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L'autore di www.letteraturaitalia.it insegna letteratura italiana. Nel 2013 ha creato questo sito per le sue lezioni in classe. "Λήθη γάρ επιστήμης ̉έξοδος" (Platone, Simposio 208, 4-5)

Leggere al liceo

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Per avere successo al liceo è importante imparare a leggere in modo efficace

Il primo passo: la comprensione

Comprensione: le parole
Per prima cosa bisogna comprendere le parole utilizzate nel testo che stiamo leggendo. Quando incontriamo una parola  che non conosciamo, possiamo cercare il suo significato sul vocabolario oppure possiamo cercare di comprendere il suo significato da quello che dice il testo.

Comprensione: contenuto
Mentre leggiamo costruiamo un’immagine mentale di quello che le singole parole da sole e insieme significano, in questo modo la mente comprende quello che sta leggendo: il racconto di un evento, la descrizione di un paesaggio o di un personaggio, un dialogo, etc..

Il secondo passo: l’analisi

Dobbiamo imparare ad analizzare i modi utilizzati dagli scrittori per scrivere il testo, ovvero la forma del testo: che tipo di testo stiamo leggendo?  chi racconta la storia? come sono descritti i personaggi? quale stile utilizza l’autore? etc..

Il terzo passo: l’interpretazione

Infine quello che leggiamo entra in relazione con noi e provoca delle reazioni,  ovvero  pensiamo e proviamo qualcosa su quello che stiamo leggendo. Ovviamente ogni lettore proverà e penserà qualcosa di personale e diverso da un altro lettore, è proprio questa propria  personale interpretazione il dono più prezioso e utile della lettura.

Spesso al liceo l’insegnante propone agli studenti esercizi di comprensione, analisi e interpretazione del testo letto.

Esercizio n.1 : leggi il brano e rispondi alle domande

da I promessi sposi: la fine del capitolo II

Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzio che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: – lo sposo! lo sposo!
Zitta, Bettina, zitta! – disse Renzo. – Vien qua; va’ su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio… ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve’… dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito -. La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d’avere una commission segreta da eseguire.
Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turba- mento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio.
Vo un momento, e torno, – disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, – cosa c’è? – disse, non senza un presentimento di terrore.
Lucia! – rispose Renzo, – per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie.
Che? – disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, – ah! – esclamò, arrossendo e tremando, – fino a questo segno!
Dunque voi sapevate…? – disse Renzo.
Pur troppo! – rispose Lucia; – ma a questo segno!
Che cosa sapevate?
Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli.
Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: – non m’avete mai detto niente.
Ah, Renzo! – rispose Lucia, rivolgendosi un mo- mento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?
Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate, e, accomodando l’aspetto e la voce, come poté meglio, disse: – il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla -. Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo.
Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l’accaduto. Due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero.
Un febbrone, – rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata all’altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne’ loro cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne’ loro discorsi.

Comprensione: le parole

1. Riscrivi con parole tue l’espressione “e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto”, cambia le parole “mostrare a quel mercato” e  “con quella nuova”.
2. Che cosa significa “fino a questo segno”?

Comprensione: i contenuti

1. Spiega l’espressione “Dominato da questi pensieri”
2. Perché Renzo vuole vedere Lucia da solo?

Analisi: la forma

1. Chi è il narratore?
2. In che modo sono espressi pensieri e sentimenti dei personaggi?

Interpretazione

In questo brano Renzo e Lucia vivono sentimenti molto intensi, descrivi lo stato d’animo di Lucia o di Renzo, la tua descrizione deve tenere in considerazione i passaggi del testo dai quali si possono desumere sentimenti e stati d’animo e citare questi passaggi.

 

Esercizio n.2 : leggi il racconto e rispondi alle domande

BINARIO 17

Prendo il treno alle 7:55 per Roma è un Eurostar. Ho tutto pronto e devo solo seguire il flusso degli eventi.
Sono stanco stasera e non ho voglia di leggere. Spengo la luce e poi il cellulare. Dormo sì dormo, scivolo in un sonno calmo e intero.
Rivedo per un istante i frammenti di un volto, il suo volto.
Mi appare diverso da quello che ho conosciuto anni fa, due tre, quanto basta per metamorfizzarci insieme.
Io e lei.
Lei, perché è chiaro che lì in fondo al treno, ferma per me c’è lei.
Che mi aspetta, mi chiama, mi ricorda, mi insegue, mi vuole.
Dormo, sì dormo nel buio sento il mio corpo freddo e immobile sul letto duro.
Sono lontano da casa dai miei da tutto.

La sveglia suona alle sette, mi alzo, mi vesto, faccio colazione e scendo piano le scale.
La porta d’ingresso scatta metallica e spezza il silenzio del palazzo.
Cammino veloce verso la stazione, evito una merda di cane sul marciapiede sporco e sconnesso lungo la strada, non c’è praticamente nessuno in giro. Il flusso degli eventi è lì che mi aspetta, lo sento lo so lo voglio.
Il viaggio in treno è silenzioso. Poca gente insonnolita è lunedì, l’ultimo di agosto.
Arrivo puntuale.
Stazione Termini è squallida sporca come tutte le stazioni. Alla fine del binario di arrivo vicino allo stand dell’edicolante c’è lei.
Non mi piace, mi era sembrata diversa sulla foto di Facebook. Ha i capelli raccolti, tirati sulla fronte grande e leggermente bombata. Gli occhi, gli occhi sono rimasti uguali, scuri, freddi ma intensi, chiusi nelle ciglia lunghe e truccate.
Le guardo la bocca è piccola ma carnosa e scura come la pelle abbronzata.
“Ti sei fatto crescere la barba. Stai bene”
“Anche tu” le rispondo.

Ci stiamo allontanando dal binario, attraversiamo l’atrio. Alle macchinette prendo una Fanta e lei intanto i biglietti della metro.
“Raggiungiamo gli altri ad Ostiense e poi si vede che fare”.
“Va bene” le rispondo.
La metro è affollata, ci mettiamo in fondo al vagone e parliamo di scuola vacanze fratelli sorelle.
Ha dei begli orecchini pendenti e una maglietta stretta e corta, arancio senza scritte né marchi. La guardo e anche lei mi guarda.
Siamo arrivati, usciamo e saliamo fuori. Gli altri non ci sono ancora, dobbiamo aspettarli per poco.

