Archivio mensile:Marzo 2018

Da Doppiozero: Intervista a mia madre sul Sessantotto

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Operaie della Siemens

Mentre mia sorella, mia moglie, mio cognato e i bambini mangiavano i bignè, a mia madre ho detto: “Sediamoci sul divano”. Glielo avevo preannunciato al telefono: “Ti farò due domande sul Sessantotto, mi racconterai quello che ricordi, niente di impegnativo”. Ma la sola idea l’aveva messa in apprensione. “È passato tanto tempo”, aveva sussurrato.
Mia madre non era nel movimento, non partecipò alla battaglia di Valle Giulia. Nel 1968 aveva diciotto anni, viveva in un paese a venti chilometri da Roma, aveva lasciato la scuola a quindici e non pensava alla Primavera di Praga né alla rivoluzione culturale cinese. Era l’ultima di sette fratelli, tre maschi e quattro femmine, figli di un fornaciaio e di una materassaia immigrati dall’Abruzzo.
A quel tempo lavorava in un laboratorio farmaceutico come confettatrice. “Iniziamo da questo”, le ho detto, sistemandomi il portatile sulle gambe. “Sai cos’è una confettatrice?”, mi ha chiesto. “È l’operaia che dà il colore alle pastiglie. Le bagnavo tutto il giorno con acqua e zucchero e alla fine aggiungevo il colore”. Sapevo che mia madre, prima che nascessi, aveva lavorato nell’industria farmaceutica, ma non sapevo che fosse una confettatrice. Ho cercato il significato della parola sulla Treccani, c’è scritto: “Macchina con cui si esegue la confettatura”. Mia madre era una macchina.
“Eravamo una cinquantina di operaie, tutte donne. Ci avevano scelto sulla base di un unico criterio: dovevamo essere vedove o nubili, lo stipendio che ci passavano a fine mese doveva essere la nostra unica ragione di vita”, ha rievocato con malcelato rancore. “Lavoravamo dalla mattina alla sera, eravamo ricattabili in qualsiasi momento. In fabbrica non c’era il sindacato, quando cinque di noi presero la tessera della CGIL, ci licenziarono. Facemmo causa e la vincemmo, il giudice ci reintegrò. Ma a quel punto ci rinchiusero tutte e cinque in una stanza, lontano dai laboratori. Avevamo il divieto di avvicinarci agli stabilimenti. Il lavoro che ci affidarono serviva solo a mettere alla prova i nostri nervi: dovevamo staccare le etichette dalle bottiglie vuote”. Ha fatto una pausa e le è venuto in mente un aneddoto: “In quel periodo il direttore fu arrestato perché aveva messo in vendita un farmaco senza l’autorizzazione del ministero. Noi andavamo a lavorare ma restavamo tutto il giorno in sala d’aspetto, gli stabilimenti erano sotto sequestro. Quando il direttore fu rilasciato ci disse: «Ho salito il gradino di Regina Coeli, adesso sono un vero romano». Resistetti ancora per poco, poi quando la sede della società fu spostata a Pomezia mi licenziai. Avevo lavorato lì per nove anni”.
Le ho chiesto se, pur facendo quella vita, le arrivasse l’eco del profondo sommovimento che scuoteva la società italiana, la spinta che invocava una radicale modernizzazione del paese. La miccia era stata accesa dagli studenti universitari già nell’autunno del ’67 con le occupazioni degli atenei di tutte le principali città del centro-nord. “Avevi percezione di tutto questo?”.
“Noi volevamo aderire al Sessantotto, certo”, mi ha risposto (come se si possa aderire a un anno, combaciare con esso, come un cerotto sulla pelle, o dichiararsene seguaci o sostenitori, spalleggiare un’idea, un concetto che nella sua intima materialità è fatto dell’immaterialità dei giorni), “ma incontravamo l’ostruzionismo delle più anziane che temevano di perdere il lavoro”. Il Sessantotto visto da una ragazza di provincia era questo: uno tsunami che seduceva e al contempo spaventava. “Una volta partecipammo a una manifestazione a Roma, ci sentivamo come se ci avessero invitato a una festa a cui mai avremmo immaginato di partecipare”.
Andare a Roma per quelle ragazze doveva essere come andare verso il sole, mirare al cuore del mondo. “Che il Sessantotto fosse un anno eccezionale lo abbiamo capito dopo. Non era un fatto singolo, un evento che te lo ricordi per tutta la vita. Erano tante cose insieme accadute prima, durante e dopo quell’anno, e che in seguito avremmo racchiuso sotto il nome di Sessantotto. Lo sbarco sulla Luna, avvenuto l’anno dopo, per esempio, me lo ricordo poco. Successe di notte e io andai a dormire perché la mattina dovevo lavorare. Quando nel ’63 morì Kennedy, invece, avevo appena tredici anni ma me la ricordo bene”.
Ho guardato mia madre per un momento pensandola all’interno di quel flusso storico che sono stati gli anni Sessanta del Novecento. È difficile immaginare una madre nella Storia, collocarla in un tempo extradomestico, perlomeno una madre come la mia, una madre come tante, non una Simone de Beauvoir, ma una confettatrice.
Le ho detto di parlarmi della musica. Da bambino mi opprimeva con le canzoni degli anni Sessanta. La mia generazione è cresciuta tutta allo stesso modo, schiacciata da una dittatura musicocratica. “Ascoltavo i Beatles, i Rokes, Gianni Morandi, Mina, Rita Pavone, i Camaleonti, i Dik Dik. Nel tempo libero uscivo poco, mio padre mi costringeva a rientrare al massimo alle diciotto, «quando si fa notte», il che voleva dire che d’estate potevo tirare fino alle ventuno. La domenica pomeriggio andavamo a ballare nelle balere, il Cha cha cha, l’Alligalli, il Ballo della mattonella. In quel periodo iniziavano ad aprire le prime discoteche, come il Piper, dove però non ho mai messo piede perché i miei fratelli non me l’avrebbero permesso”.
Mia moglie ci ha offerto il vassoio con i bignè. “Ne avete ancora per molto?”. “Abbiamo quasi finito”, le ho risposto. Volevo sentire ancora la voce di mia madre su una questione importante: ciò che è venuto dopo, ossia gli anni di piombo, il terrorismo, la violenza politica, la strategia della tensione, le bombe, la rivoluzione che aveva cambiato aggettivo, e che da culturale era diventata armata. “Nei primi tempi”, ha detto mia madre, “pensavamo che le Brigate Rosse fossero nel giusto, poi abbiamo capito come stavano le cose. La nostra gioventù è finita lì. Nel ’72 mi sono sposata e nel ’73 sei nato tu”. Aveva ventitré anni mia madre quando sono nato io. Mi ha fatto una certa impressione immaginare la mia nascita posta accanto al dilagare della lotta armata, entrambi i fenomeni (privato e pubblico) a suggellare la fine di un’età irripetibile.

