche in questo istante qualcuno sta affogando per il sogno di una vita in un paese libero, eppure noi continuiamo a vivere la nostra vita di ogni giorno come se la cosa non ci riguardasse o fosse troppo lontana da noi per avere una qualche minima possibilità di azione. E’ un meccanismo del tutto umano e lecito, che ci permette di distogliere la nostra mente da una consapevolezza troppo dolorosa per conciliarsi con la nostra vita. E’ istinto di sopravvivenza, si potrebbe dire: angosciarsi continuamente sarebbe infatti inutile e inabilitante. Questo però non può distogliere dall’idea di rendere la propria vita di una qualche utilità, la maggiore che è possibile offrire, che vada al di là del proprio circoscritto interesse. La bomba atomica è l’espressione, simbolo del suo tempo, dice la Morante. Si direbbe che l’umanità contemporanea provi la tentazione di disintegrarsi con una paradossale e suicida guerra atomica. Qual è, in tutto questo, il ruolo di uno scrittore? Secondo la Morante, lo scrittore è predestinato antagonista alla disintegrazione in quanto porta testimonianza del suo contrario: l’arte, dice la Morante, è infatti il contrario della disgregazione. L’arte ha il compito di restituire alla coscienza umana l’integrità del reale. La realtà è infatti una, viva, multiforme e cangiante, non esistono differenze, distanze tra gli uomini, tutti ugualmente partecipi e interdipendenti in questo gigantesco e pulsante contenitore di vita. Ecco perché non può esaurirsi in definizioni, ideologie, schieramenti, mai abbastanza grandi da darne rappresentazione fedele. L’irrealtà è invece la menzogna che uno scrittore si occupa di smascherare, è l’odio, la guerra, il conformismo, l’ipocrisia. Contro la bomba atomica non c’è che la realtà stessa, che non ha bisogno di prefabbricarsi un linguaggio, ma parla da sola. Essa è irreale e frutto della disintegrazione, l’arte per sua natura non può che esserle antagonista. Lo scrittore ha una funzione molto importante: in una folla soggetta a un imbroglio, la presenza anche di uno solo, che non si lascia imbrogliare, può fornire già un primo punto di vantaggio. Ma il punto poi si moltiplica per mille e centomila se quell’uno è uno scrittore. Anche senza accorgersene, per necessità del suo istinto, il poeta è destinato a smascherare gli imbrogli. E una poesia, una volta partita, non si ferma più; ma corre e si moltiplica, arrivando da tutte le parti, fin dove il poeta stesso non se lo sarebbe aspettato.
Un poeta faticherà a farsi ascoltare, a sovrastare il logorante rumore della noia e della alienazione, e talvolta sarà anche tentato di mandare tutti all’inferno e fuggire, ma poi, o non lo farà, o, dopo ogni fuga, ritornerà indietro: perché lui, per sua natura, ha bisogno degli altri, specie dei diversi da lui. Senza gli altri, è un uomo disgraziato. E così rimarrà sul campo: là dove ormai si espande il sistema della disintegrazione, ossia l’irrealtà. Non sarà funzionario o suddito del sistema, e nemmeno semplice estraneo o testimone, che riferisce sul sistema: giacchè l’arte, per la sua definizione propria, non può fermarsi alla denuncia: vuole altro. Compito dello scrittore è da solo, fissare in faccia i mostri aberranti generati dalla cieca paura; e smascherarne l’irrealtà. Per questo lo specchio dell’arte non è necessariamente ottimistico, né certo edulcorato o idilliaco. La purezza dell’arte non consiste nell’escludere o scansare ciò che è brutto, spiacevole, ciò che rattrista, sconforta, ma piuttosto a maggior ragione di includerlo. L’arte parla della realtà, così com’è, nella sua integrità; è liberatoria e rivoluzionaria. Theodor Adorno scrisse che “non c’è più bellezza e conforto se non nello sguardo che fissa l’orrore, gli tiene testa, e, nella coscienza irriducibile della negatività, ritiene la possibilità del meglio.” Nel punto in cui lo scrittore segnerà le sue parole sulla carta, lui compirà un atto di ottimismo. Lo scrittore è colpevole del peccato d’illusione, forse tra tutti i peccati il più nobile (come un inganno dell’immaginazione leopardiano si potrebbe dire, che dà valore e senso all’esistenza umana -non a caso infatti poeti e bambini sono i rappresentanti dell’immaginazione). L’illusione è forza positiva e generatrice, anima e dà fondamento al suo lavoro, senza per questo renderlo inconcreto, astratto, utopistico, come spesso deve sentirsi accusare chiunque trovi conforto nell’infinita bellezza dei valori, degli ideali buoni. L’ottimismo non è mai ingenuo o sconsiderato, nasce piuttosto da una consapevolezza profonda e un coraggioso rifiuto dell’orrore dell’irrealtà. “Ma infine, che razza di romanzo o di poesia dovrà scrivere il Nostro per fare, come dicono i giornali, la sua lotta? La risposta è semplice: scriverà, onestamente, quello che gli pare. “Ai poeti” ancora, disse, Umberto Saba “resta da fare la poesia onesta”. Però, basterebbe dire la poesia; perché, se è poesia, non può essere che onesta. Un poeta, in quanto tale, non può non essere onesto. Come dimostrato dalla storia, può essere magari brutto, deforme; può avere per conto suo i peggiori vizi: essere un ubriacone, uno malamente, come dicono a Napoli. può essere sporco, anche puzzare. Questi sono sempre stati, e sono, affari suoi. Ma, in quanto scrittore non può venir meno a queste condizioni necessarie: l’attenzione, l’onestà e il disinteresse. E tutto il resto è letteratura.”