Il cielo di Roma è giallo, offuscato, fa caldo e lo zaino sulle spalle mi fa sudare. Ci appoggiamo alla ringhiera ad aspettare, passa gente frettolosa, uomini e donne, adulti che già riprendono il loro lavoro.
Lei mi racconta del mare e di una festa a cui è stata poche sere fa, tornando presto a mezzanotte, con le amiche.

Arrivano gli altri, mi presenta, saluto, mi sento imbarazzato non so cosa dire, ma lei gli altri sembra che non se ne accorgono.
Ci allontaniamo e qualcuno decide di andare a mangiare. Poi nel parco di una villa di cui non ricordo più il nome.
Il pomeriggio trascorre lento, giochiamo a pallone, noi ragazzi sudiamo e gridiamo. Lei sta seduta sulla panchina con le altre sue amiche, da lontano sembra che parlano e ridono, ascoltando la musica.
La dimentico per un po’ nelle urla del pallone.

Alla fine quando smettiamo di giocare le raggiungiamo sulla panchina. Lei fa qualche apprezzamento sul gioco e poi mi chiede a che ora parto.

Ho il treno alle 19:55 e sono quasi trascorse dodici ore, cinque con lei, di flusso degli eventi. Saluto gli altri e solo lei mi accompagna in stazione. Facciamo a piedi la strada per la metro, il marciapiede è pieno delle foglie degli alberi enormi che costeggiano il lungofiume, lei strascina i piedi e una le si infila nel sandalo. Ha le dita dei piedi lunghe, affusolate, le unghie smaltate di verde chiaro, luccicano tra le foglie per terra. E’ quasi sera e avverto la dolcezza dell’aria.
Treni in partenza: 19:55 Eurostar per Milano binario 17. Salgo sul treno e la saluto dietro il finestrino chiuso nel flusso degli eventi.

Comprensione: le parole

1. Riscrivi con parole tue l’espressione “scivolo in un sonno calmo e intero”, cambia tutte le parole tranne “sonno”.
2. Cosa significa “metamorfizzarci”?

Comprensione: i contenuti

1.Il racconto si svolge in un tempo preciso. Quale?
2.Quali sono gli altri riferimenti temporali presenti nel racconto, quali informazioni danno  sui due personaggi ?

Analisi: la forma

1. Chi è il narratore?
2. Il racconto è scritto in uno stile colloquiale. Trova due espressioni che dimostrino questa affermazione.

Interpretazione

1. Quali sentimenti prova il protagonista del racconto? In quali frasi e o parole li trovi?
2. Racconta l’esperienza di un tuo incontro  utilizzando il racconto come modello di scrittura.

 

Canzoniere di Petrarca canzone CXXXV

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Head within an aureole, Odilon Redon, 1894-95, Noirs

 

Qual piú diversa et nova
cosa fu mai in qual che stranio clima,
quella, se ben s’estima,
piú mi rasembra: a tal son giunto, Amore.
Là onde il dí vèn fore, 5
vola un augel che sol senza consorte
di volontaria morte
rinasce, et tutto a viver si rinova.
Cosí sol si ritrova
lo mio voler, et cosí in su la cima 10
de’ suoi alti pensieri al sol si volve,
et cosí si risolve,
et cosí torna al suo stato di prima:
arde, et more, et riprende i nervi suoi,
et vive poi con la fenice a prova. 15

Una petra è sí ardita
là per l’indico mar, che da natura
tragge a sé il ferro e ‘l fura
dal legno, in guisa che ‘ navigi affonde.
Questo prov’io fra l’onde 20
d’amaro pianto, ché quel bello scoglio
à col suo duro argoglio
condutta ove affondar conven mia vita:
cosí l’alm’à sfornita
(furando ‘l cor che fu già cosa dura, 25
et me tenne un, ch’or son diviso et sparso)
un sasso a trar piú scarso
carne che ferro. O cruda mia ventura,
che ‘n carne essendo, veggio trarmi a riva
ad una viva dolce calamita! 30

Né l’extremo occidente
una fera è soave et queta tanto
che nulla piú, ma pianto
et doglia et morte dentro agli occhi porta:
molto convene accorta 35
esser qual vista mai ver’ lei si giri;
pur che gli occhi non miri,
l’altro puossi veder securamente.
Ma io incauto, dolente,
corro sempre al mio male, et so ben quanto 40
n’ò sofferto, et n’aspetto; ma l’engordo
voler ch’è cieco et sordo
sí mi trasporta, che ‘l bel viso santo
et gli occhi vaghi fien cagion ch’io pèra,
di questa fera angelica innocente. 45

Surge nel mezzo giorno
una fontana, e tien nome dal sole,
che per natura sòle
bollir le notti, e ‘n sul giorno esser fredda;
e tanto si raffredda 50
quanto ‘l sol monta, et quanto è piú da presso.
Cosí aven a me stesso,
che son fonte di lagrime et soggiorno:
quando ‘l bel lume adorno
ch’è ‘l mio sol s’allontana, et triste et sole 55
son le mie luci, et notte oscura è loro,
ardo allor; ma se l’oro
e i rai veggio apparir del vivo sole,
tutto dentro et di for sento cangiarme,
et ghiaccio farme, cosí freddo torno. 60

Un’altra fonte à Epiro,
di cui si scrive ch’essendo fredda ella,
ogni spenta facella
accende, et spegne qual trovasse accesa.
L’anima mia, ch’offesa 65
anchor non era d’amoroso foco,
appressandosi un poco
a quella fredda, ch’io sempre sospiro,
arse tutta: et martiro
simil già mai né sol vide, né stella, 70
ch’un cor di marmo a pietà mosso avrebbe;
poi che ‘nfiammata l’ebbe,
rispensela vertú gelata et bella.
Cosí piú volte à ‘l cor racceso et spento:
i’ ‘l so che ‘l sento, et spesso me ‘nadiro. 75

Fuor tutti nostri lidi,
ne l’isole famose di Fortuna,
due fonti à: chi de l’una
bee, mor ridendo; et chi de l’altra, scampa.
Simil fortuna stampa 80
mia vita, che morir poria ridendo,
del gran piacer ch’io prendo,
se nol temprassen dolorosi stridi.
Amor, ch’anchor mi guidi
pur a l’ombra di fama occulta et bruna, 85
tacerem questa fonte, ch’ognor piena,
ma con piú larga vena
veggiam, quando col Tauro il sol s’aduna:
cosí gli occhi miei piangon d’ogni tempo,
ma piú nel tempo che madonna vidi. 90

Chi spïasse, canzone
quel ch’i’ fo, tu pôi dir: Sotto un gran sasso
in una chiusa valle, ond’esce Sorga,
si sta; né chi lo scorga
v’è, se no Amor, che mai nol lascia un passo, 95
et l’imagine d’una che lo strugge,
ché per sé fugge tutt’altre persone.

