Poesie da Il Porto Sepolto di Giuseppe Ungaretti

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In Memoria
Locvizza il 30 settembre 1916.

In Memoria è la prima poesia de “Il Porto Sepolto”, dedicata al ricordo dell’amico Moammed Sceab suicida nel 1913 a Parigi.
Moammed Sceab era stato amico di Ungaretti fin dai tempi di Alessandria, compagno di letture e di discussioni interminabili sui poeti e i filosofi letti insieme, Baudelaire, Poe, Nietzsche.
In memoria dell’amico “suicida perché non aveva più patria” Ungaretti, che forse è l’unico a ricordarlo, inizia il suo libro di poesie scritte in guerra.

Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria

Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse

Il porto sepolto
Mariano il 29 giugno 1916

Come un palombaro il poeta scende nel profondo e poi torna alla luce con la sua poesia, “quel nulla d’inesauribile segreto”. Per Ungaretti, come per i poeti decadenti e simbolisti, l’uomo e la natura sono mistero, il poeta vede l’invisibile nel visibile, gli abissi umani non sono perlustrabili, la vera poesia si presenta innanzi tutto nella sua segretezza. (da Ragioni d’una poesia in Vita di un uomo. Tutte le poesie, Grandi Classici Oscar Mondadori, p. C)

Vi arriva il poeta
poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto.

I Fiumi
Cotici il 16 agosto 1916

I Fiumi è la poesia più famosa de Il Porto Sepolto.
È una notte d’estate il poeta si trova disteso in una delle cavità del terreno carsico e ripensa al mattino quando si è immerso nell’Isonzo, l’acqua passando sul suo corpo nudo lo rendeva liscio come un sasso, pochi passi nell’acqua come un acrobata e poi fuori, accoccolato a ricevere il caldi raggi del sole, gli abiti sporchi della guerra vicino. Nell’Isonzo il poeta si è sentito parte dell’universo, una docile fibra in armonia con tutto; le acque del fiume come mani segrete compiono il miracolo di regalargli un raro momento di felicità. Un momento di lucida consapevolezza di sé, il poeta vede nell’Isonzo i fiumi della sua vita. Il Serchio delle origini e dei genitori, il Nilo dell’infanzia e dell’ardente giovinezza, la torbida Senna del primo riconoscimento di sé. La nostalgia lo avvolge, ora che è notte e la vita gli sembra oscura.
Nel 1963 Ungaretti dirà di questa poesia “Finalmente mi avviene in guerra di avere una carta di identità : i segni che mi serviranno a riconoscermi (e proprio nel momento in cui, dopo lunghe peripezie vane, il mio reggimento può balzare in avanti), i segni che mi aiuteranno a riconoscermi da quel momento e di cui in quel momento prendo conoscenza come i miei segni : sono i fiumi, sono i fiumi che mi hanno formato. Questa è una poesia che tutti conoscono ormai, è la più celebre delle mie poesie: è la poesia dove so finalmente in un modo preciso che sono lucchese, e che sono un uomo sorto ai limiti del deserto e lungo il Nilo. E so che se non ci fosse stata Parigi, non avrei avuto parola; e so che se non ci fosse stato l’Isonzo non avrei avuto parola originale.”

Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato

L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso
ho tirato su
le mie quattro ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua

Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole

Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo

Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia

Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
felicità

Ho ripassato
le epoche
della mia vita

Questi sono
i miei fiumi

Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre.

Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle distese pianure

Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto

Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo

Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre

Veglia
Cima Quattro il 23 dicembre 1915

In presenza del corpo massacrato di un compagno di trincea con il volto sfigurato illuminato dalla luna e le mani gonfie, il poeta scrive contro la guerra e la morte le sue poesie d’amore e di vita.

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.

Sono una creatura
Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

In una similitudine e un breve aforisma Ungaretti chiude il suo destino di uomo in guerra, prigioniero di un pianto invisibile e duro; in una lettera del 1918 all’amico Ardengo Soffici Ungaretti, dal fronte in Francia, scrive “La morte non mi ha voluto; ma la malattia mi ha afferrato ; subito ; (…) non è facile resistere da inferiore con un corpo debole come il mio; ho avuto crisi di pianto ; nottate intere ho pianto convulsamente”, “la morte non mi ha voluto” e allora “la morte si sconta vivendo” nel dolore e nel pianto.

Come questa pietra
del S.Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo.

Fratelli
Mariano il 15 luglio 1916

“Involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità fratelli”

Di che reggimento siete
fratelli ?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli

Pellegrinaggio
Valloncello dell’albero isolato il 16 agosto 1916

In questa poesia c’è il nome del poeta “Ungaretti uomo di pena”, ma alla pena di vivere Ungaretti non si abbandona, non a caso il titolo del componimento Pellegrinaggio rima con coraggio. È l’illusione, di leopardiana memoria, che anima l’uomo di pena e gli infonde la forza necessaria per andare avanti.

In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba

Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio

Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia

Fase d’Oriente
Versa il 27 aprile 1916

Poesia di abbandono al sogno e al desiderio, chiusa dal brusco risveglio nel corpo pesante che calca la terra.

Nel molle giro di un sorriso
ci sentiamo legare da un turbine
di germogli di desiderio

Ci vendemmia il sole

Chiudiamo gli occhi
per vedere nuotare in un lago
infinite promesse

Ci rinveniamo a marcare la terra
con questo corpo
che ora troppo ci pesa

Tramonto
Versa il 20 maggio 1916

Come un nomade del deserto il poeta, nomade d’amore, vede al tramonto apparire oasi.

Il carnato del cielo
sveglia oasi
al nomade d’amore.

(fonte dei commenti : Giuseppe Ungaretti Il Porto Sepolto a cura di Carlo Ossola, Marsilio Editori, Commento e note ai testi pp.91-246)