Dunque, quando il mondo era impegnato a sognare, mia madre lavorava tutto il giorno in una fabbrica. Quante occasioni offre la Storia di avere diciott’anni in un periodo così vivo, pulsante, creativo, luminoso? A quanti, tra tutti gli esseri umani che nei secoli hanno vissuto sulla Terra, è capitato questo? Quanti hanno avuto in sorte di essere giovani quand’era giovane il mondo? Mia madre è stata tra questi, ma mentre la osservavo seduta sull’orlo del divano di casa mia, con le ginocchia strette e le dita intrecciate, cinquant’anni esatti dopo il Sessantotto, ho capito che a lei non è stato concesso di avere sogni, e se li aveva (ma certo che li aveva) era stata educata a svilirli. La Storia spesso è un’astrazione che non coincide con la pratica quotidiana del vivere. Allora mi è tornata in mente una frase di Walter Benjamin: “Gli dica di rispettare i sogni della sua giovinezza quando sarà uomo”. A lei però non l’ho pronunciata quella frase. Ho detto solo: “Va bene, basta così”. Al che mia madre ha sospirato. Poi ci siamo alzati dal divano e siamo tornati a noi. (Andrea Pomella)  link a doppiozero

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (rev.0)

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Blumen Mythos, Paul Klee, 1918

What we talk about when we talk about Love, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è il titolo della omonima raccolta di racconti scritti da Raymond Carver
english.wikipedia.org/Raymond_Carver.

La più antica poesia d’amore è scritta da una donna

Pari agli dei mi sembra
quell’uomo: che siede di fronte a te
e ti ascolta mentre dolcemente parli e ridi

A me il cuore batte forte e ho paura.
Ti vedo e non ho più voce

la lingua mi si spezza; un brivido sottile
corre nel corpo, gli occhi  si oscurano
gli orecchi rimbombano

Sudo, tremo
Divento più verde dell’erba e sento
la morte vicina

(Saffo frammento  in Liriche e frammenti, Giulio Einaudi Editori, 1965)

A Roma quando un uomo  comincia a scrivere d’amore si ricorda dell’antica poesia della donna greca; la poetessa è Saffo e il poeta Catullo. Per chi non li conoscesse: la prima nata a Lesbo, isola dell’Egeo, nel VII secolo a.C., autrice di alcuni dei più noti frammenti della lirica greca, il secondo di Verona vissuto nel I secolo a.C., al tempo di Cesare e Cicerone. Quando a Roma per essere veri uomini , non bisognava occuparsi di amore e di donne, Catullo scrive un libro in cui molte poesie, quelle che avranno più notorietà tra i posteri, sono poesie d’amore; qualche tempo fa c’era una Tshirt con su scritto

Odi et amo, quare id faciam fortasse requiris
nescio sed fieri sentio et excrucior
(Catullo, Liber, 85)

Odio e amo perché lo faccio forse mi chiederai
non lo so ma sento che avviene e sto in croce