La cosa più diversa e strana
che si trovi in un luogo straniero,
quella se ben si considera,
più mi assomiglia: a tal punto sono arrivato, Amore.
Là dove nasce il sole,
vola un uccello che solo senza compagna
dalla morte che ha cercata
rinasce e torna nuovamente alla vita.
Così sola si ritrova
la mia volontà, e così nel punto più alto
dei suoi alti pensieri si volge al sole,
così muore,
e così torna al suo stato di prima:
brucia e muore e riprende i suoi nervi
e poi vive a gara con la fenice. 15

Là nel mare indiano si trova
una pietra tanto strana, che per natura
attira a sè il ferro e lo ruba
al legno, in modo che le navi affonda.
Questo io provo tra le onde 20
del mio amaro pianto, perché quel bello scoglio
con il suo duro orgoglio
ha portato dove conviene che affondi la mia vita:
a tal punto un sasso più incapace di attirare
la carne che il ferro
ha svuotato l’anima
(rubando il cuore che era cosa dura 25
che mi teneva unito, mentre ora sono diviso e sparso). O mia crudele sorte
che pur essendo di carne, mi vedo trascinarmi a riva
a una viva dolce calamita! 30

Nell’estremo occidente
vi è un animale feroce dolce e quieto
quanto nessun altro, ma pianto
e dolore e morte porta negli occhi:
conviene essere molto accorti 35
quando si volge lo sguardo verso di esso;
pur che non gli si veda gli occhi,
si può guardare quell’animale senza pericolo.
Ma io incauto, dolente,
corro sempre verso il mio male, e so bene quanto 40
ne ho sofferto, e quanto ne aspetto;
ma la mia volontà ingorda, cieca e sorda
mi trascina così che il santo bel viso
e begli occhi di questo angelico, innocente 45
animale feroce saranno causa della mia morte.

Nel continente australe si trova
una fontana che prende nome dal Sole
che per natura è calda di notte
e fredda di giorno;
e tanto è più fredda 50
quanto più il sole sale e riscalda.
Così succede a me,
da cui sgorgano come da una fonte lacrime continuamente:
quando il mio bel sole si allontana, 55
e i miei occhi sono nell’oscurità della notte,
allora brucio, ma se vedo apparire
l’oro e i raggi del mio vivo sole,
mi sento cambiare dentro e fuori
e diventare di ghiaccio e tornare
a essere freddo. 60

Si racconta di un’altra fonte in Epiro
che mentre è fredda accende
ogni fiamma spenta, e spegne quella che trova accesa.
L’anima mia che ancora
non era offesa dal fuoco amoroso, 65
avvicinandosi un poco
a quella fredda che io sempre sospiro,
arse tutta: e un tale supplizio
non vide mai né sole né stella 70
che un cuore di marmo avrebbe mosso a pietà;
dopo che l’ebbe infiammata,
la virtù gelata e bella la spense.
E più volte in questo modo ha acceso e spento il cuore:
questo so io che lo sento e spesso me ne adiro. 75

Lontano da tutti i nostri lidi
nelle isole famose della Fortuna,
vi sono due fonti: chi beve dell’una
muore ridendo, chi dell’altra, si salva.
Una sorte simile mi capita, 80
che potrei morire ridendo
del gran piacere che sento,
se non provassi anche dolori acuti.
Amore che ancora mi guidi
all’ombra di una fama nascosta e oscura, 85
taceremo di questa fonte, che sempre piena,
ma più fluente
vediamo, quando il sole s’incontra con il Toro,
così i miei occhi piangono sempre,
ma di più nel tempo in cui vidi la mia donna
la prima volta. 90

O canzone chi ti chiedesse
cosa faccio, tu puoi dire: Se ne sta
sotto un’alta montagna nella chiusa valle
del Sorga, non c’è nessun altro
se non Amore che non lo lascia mai, 95
e l’immagine di una che lo tormenta,
perché è lui che fugge tutte le altre persone.

I nóttal di Raffaello Baldini

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Francisco José de Goya, El sueño de la razón produce monstruos, 1797, Biblioteca nazionale di Spagna Madrid

A n duvéva tní vért la finèstra,
ades u m’è éintar i nóttal.
I vòula dimpartótt, i fa di céul,
i vén da bas, i m stréssa ma la faza.
Mè a sbat i veidar, a i dagh s’un straz,
qualcadéun a l’aciàp, mo u n’éintra

Non dovevo tenere aperta la finestra,/ adesso mi sono entrati i pipistrelli./Volano dappertutto, fanno dei sibili,/ vengono bassi, mi sfiorano la faccia./ Io sbatto i vetri, ci do con uno straccio,/ qualcuno lo prendo, ma ne entrano altri.//

U s fa méi se lanzúl, a l’inturtei
cmè una corda,
a l zéir a mulinèl sòura la testa,
léu u s’éirva
e dvò ch’e’ ciapa e’ puléss.
Mo u n n’éintra sémpra d’ilt,
e’ pèr ch’u i séa un arcém,
cs’èll ch’e’ sarà? un udòur?
l’è la radio ch’la sòuna? cal dò pésghi
ch’ò puzè se cumò? o ch’a séa me?

Si fa meglio col lenzuolo, lo attorciglio/ come una corda,/ lo giro a mulinello sulla testa,/ lui si apre e dove prende fa piazza pulita./ Ma ne entrano sempre altri,/ pare che ci sia un richiamo,/ che cosa sarà? un odore?/ è la radio che suona? quelle due pesche/ che ho appoggiato sul comò? O che sia io//

Sa sté lanzùl
a m so s-cènt bèla al brazi, a n nu n pos piò,
e lòu e’ pèr ch’i l sapa, ‘a m’aférum
i m vén còuntra, i m s’instècca ti cavéll,
i m s’inféila tra ‘l dàidi, tagli urècci.