INGLESE Why I write, George Orwell
George Orwell (1903-50) was an English novelist, essayist, and journalist. His work is characterized by his awareness of social injustice, opposition to totalitarianism, and outspoken support of democratic socialism.
In particular, Why I write is a very personal essay in which he focuses on himself and his motives for writing. His style of writing is plain and simple yet incredibly effective. As a journalist he never tries to distort the truth and so he does here: his words sound sincere and passionate, so this essay succeeds in stating his idea of writing and which role a writer should have towards the time he lives in. Orwell begins with some details about his not so easy childhood, which left deep traces in him. The difficulties he had to face were, he states, essential for his future choice of writing and formation as an artist. He never actually decided he would have been a writer: writing appeared as a vocation to him. As a middle child he never got many attentions, he barely saw his father in his early years and had to deal with mockery and bullying at school. He was lonely and weird, so he started to make up stories and speak to imaginary friends. Such experiences and microtraumas, we could say, steered him towards writing. He begins his essay about his writing purpose with biographical facts because of the strong connection between the childhood and development of a writer and his reasons to write, his vocation to write. He even tried to abandon the idea of writing but he could not ignore it: it was his true nature, and he knew he couldn’t help following it. “I give all this background information because I do not think one can assess a writer’s motives without knowing something of his early development. His subject matter will be determined by the age he lives in — at least this is true in tumultuous, revolutionary ages like our own — but before he ever begins to write he will have acquired an emotional attitude from which he will never completely escape. It is his job, no doubt, to discipline his temperament and avoid getting stuck at some immature stage, in some perverse mood; but if he escapes from his early influences altogether, he will have killed his impulse to write.” He then lays out what he believes to be the four main motives for writing, which are: -sheer egoism. “Writers share this characteristic with scientists, artists, politicians, lawyers, soldiers, successful businessmen — in short, with the whole top crust of humanity. The great mass of human beings are not acutely selfish. (…) But there is also the minority of gifted, willful people who are determined to live their own lives to the end, and writers belong in this class.” -aesthetic enthusiasm. “(…) no book is quite free from aesthetical considerations” -historical purpose. “Desire to see things as they are, to find out true facts and store them up for the use of posterity.” -political purpose. Orwell uses the word political in the widest sense possible: i.e. the writer tries to spread his consciousness and push the world in a certain direction, he strives to improve the world one little piece at a time with his observations, recommendations, and analysis. Of course, says Orwell, the political purpose is the most important one. This has not always been so: initially he was almost unaware of his political loyalties. Then, as he worked in India he became aware of the working classes and increased his hatred for authority. This sense of duty towards men and their sufferings became even deeper and stronger later with Hitler and the Spanish civil war, in which he took actively part against totalitarianism and for democratic socialism. No writer, says Orwell, could have avoided writing of such subjects in such a period. As a writer he felt he had to stand for what he believed in, he had to expose the reality of facts, to awaken his readers and activate them, in order to actually do something and be part of a change, not just silent witnesses of injustices. Everyone, as a citizen, was equally guilty of what was happening if they didn’t reacted to. But people were brainwashed by their politicians and firstly a realization was needed: this was a writer’s task. His starting point is not the idea of making a work of art, but his sense of partisanship, his sense of injustice. He writes because there is some lie he wants to expose, some fact to which he wants to draw attention. “It seems to me nonsense, in a period like our own, to think that one can avoid writing of such subjects. Everyone writes of them in one guise or another. It is simply a question of which side one takes and what approach one follows. And the more one is conscious of one’s political bias, the more chance one has of acting politically without sacrificing one’s aesthetic and intellectual integrity. (…) My starting point is always a feeling of partisanship, a sense of injustice. When I sit down to write a book, I do not say to myself, ‘I am going to produce a work of art’. I write it because there is some lie that I want to expose, some fact to which I want to draw attention, and my initial concern is to get a hearing.” He also admits that writing is, and has to be, also an aesthetic experience: this is also what makes a book (and art) immortal. He always tries to conciliate his literary instincts with the truth he wants to expose. Maybe, he admits, he does not know which of the four motives resound deeper in him, but of course he knows which one deserves to be followed the most. It is were he lacked a political purpose that he wrote lifeless books. “I cannot say with certainty which of my motives are the strongest, but I know which of them deserve to be followed. And looking back through my work, I see that it is invariably where I lacked a political purpose that I wrote lifeless books and was betrayed into purple passages, sentences without meaning, decorative adjectives and humbug generally.” In conclusion we could sum up all this essay by saying: a writer has to be politically compromised, because art is empty and lifeless if it is of no use for men. Real art and literature must concern humans and humanity, otherwise it is not worthy of being called this way. One man cannot define himself as a writer if he is not interested in humans, expecially in those who suffer.