In mezzo c’era stato Platone

“Impara bene, Socrate” disse ” se vuoi riflettere un momento anche sull’ambizione degli uomini: potresti restar scosso dall’irragionevolezza della cosa, se non tieni a mente ciò che ho detto, e metti a fuoco l’incredibile attrazione umana per l’eros di divenire famosi e di lasciare eredità di gloria eterna (…). Pensi davvero che Alcesti sarebbe morta al posto di Admeto, Achille per Patroclo, (…), se non si fossero convinti che la loro memoria di eroi sarebbe stata immortale? E noi infatti li ricordiamo. Penso che tutti facciano di tutto per questa immortalità, infatti sono innamorati dell’immortalità. C’è gente fisicamente feconda. Questi cercano la donna, anzitutto, verso di lei portano il loro eros. Con il fare figli si assicurano immortalità, felicità, memoria. Ma c’è anche chi nell’anima … sì c’è chi diviene gravido nell’anima, più che nel corpo. Gravido sì, della cosa di cui è naturale che si ingravidi l’anima per poi partorirla. Che cos’è questa cosa? Il pensiero e tutte le altre virtù. (…) Capita che un ragazzo resti incinto di queste cose. Poi crescendo sente il desiderio di dare vita, di creare. Allora si guarda intorno e cerca il bello nel quale creare, non creerà mai nel brutto. E’ fecondo, perciò s’abbraccia ai corpi belli, non certo a i brutti. Se incontra un’anima bella, pura, nobile, s’abbraccia a quest’anima e al corpo di questa, e con lui discorre della virtù che un uomo deve avere e comincia a educarsi. Diciamo che si unisce al “suo bello”. E facendo l’amore con lui crea e poi partorisce ciò di cui era incinto da tanto tempo. Il risultato è che tra i due si stabilisce un unione più forte che se avessero insieme dei veri figli: perché hanno il legame di creature più belle e immortali. Chiunque preferirebbe per sé la nascita di tale figli piuttosto che quella di figli di carne. (…) Eh sì, quando uno partendo, dalle cose concrete di quaggiù, attraverso un giusto eros per i giovani, elevandosi, comincia a scorgere quel bello, potrebbe già quasi sfiorare la perfezione. Questo significa puntare, con buon metodo, alle cose dell’eros, o esservi guidati da altri: cominciare da queste bellezze particolari, concrete, e mirando al bello, elevarsi, come per una scala di gradini, prima da un corpo a due corpi, poi da due a tutti i corpi belli; e dai corpi belli alle azioni umane belle; e dalle azioni belle alle varie scienze belle; e dalle belle scienze finire a quel famoso sapere, che altro non è se non scienza di quell’assoluto bello.”  (Platone, Simposio, pp.115-117, 121-122, Oscar Mondadori, 1987)

L’amore di Saffo e Catullo e quello di Platone hanno dato alla cultura occidentale i due principali, anche se non unici, modelli di amore: l’amore come passione incomprensibile e distruttiva, l’amore come processo di elevazione e miglioramento di sé.
Questi modelli li troviamo ancora in due libri del periodo romantico.

Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia. Il mio ingegno è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io sdegnando ogni modello terreno la troverei nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animali generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le voci e co’ pensieri spirati dal cielo ad altissime imprese: tu raccendi ne’ nostri petti la sola virtù utile a’ mortali, la Pietà, per cui sorride talvolta il labbro dell’infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri, senza del quale tutto sarebbe caos e morte. Se tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata; gli animali, nemici fra loro; il Sole, foco malefico; e il Mondo, pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l’anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell’avvenire. (Ugo Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis)

Tutta la violenza di queste parole si abbatté sull’infelice. In preda alla disperazione si gettò ai piedi di Lotte, le afferrò le mani, se le premette sugli occhi, sulla fronte, un presagio del suo orrendo proposito traversò l’animo di lei. I suoi sensi si smarrirono strinse le mani di lui, se le premette al seno, con un moto di pietà si chinò su di lui, le loro guance ardenti si toccarono. 
Il mondo sparì. Egli l’abbracciò, se la strinse al petto, le coprì le trepide labbra balbettanti di baci furiosi… “Werher!” gridò lei con voce soffocata, divincolandosi “Werther!…” e con debole mano respinse il suo petto. “Werther!” gridò con l’autorità del più nobile sentimento…
Egli non si oppose, aprì le braccia  e insensato le cadde ai piedi: Ella si alzò, sconvolta e angosciata, tremante d’amore e di collera, e disse: “E’ l’ultima volta! Werther! Non mi vedrà mai più!…” (W.Goethe,I dolori del giovane Werther)

Per l’otto marzo: una trasmissione di Radio3 sulla prostituzione

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Michaela Thelenova, E55 – zur Situation der Sexarbeiterinnen, 1981, Veletržní palác, Praga

Nella trasmissione “Dialoghi. Per l’8 marzo: Il corpo delle donne” del 3 marzo si parla di prostituzione, intervengono le docenti Liliosa Azara, Silvia Giorcelli, Luciana Percovich, conduce Albero Guasco.

Il link permette di scaricare il file mpeg4 e di ascoltarlo con una app dal proprio computer o cellulare
Per l’8 marzo il corpo delle donne – Radio3