Con questo lenzuolo/ mi sono rotto le braccia, non ne posso più,/ e loro pare che lo sappiano, se mi fermo/ mi vengono contro, mi si cacciano nei capelli,/ mi s’infilano fra le dita, nelle orecchie.//

Adès te sbat,
par la strachèzza, ò ròtt la lampadèina,
te schèur lòu l’è e’ su stè, i n va véa piò,
a téngh al mèni sla testa, a m mètt d’inznòc

t’un cantòun, sla faza còuntra e’ méur,
a stag d’aspitè un pèz, mo u n vén niéun.

Adesso nello sbattere,/ per la stanchezza, ho rotto la lampadina,/ nel buio è il loro stare, non vanno via più,/ tengo le mani sulla testa, mi metto in ginocchio/ in un angolo, con la faccia contro il muro,/ sto ad aspettare un pezzo, ma non viene nessuno.//

Alòura am bòtt te lèt,
sòtta la cvérta, ènca sla testa, spléid,
a vòi stè bòn aquè, ch’i s stóffa lòu,
ch’e’ vénga e’ dè, quant i è invurnéid, i è zigh,
e i s’indurménta. Admatéina a ridémm.
Mo l’è snò ‘l dis e la nòta la è lònga
a stè férum, te schéur,
scartuzèd aquè zò mi pi de lèt,
zétt, da par mè,
e lòu ch’i vòula, ch’i céula, ch’i s dà dri.

Allora mi butto nel letto,/ sotto la coperta, anche con la testa, sepolto,/ voglio star buono qui, che si stanchino loro,/ che venga giorno, quando sono intontiti, ciechi,/ e s’addormentano. Domattina ridiamo./ Ma sono solo le dieci e la notte è lunga/ a star fermo, nel buio,/ accartocciato quaggiù ai piedi del letto,/ zitto, solo,/ e loro che volano, che sibilano, che si rincorrono.//

Mo parchè pu mè ò tótta sta paéura?
parchè i è tint, i n finéss mai, i crèss sémpra?
sè, va bén, i è un strabéigh,
mo aquè dréinta, tra i méur,
forse i s sint cmè intraplèd,
i sta pézz che nè mè, i ragna tra’ d lòu.
Però i n s dà ‘d mórs, i n s pézga.
E s’e’ fóss ch’i è cuntént, ch’u i pis acsè,
ès un róbbi, vulè, dès dal spatàsi,
mo dabón, se i avèss snò vòia ad réid,
e i m zirca, e i è ‘rvènz mèl ch’a m so masè?
Mè a n gn’ò mai vést davséin,
a n gn’ò tuchè, i m’à sémpra fat schiv,
mo magari a sbai mè,
mè u m fa séns ènca e’ vléut, ch’a n’e’ tòcch mai.
I è un pò nir, pu s’ cagli èli cmè un’umbrèla,
a déggh se séri, i m fa vnéi la chèrna pléina,
però l’è còulpa sóvva?
Iòu i vòula, i n’e’ fa pòsta, i n’è catéiv,
in fònd, agli è piò mati al pavaiòti
tònda mi lómm, e pu cs’èll ch’i t pò fè?
magnè i magna i musléin,
i n’à i ócc bón, bèch gnént, e gnénca agli óngi,
va vdai che s’ta t’i mètt s’un pó ‘d pazinzia
ta i pò domestichè, ta i tén tla ghèbia.

Ma perché poi ho tutta questa paura?/ perché sono tanti non finiscono mai, crescono sempre?/ sì, va bene, sono uno sterminio,/ ma qui dentro, fra i muri,/ forse si sentono come intrappolati,/ stanno peggio di me, litigano fra di loro./ Però non si danno morsi, non si pizzicano./ E se fosse che sono contenti, che gli piace così,/ essere uno stormo, volare, darsi delle spinte,/ ma davvero, se avessero solo voglia di ridere,/ e mi cercano, e sono rimasti male che mi sono nascosto?/ Io non li ho mai visti da vicino,/ non li ho toccati, mi hanno sempre fatto schifo,/ ma magari sbaglio io,/ a me mi fa senso anche il velluto, e non lo tocco mai./  Sono un po’ neri, poi con quelle ali come  un ombrello,/ dico sul serio, mi fanno venire la pelle d’oca,/ però è colpa loro?/ loro volano, non lo fanno apposta, non sono cattivi,/ in fondo, sono più matte le farfalle/ attorno ai lumi, e poi cosa ti possono fare?/ mangiare, mangiano i moscerini,/ non hanno gli occhi buoni, niente becco, e nemmeno le unghie, vai a vedere che si ti ci metti con un po’ di pazienza/ li puoi addomesticare, li tieni in gabbia.//

Mo la ghébia u i è témp, quéll ch’u i vó ‘dés
l’è snó da truvé e’ mòdi ad fés capéi,
ad fèi savài che mè a n’i ví de mèl,
che, quant l’è tl’éultum, s’i vó stè tla cambra,
s’u i pis e’ post, ch’i staga quant i vó,
pr’e’ durméi u s’avdirà,
basta mèttsi d’acórd, ch’a s’intendémma,
mo cmè ch’u s fa a fè un zcòurs, ch’i n sta d’anténti,
quéi, zént schéud chi i aciàpa,
i va d’in quà e d’in là cmè di imbariègh,
i è bón snò ‘d fè di céul.
Zà, mo s’e’ fóss e’ su módi ad dizcòrr,
e i n gne la fa a spieghés,
se quant i m s’instichéva ti cavéll
i m vléva déi: sta ‘ténti, a zcòrr sa tè?
mo sta pò ‘ténti, mè a sint snò di gran céul,
a n capéss gnént,chi sa quèll ch’i m racòunta,
sint cmè ch’i rógg. E s’a i déss vòusa mé?
a faz d’ilt céul, cmè i sóvv, di sgréss, mo stil,
a m mètt a zcòrr cmè lòu. Adès a próv.
Se dabón qualchedéun u m’arspundéss?

Ma per la gabbia c’è tempo, quello che ci vuole adesso/ è solo trovare il modo di farsi capire,/ di fargli sapere che non gli voglio del male,/ che, alla fin fine, se vogliono stare nella camera,/ se gli piace il posto, ci stiano quanto vogliono,/ Per il dormire si vedrà,/ basta mettersi d’accordo, che c’intendiamo,/ ma come si fa a fare un discorso se non stanno attenti,/ quelli, cento scudi chi li acchiappa,/ vanno di qua e di là come ubriachi,/ sono solo capaci di fare dei sibili./ Già, ma se fosse il loro modo di parlare,/ e non riescono a spiegarsi,/ se quando mi si cacciavano nei capelli/ mi volevano dire: stai attento parlo con te?/ ma stai pure attento, io sento solo dei gran sibili, / non capisco niente, chissà quello che mi raccontano,/ senti come urlano. E se gli dessi voce io?/ faccio altri sibili, come i loro, degli stridi, ma sottili,/ mi metto a parlare come loro. Adesso provo./ Se davvero qualcuno mi rispondesse?