TEDESCO Bekenntnis zur Trümmerliteratur, Heinrich Böll
Heinrich Böll (1917-85) gilt als einer der bedeutendsten deutschen Schriftsteller der Nachkriegszeit. In seinen Romanen, Kurzgeschichten, Hörspielen und zahlreichen politischen Essays setzte er sich der jungen Bundesrepublik gegenüber kritisch. Schon vom Titel erkennt man, wie persönlich und tief das Thema dieses Aufsatzes für den Autor ist. Es gilt als ein echtes Bekenntnis, das er als Schriftsteller und Mann unterschreibt. Der Aufsatz handelt von der Verantwortung eines Schriftstellers, der die Leiden, die Ungerechtigkeiten und die Hässlichkeit gesehen hat, und der mutig und ehrlich darüber schreiben muss, um einen Unterschied zu machen. Die Schriftsteller der Trümmerliteratur waren meistens junge Männer, die den Krieg erlebt hatten, und die nur Trümmer fanden, als sie heimkehrten. Die Trümmer, d.h. die Schade des Krieges, waren nicht nur äußerlich (physisch), aber vor allem innerlich (psychisch). Der Heilungsprozess dieser inneren Zerstörung dauerte natürlich länger als die der äußeren. So stellte H. Böll als Aufgabe für die Kunst nichts anderes als von diesen Trümmer zu schreiben. Schreiben ist an sich sinnvoll und wichtig: es leistet einen grossen Beitrag zur Verbesserung des gesellschaftlichen und menschlichen Zustandes, zur Heilung der Wunden der Zeit. “Wir schrieben also vom Krieg, von der Heimkehr und dem, was wir im Krieg gesehen hatten und bei der Heimkehr vorfanden: von Trümmern; das ergab drei Schlagwörter, die der jungen Literatur angehängt wurden: Kriegs-, Heimkehrer- und Trümmerliteratur. Die Bezeichnungen als solche sind berechtigt: es war Krieg gewesen, sechs Jahre lang, wir kehrten heim aus diesem Krieg, wir fanden Trümmer und schrieben darüber. Merkwürdig, fast verdächtig war nur der vorwurfsvolle, fast gekränkte Ton, mit dem man sich dieser Bezeichnung bediente: man schien uns zwar nicht verantwortlich zu machen dafür, dass Krieg gewesen, dass alles in Trümmern lag, nur nahm man uns offenbar übel, dass wir es gesehen hatten und sahen, aber wir hatten keine Binde vor den Augen und sahen es: ein gutes Auge gehört zum Handwerkszeug des Schriftstellers. Die Zeitgenossen in die Idylle zu entführen würde uns allzu grausam erscheinen, das Erwachen daraus wäre schrecklich, oder sollen wir wirklich Blindekuh miteinander spielen?” Am Anfang des 19. Jahrhunderts lebte in London ein junger Mann, der kein erfreuliches Leben hinter sich hatte. Er schrieb über das, was seine Augen gesehen hatten, auch wenn es nicht erfreulich war: seine Augen hatten in die Gefängnisse, in die Armenhäuser, in die englischen Schulen hineingesehen, und er schrieb darüber. Er wollte niemandem willfahren, er verfälschte oder süßte die Wirklichkeit nicht. Aber seine Bücher wurden von vielen Menschen gelesen und der junge Mann hatte einen merkwürdigen Erfolg: die Gefängnisse wurden reformiert, die Armenhäuser und die Schulen änderten sich und verbesserten. Dieser junge Mann hieß Charles Dickens. Was machte von Dickens einen echten Schriftsteller war nicht nur seine literarische Fähigkeit, sondern seine sehr gute Augen und seine Ehrlichkeit. Er war scharfäugig und benutzte Humor. Das ist das Einzige, das ein echter Schriftsteller braucht.