Raffaello Baldini (Santarcangelo di Romagna 1924, Milano 2005) è un poeta italiano, ha vissuto a lungo a Milano dove è stato giornalista, i suoi libri di poesie sono in dialetto; il primo pubblicato nel 1976 si intitola E’ solitèri (Il solitario), poi confluito in La nàiva (La neve) del 1982, da cui è tratta la poesia I nóttal. 

Gli orecchini di Eugenio Montale

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Odilon Redon, Head of a young woman, 1895, collezione privata

Non serba ombra di voli il nerofumo
della spera. (E del tuo non è più traccia.)
È passata la spugna che i barlumi
indifesi dal cerchio d’oro scaccia. 4
Le tue pietre, i coralli, il forte imperio
che ti rapisce vi cercavo; fuggo
l’iddia che non s’incarna, i desiderî
porto fin che al tuo lampo non si struggono. 8
Ronzano élitre fuori, ronza il folle
mortorio e sa che due vite non contano.
Nella cornice tornano le molli 11
meduse della sera. La tua impronta
verrà di giù: dove ai tuoi lobi squallide
mani, travolte, fermano i coralli. 14

Sonetto elisabettiano: tre quartine e un distico finale, i versi 8, 10 e 13 hanno rime ipermetre (fuggo -struggono, contano-impronta, squallide-coralli).
Gli orecchini viene pubblicata nel 1940 sulla rivista Prospettive e poi in Finisterre a Lugano nel 1943. Di questo sonetto ha dato una famosa lettura il critico D’Arco Silvio Avalle in un saggio Gli orecchini di Montale del 1965. Avalle utilizzando le tecniche della critica strutturalista divide il sonetto in nove parti, divise in due coppie di quattro parti ciascuna disposte a chiasmo, più una parte centrale. La prima coppia corrisponde a: “Non serba ombra di voli il nerofumo” verso 1 (A) , “dal cerchio d’oro scaccia.” verso 4 (B), “Nella cornice tornano”  verso 11 (B), “meduse della sera” verso 12 (A).  In questa prima coppia troviamo nei versi esterni (A) il tempo in cui si colloca l’evento della poesia:  “Non serba ombra di voli il nerofumo“meduse della sera;  nei versi interni (B) lo spazio  dell’evento della poesia: dal cerchio d’oro scaccia.”  “Nella cornice tornano” .  La seconda coppia “Le tue pietre, i coralli”  verso 5 (A),  “vi cercavo”  verso 6 (B),  “ verrà di giù:”  verso 13 (B), “ mani, travolte, fermano i coralli” verso 14 (A). In questa coppia troviamo nei versi esterni (A) gli oggetti della poesia: “Le tue pietre, i coralli” e “mani, travolte, fermano i coralli” ; nei versi interni (B) le azioni che generano l’evento poetico “vi cercavo” e “ verrà di giù:” Al centro, dalla fine del verso sei al verso dieci, il nucleo misterioso della poesia individuato nel tema dell’amore “i desideri porto fin che al tuo lampo non si struggono” e della distruzione e morte “ronza il folle mortorio e sa che due vite non contano.”  Concludendo il critico si chiede “se le due vite non contino veramente nulla, oppure (ultima ipotesi) se di fronte all’Emergenza (quella della guerra e l’”altra”) non ci sia ancora luogo per una protesta solenne.” (D.S.Avalle, Gli orecchini di Montale, in A.Marchese, L’analisi letteraria, pp.291-294).

Un sonetto d’amore per una donna che non c’è e non ci sarà più?  La donna evocata nella poesia è Irma Brandeis, la studiosa americana che Montale conobbe a Firenze nel 1933 e con cui ebbe una relazione amorosa durata fino a quando nel 1939 la donna dovette tornare negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziste del regime fascista. Irma era ebrea.  il poeta non la rivide più. Montale ha descritto le poesie di Finisterre come le poesie “che rappresentano la mia esperienza, diciamo così petrarchesca”.

Comprensione
La mia mente non conserva le immagini che ha ricevuto (E della tua non c’è più traccia). Come cancellati da una spugna i deboli segni di un’esistenza sono scomparsi dalla mia memoria. Cercavo di ricordare i tuoi orecchini di corallo e il tuo amore. A te, che sei la mia divinità incarnata, porto i miei desideri finché al tuo ardore non si consumano. Fuori il rumore, come di ali di insetti, della folle guerra indifferente alle nostre due vite. Nella mente tornano i tristi pensieri della sera, come molli  meduse velenose. Si imprime in me un’immagine di morte: vedo gli orecchini di corallo e squallide mani di morti che li fissano ai tuoi lobi.

La primavera hitleriana di Eugenio Montale: parafrasi e comprensione

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Irma Brandeis

 

La primavera hitleriana letta da Mauro Pescio a Radio Tre Tutta l’umanità ne parla del 22.06.2019

Né quella ch’a veder lo sol si gira…
Dante (?) a Giovanni Quirini

Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.

Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio ….
———————————————Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
 che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
 della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince –
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…

Parafrasi
Il fitto bianco sciame delle farfalle notturne impazzite,
turbina intorno ai pallidi fanali e sui muretti del fiume,
stende a terra uno strato su cui i piedi scricchiolano
come se camminassero sullo zucchero; l’estate che sta per arrivare
libera il gelo della notte che era chiuso
nelle cave nascoste dell’inverno,
negli orti che da Maiano giungono fino a queste sponde sabbiose.

Da poco sul corso è passato un messo infernale
tra le urla di “alalà” dei suoi sgherri, il teatro illuminato
e addobbato di svastiche l’ha accolto come inghiottendolo,
sono state chiuse le vetrine povere
e inoffensive, ma piene
di cannoni e giocattoli di guerra,
il macellaio, che ornava di bacche il muso dei capretti uccisi,
ha sprangato il negozio,
la festa dei miti carnefici che ancora non sanno  del sangue
è diventata una sporca danza di ali spezzate,
di insetti sugli argini umidi, e l’acqua continua a consumare
le sponde e nessuno è più senza colpa.

È stato  tutto inutile, dunque ? – i fuochi d’artificio
per la festa di San Giovanni che si spegnevano lentamente
all’orizzonte, le promesse, i lunghi addii
forti come un battesimo nella triste attesa
della devastazione (ma una stella attraversò l’aria seminando
sulle tue fredde terre
i sette angeli di Tobia, la semina
del futuro), gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto distrutto
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di gelo ….
——————————– Oh la ferita
primavera è proprio una festa se raggela
in morte questa morte! Continua a guardare
in alto, Clizia, è il tuo destino, tu
che, anche trasformata, conservi lo stesso amore,
finché il sole che porti chiuso in te
si accechi nell’Altro e si distrugga
in Lui per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che festeggiano i mostri nella sera
del loro diabolico incontro, si confondono già
con il suono che liberato dal cielo, scende, vince –
con il respiro di un’alba che domani per tutti
riappaia, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, sulle sponde aride del sud.

Comprensione
La primavera hitleriana è un ossimoro, non una primavera che porta vita, ma una primavera che porta morte.
Le falene che volteggiano lungo le sponde dell’Arno, cadono a terra morte, dai campi lungo il fiume arriva in città un freddo notturno, ancora invernale, anche se l’estate è vicina.
La città è in festa per l’arrivo di Hitler, tutti partecipano, nessuno si accorge che è una festa di morte e nessuno è senza colpa.
La terza strofa si apre con una domanda piena di paura “Tutto per nulla dunque?”  L’ultima volta che si erano visti, il poeta e la donna si erano lasciati scambiandosi promesse e addii, forti della certezza di un prossimo incontro nonostante la tristezza per la violenza che sentivano avvicinarsi. In quella occasione una stella cadente aveva attraversato il cielo, segno di una speranza per il futuro. Ma tutto questo è stato distrutto da ciò che è accaduto.
L’ultima esclamazione “Oh la piagata primavera è pur festa se raggela in morte questa morte!” esprime una nuova speranza, perché la fredda primavera può uccidere la morte che il “messo infernale” porta con sé. Clizia, custode fedele dell’amore, può resistere e salvare tutti; è l’antica donna angelo, portatrice di salvezza, che rinasce. Forse il suono delle sirene che salutavano i mostri di quella orrenda sera era già il suono vittorioso che annunciava l’alba di un giorno pieno di vita per tutti.

Clizia è Irma Brandeis, l’italianista americana ebrea, conosciuta a Firenze nel 1933, con cui Montale ebbe una relazione fino all’estate del 1938, quando la donna ritornò in America per sfuggire alle persecuzioni fasciste. Il nome Clizia rimanda a un personaggio della mitologia greca, una ninfa, innamorata di Apollo, che, quando viene abbandonata dal dio, si trasforma in una pianta che si volge sempre verso il “Sole” 1, per questo al verso 27 compaiono gli eliotropi, nome greco che si può tradurre con girasoli, nelle mani della donna.
Il verso in epigrafe e il verso 34 della poesia sono ripresi da un sonetto2, attribuito a Dante, in cui si fa riferimento al racconto di Ovidio.
La poesia è datata 1939 – 1946. A distanza di tempo il poeta ripensa a due eventi, il primo storico: la visita di Hitler a Firenze nel maggio del 1938, il secondo personale: l’ultimo incontro con la donna amata e l’addio pieno del desiderio di futuro.
Il poeta trasfigura la realtà che assume così valore simbolico: Hitler, “il messo infernale”, è simbolo di morte e distruzione, Clizia, di tutti coloro che rimangono sempre fedeli a ciò che amano. Dopo la disperazione per la perdita di tutto, il poeta affida alla donna la sua speranza di salvezza. In una intervista immaginaria del 1946 Montale dirà “Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia (la chiami come vuole) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria…”.

1“Quanto a Clizia (…), il Sole non l’andò più a trovare e non l’amò più. Allora la ninfa abituata all’amore si ammalò e giorno e notte sedeva per terra nuda e spettinata. Per nove giorni, senza acqua e cibo, digiuna, si nutrì di rugiada e lacrime senza staccarsi dal suolo: soltanto guardava il volto del dio che passava e volgeva il suo sguardo a lui. Le sue membra, raccontano, si attaccarono alla terra, il pallore le trasforma una parte in erba verde, una parte è rossa, e un fiore simile alla viola copre il volto. Lei, come se fosse trattenuta da una radice, si volge al suo Sole, e mutata conserva l’amore.” Ovidio, Metamorfosi, libro IV vv. 256-270

2“Né quella ch’a veder lo sol si gira e’l non mutato amor mutata serba” Dante Rime dubbie 74. vv.9-10

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Signs out of time è un documentario che ripercorre la vita e le scoperte dell’archeologa lituana Marija Gimbutas. Nata a Vilnius nel 1921, Gimbutas ha studiato archeologia, folclore e linguistica. Gli scavi da lei condotti hanno confermato l’esistenza di antiche civiltà neolitiche nell’area sud -est dell’Europa lungo le rive del Danubio da lei chiamata Antica Europa. Queste civiltà hanno dato vita a grandi villaggi in cui vivevano gruppi umani che praticavano l’agricoltura, l’allevamento, la tessitura e la ceramica. Avevano una struttura sociale egualitaria, erano pacifiche e veneravano una divinità femminile, che presiedeva alla vita, alla morte e alla rigenerazione della natura e degli umani.   Gimbutas descrive queste civiltà come “una gilania (il termine è composto dalle due radici greche gy, da gyné “donna” e an, da anèr “uomo” e dalla lettera “L” in mezzo a loro come legame tra le due metà dell’umanità) un sistema sociale equilibrato, né patriarcale né matriarcale” ( Marja Gimbutas, Il linguaggio della dea, p.XX) . Queste civiltà ebbero fine tra il quarto e il terzo millennio a.C. in seguito allo spostamento verso occidente di popoli di lingua indoeuropea provenienti dal bacino del Volga. Questi popoli trasformarono la civiltà dell’Europa Antica da gilanica in androcratica, da matrilineare in patrilineare.  La cultura delle antiche civiltà pre-indoeuropee sopravvisse più a lungo in alcune aree del Mediterraneo, come Thera, Creta, Malta e Sardegna, in numerose altre aree divenne una cultura sotterranea, segreta, misteriosa, in alcuni periodi della storia europea si cercò di estirparla definitivamente con violente persecuzioni.