“Charles Dickens hatte sehr gute Augen und Humor. Und seine Augen hatten so gut gesehen, dass er es sich leisten konnte, Dinge zu beschreiben, die sein Auge nicht gesehen hatte – er nahm keine Lupe, wandte auch nicht den Trick an, ein umgekehrtes Fernglas zu nehmen, wodurch er die Dinge sehr präzise, aber sehr entfernt sah, er hatte auch keine Binde vor den Augen, und wenn er auch Humor genug hatte, hin und wieder mit seinen Kindern Blindekuh zu spielen – er lebte nicht im Blindekuhzustand.” Dickens’ Erfolg beweist, dass auch ein einzelner Mensch die Möglichkeit hat, sein Zeitalter zu verändern, weil er mit seine Wörter das Bewusstsein seine Zeitgenossene aufrütteln kann. Nach dem zweiten Weltkrieg wollte niemand über dem sprechen, was in Deutschland passiert war. Das Ziel war, alles in kurzer Zeit zu vergessen. Aber solche Wunden konnte die Zeit allein nicht heilen. H. Böll und die Vertreter der Trümmerliteratur “streuten das Salz ihrer Worte in die Wunden der Zeit nicht um die Wunden zu verschlimmern, sondern um sie zu heilen”. Sie waren scharf und unerbittlich, aber das war notwendig. Man sollte mutig den Gräuel des Krieges ins Auge sehen, nicht davor fliehen. Nur indem man die Hässlichkeit erfährt, kann man die Schönheit wirklich verfolgen. Wer Augen hat zu sehen, der sehe!, schrieb Böll. Und wer eine Feder hat zu schreiben, der schreibe!

BIBLIOGRAFIA -Bellmann W., Das Werk Heinrich Bölls: Bibliographie mit Studien zum Frühwerk, Westdeutscher Verlag, 1995 -Böll H., Hierzulande. Aufsätze zur Zeit., Kiepenheuer & Witsch, 1965 -Luperini R., Otto tesi sulla condizione attuale degli intellettuali, Allegoria. Per uno studio materialistico della letteratura, 2011 -Morante E., Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi, 1987 -Orwell G., Why I write, Gangrel, 1946 -Terzani T., Lettere contro la guerra, Longanesi, 2002 SITOGRAFIA -Natalucci P., trascrizione discorso The danger of a single story (di Adichie C.), 2009 https://www.ted.com/talks/ chimamanda_adichie_the_danger_of_a_single_st ory/transcript?language=it -Scego I., Quei ragazzi divorati in mezzo al mare dalla nostra indifferenza, Internazionale, 2015 http://www.internazionale.it/opinione/igiabascego/2015/04/19/quei-ragazzi-divorati-in-mezzoal-mare-dalla-nostra-indifferenza

Libri per l’estate

L’Impacto del Viagra sulla Fertilità Maschile viagra effetti collaterali lungo termine
T.Roussel, La ragazza che legge, 1887

T.Roussel, The reading girl, 1887

Ecco un elenco di libri e autori italiani, sono racconti e romanzi di storie ambientate nel XX e XXI secolo. Tutti hanno come protagonisti giovani uomini e donne. I titoli rimandano al link di Google books per brevi informazioni e recensioni, il link film rimanda ai  youtube. Buona lettura,  visione e estate.

Matilda di Mary Shelley
Le donne muoiono di Anna Banti ( fuori catalogo solo in biblioteca)
Le visionarie Fantascienza, fantasy e femminismo un’antologia
La vita delle ragazze e delle donne di Alice Munro (USA prima metà del ‘900)
Vita di Melania Mazzucco   (New York inizi ‘900)
Gli indifferenti di Alberto Moravia (Roma anni 20) (film)
Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani (Ferrara anni 30) (film)
La ragazza di Bube di Carlo Cassola (Toscana, subito dopo la Liberazione) (film)
La storia di Elsa Morante (Roma dal 1941 al 1947) (film)
Ragazzi di vita di Pier Pasolini (Roma anni 50) (film)
Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori (Milano anni 50) (film)
Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese (Napoli anni 50)
Caro Michele di Natalia Ginzburg (Roma, Inghilterra, primi anni 70) (film)
Porci con le ali di Marco Lombardo radice e Lidia Ravera (Roma anni 70) (film)
Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli (Bologna, Bruxelles, Amsterdam, Milano  fine anni 70)
Tutti giù per terra di Giuseppe Culicchia (Torino fine anni 80) (film)
Romanzo criminale di Giancarlo de Cataldo (Roma anni 80 90) (film e serie TV)
Woobinda di Aldo Nove (Italia anni 90)
Bellas mariposas di Sergio Atzeni (Cagliari anni 90) (film)
Acciaio di Silvia Avallone (Piombino 2001) (film)
Il corpo umano di Paolo Giordano (Italia Afghanistan fine 2000)
Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia (Bari anni 80)