Fonte: Marja Gimbutas, Il linguaggio della dea, 2008, Venexia.

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Il dono di Natale di Grazia Deledda

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G.Klimt, Adamo e Eva, 1918

Grazia Deledda è una scrittrice italiana del XX secolo, nata a Nuoro nel 1871 morta a Roma nel 1936. Nel 1926 riceve il premio Nobel per la letteratura.
Il dono di Natale è un racconto della raccolta omonima pubblicata a Roma nel 1930.
In un piccolo paese della Sardegna si celebra la notte di Natale; protagonisti del racconto sono due bambini di undici anni, Felle e Lia. Felle è il fratello più piccolo dei cinque fratelli Lobina, che tornano a casa dalle montagne per passare la notte di Natale in famiglia. La sorella si è fidanzata e il fidanzato festeggerà con loro. Anche in casa di Lia si festeggia il Natale e si attende un dono misterioso.
Deledda ci conduce su “le impronte di un piede di donna”  in un mondo scomparso, il mondo che la trasformazione industriale ha cancellato. Un mondo regolato da un’antica sapienza che è facile comprendere e imparare fin da bambini, come fanno Lia e  Felle.

I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.
Era una festa eccezionale, per loro, quell’anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.
Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.
E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.
Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.
Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d’alberi carichi di neve e di ghiacciuoli, appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole.
Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.
Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un’altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.
Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.
– Ben tornato, Felle.
– Oh, Lia! – egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.
Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l’amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d’occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.
– Che ci hai, qui? – domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. – Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, – aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: – e anche noi!
Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.
In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con buccie di arance e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.
La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un’aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.
Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.
– Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po’ di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? – pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.

Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca [1].
Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all’esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l’uomo che lo accompagnava. Quest’uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l’indipendenza d’Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista.
E rimasero tutti scambievolmente contenti.
Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d’oro.
Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.
L’ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s’intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.
Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.
Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.
Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d’occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.

Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.
Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.
– La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini – disse a Felle: – anch’essi hanno diritto di godersi la festa.
Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile.
La notte era gelida ma calma, e d’un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.
Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.
All’entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:
– La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.
Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c’erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po’ triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.

Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.
– Oh, ragazzi, su, in fila.
E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.
I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.
Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell’aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.
Dentro la chiesa continuava l’illusione della primavera: l’altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l’ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.
In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d’oro illuminava loro la via.
Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.
Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.
– Gloria, gloria – cantavano i preti sull’altare: e il popolo rispondeva:
– Gloria a Dio nel più alto dei cieli.
E pace in terra agli uomini di buona volontà.
Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.

All’uscita di chiesa sentì un po’ freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l’odore d’arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l’uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d’arancio, perché l’anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.
Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un’asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.

Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.
In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d’avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l’arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.
Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolìo della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.
Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.

Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?
Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.
Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov’era?
– Vieni avanti, e va su a vedere – gli disse l’uomo, indovinando il pensiero di lui.
Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.
E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.
– È il nostro primo fratellino – mormorò Lia. – Mio padre l’ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il “Gloria”. Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.

[1] È una sopraveste di pelle d’agnello, nera, con la lana, che tiene molto caldo.

Amore di lontananza di Antonia Pozzi e L’infinito di Leopardi

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Celia Paul, Evening Sea, 2016

Ricordo che, quand’ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sola volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.

Antonia Pozzi scrive Amore di lontananza a diciassette anni. Il componimento è di quindici versi endecasillabi come L’infinito di Leopardi. L’infinito presenta dieci enjambements, solo in due versi metrica e sintassi coincidono, il primo e l’ultimo verso. Il componimento è diviso in quattro parti da punti fermi, ma solo due di questi coincidono con la fine del verso: il verso tre e l’ultimo verso. In Amore di lontananza sono presenti sei enjambements, tra il verso uno e il verso due, tra il terzo e il quarto, tra il quarto e il quinto, tra il settimo e l’ottavo, tra l’ottavo e il nono, tra l’undicesimo e il dodicesimo. Pozzi riduce il numero di enjambements e divide il componimento in tre parti, terminanti ciascuna alla fine del verso: prima parte dal verso uno al verso sei, seconda dal verso sette al verso nove, terza dal verso dieci al verso quindici.

Se confrontiamo le singole parti dell’uno e dell’altro componimento troviamo somiglianze e differenze. I primi tre versi della poesia di Leopardi coincidono con i primi sei versi della poesia di Pozzi, entrambe le parti presentano il luogo dove avviene l’esperienza che la poesia descrive: “quest’’ermo colle e questa siepe”  , “nella casa della mia mamma (…) avevo una finestra”. Nei versi dal settimo al quattordici Pozzi descrive l’esperienza di creazione dell’immagine del mare, così come Leopardi nei versi dal quattro al tredici descrive la creazione dell’immagine dell’infinito. Ne L’infinito l’immaginazione ha origine dal superamento del limite,  “ questa siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” e crea immagini interiori di spazio e tempo infinito “interminati spazi di là da quella e sovrumani silenzi (…) io nel pensier mi fingo”, in Amore di lontananza l’immagine del mare nasce, prima, dal ricordo “Io allora non avevo visto il mare che una sola volta” e poi dalla metamorfosi che l’immagine reale subisce nello sguardo della poetessa “e la striscia dei colli si spianava”. E’ nei versi finali che la distanza tra i due poeti si fa più evidente. Nell’ultimo verso del componimento Leopardi esprime la dolcezza del naufragare nel mare dell’infinito, Pozzi in un verso condensa la sensazione di piacere più intensa che il mare immaginato le dà rispetto al mare vero; mare lontano che si materializza nella realtà ogni volta che la forza del desiderio lo fa esistere, non metafora di qualcosa che non esiste, l’infinito, ma simbolo dell’unica e sola realtà che possediamo, quella che creiamo in noi.

Parafrasi A sé stesso di Leopardi

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E.Munch, Notte d’estate, 1889

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento. 5
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. 10
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera, 15
E l’infinita vanità del tutto.

Mio stanco cuore ora non batterai più. L’amore,  che pensavo eterno, è morto. Finito. E sento che in me non solo non c’è più speranza ma neppure desiderio.
Fermati per sempre. Hai sofferto abbastanza. Nessuna cosa sulla terra è degna di essere amata. La vita è solo amarezza e noia, il mondo è  privo di senso.
A questo punto rassegnati. Disperati per l’ultima volta. Non ci è stato dato nient’altro all’infuori della morte. Disprezza te stesso, l’esistenza dominata dal male e l’insensatezza  di tutte le cose.

LA MODERNITA’ DI A SE’ STESSO

A sé stesso è il testo più moderno di Leopardi. In che cosa sta la modernità di questa poesia?
La modernità di A sé stesso consiste nella rappresentazione della disperazione di un io in cui il desiderio si è spento. La disperazione di A sé stesso per la “fine del desiderio” non ci scandalizza, né ci è incomprensibile, come invece era incomprensibile e scandalizzava gli uomini dell’Ottocento e del Novecento.
Per lungo tempo il pensiero occidentale, sia filosofico sia religioso, ha avuto come obiettivo la “fine del desiderio”, ovvero il controllo e la repressione del desiderio.
La creazione di un sistema di controllo del desiderio è fondamentale in qualsiasi società. Il sistema più semplice è quello della repressione autoritaria, più complesso ed elitario è quello ideato dalla filosofia greca, ma anche da altre filosofie non occidentali, del controllo consapevole del desiderio (morale stoica, epicurea, pratiche yoga e buddhiste); nella religione cristiana, ma anche in altre religioni, il controllo viene raggiunto attraverso la sostituzione del desiderio con la speranza. In tutte queste soluzioni il desiderio viene svalutato, secondo modalità e con intensità diverse.
Al contrario Leopardi riconosce la naturalità e necessità del desiderio, propone, al posto della svalutazione del desiderio, il desiderio di “cari inganni”, chiamati nell’operetta morale Dialogo di Tristano e di un amico “inganni dell’immaginazione”, come valore per l’individuo e per la società, afferma il dolore e l’infelicità che la fine del desiderio comporta, infelicità ineliminabile in ogni società. Freud nel saggio Il disagio della civiltà afferma “L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza” (S.Freud, Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, p.250).

La nostra società ha fatto proprio il riconoscimento della naturalità e necessità del desiderio, la non svalutazione dello stesso e il riconoscimento del prezzo di sofferenza che la repressione del desiderio comporta, ma ha adottato soluzioni sensibilmente diverse rispetto alla valorizzazione del desiderio dei “cari inganni” proposta da Leopardi. L’infelicità, che la repressione e il controllo del desiderio producono nella nostra società, sono “risolti” con la creazione di desideri artificiali, basata su un apparente processo contrario alla svalutazione del desiderio, desideri funzionali al mantenimento della società stessa, ovvero prospettando una felicità illusoria, che Leopardi chiamerebbe “un inganno dell’intelletto”. A questo riguardo in una delle sue ultime interviste Pier Paolo Pasolini affermava di odiare il potere del suo tempo perché lo considerava “un potere che manipola i corpi in un modo orribile, (…) li manipola trasformando la loro coscienza, nel peggiore dei modi, stabilendo nuovi valori che sono alienanti e falsi” ( in Pasolini prossimo nostro, film – intervista di Bernardo Bertolucci).

In A sé stesso la fine del desiderio genera disperazione, rabbia, odio. Il poeta si rivolge al proprio cuore, è questa la metafora che il poeta utilizza per rappresentare il “sé stesso” del titolo (tutti i testi letterari scritti in prima persona fanno credere al lettore che l’autore stia parlando di sé, in realtà l’autore parla di sé come di un personaggio letterario). Per due volte nel componimento (v.6 e v.11 ) il poeta, usando l’imperativo, si rivolge a esso ordinandogli di smettere di soffrire; il poeta vuole che il suo cuore non provi più nulla, ha smesso di desiderare, “il desiderio è spento”, che smetta anche di soffrire. Nel verso 11 con un secondo imperativo il poeta intima al cuore di disperare per l’ultima volta, infine nel verso 13 gli rivolge l’ordine di disprezzare sé stesso, l’esistenza, la sofferenza che tutti subiscono e il nulla che pervade tutto. La richiesta del poeta di smettere di soffrire non può essere soddisfatta, dolore e sofferenza si trasformano in disperazione, frustrazione, rabbia contro sé stessi e il mondo. Le cose non hanno senso in sé “l’infinita vanità del tutto”, il loro senso dipende da noi, se non siamo in grado o non siamo più in grado di dare un senso alle cose, ci rimane solo la disperazione e la rabbia “fango è il mondo” “disprezza te” .
In questo componimento Leopardi rappresenta l’altro volto del desiderio di piacere infinito che muove gli esseri viventi, quello della disperazione più totale e profonda, se “il desiderio è spento”, rimane la disperazione, che è sempre un’ultima disperazione “dispera l’ultima volta”. Catullo, un antico poeta latino aveva condensato un contenuto simile in una brevissima poesia “Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris. Nescio sed fieri sentio et excrucior” (Odio e amo. Perché lo faccia forse mi chiederai. Non lo so ma sento che accade e soffro).

Libri per l’estate 2018

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T.Roussel, La ragazza che legge, 1887

T.Roussel, The reading girl, 1887

Ecco un elenco di libri  sono racconti e romanzi di storie ambientate nel XX e XXI secolo. Tutti hanno come protagonisti giovani uomini e donne. I titoli rimandano a link  per brevi informazioni e recensioni, quando del libri esiste il film è segnalato. Buona lettura,  visione e estate.

Le donne muoiono di Anna Banti ( fuori catalogo solo in biblioteca)
Le visionarie Fantascienza, fantasy e femminismo un’antologia
La vita delle ragazze e delle donne di Alice Munro (USA prima metà del ‘900)
Vita di Melania Mazzucco   (New York inizi ‘900)
Gli indifferenti di Alberto Moravia (Roma anni 20) (film)
Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani (Ferrara anni 30) (film)
La ragazza di Bube di Carlo Cassola (Toscana, subito dopo la Liberazione) (film)
La storia di Elsa Morante (Roma dal 1941 al 1947) (film)
Ragazzi di vita di Pier Pasolini (Roma anni 50) (film)
Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori (Milano anni 50) (film)
Caro Michele di Natalia Ginzburg (Roma, Inghilterra, primi anni 70) (film)
Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli (Bologna, Bruxelles, Amsterdam, Milano  fine anni 70)
Romanzo criminale di Giancarlo de Cataldo (Roma anni 80 90) (film e serie TV)
Bellas mariposas di Sergio Atzeni (Cagliari anni 90) (film)
Acciaio di Silvia Avallone (Piombino 2001) (film)
Il corpo umano di Paolo Giordano (Italia Afghanistan fine 2000)
Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia (Bari anni 80)