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L'autore di www.letteraturaitalia.it insegna letteratura italiana. Nel 2013 ha creato questo sito per le sue lezioni in classe. "Λήθη γάρ επιστήμης ̉έξοδος" (Platone, Simposio 208, 4-5)

Celia Paul’s Painter and model

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Celia Paul, Painter and model, 2012

Celia Paul è una artista inglese nata nel 1959 in India, vive e lavora a Londra. Due suoi quadri, tra cui Painter and model del 2012, sono esposti alla mostra All too human, Bacon, Freud and a century of painting life, in corso fino al 27 agosto 2018 alla Tate Britain di Londra.
Painter and model di Celia Paul ha lo stesso titolo del quadro di Lucian Freud, che raffigura Paul in piedi con in mano i pennelli e il pittore, sdraiato nudo sul divano di fronte a lei. Nel suo quadro Celia Paul raffigura se stessa, pittrice e modella, seduta su una sedia, come spesso raffigurava la madre, il più frequente soggetto dei suoi quadri. Con Lucian Freud Paul  ebbe una  relazione in giovane età e un figlio, i due si conobbero alla Slade School of Fine Art di Londra, dove Paul studiava (Artist and muse Celia Paul, Independent, 10 ottobre 2012). Durante il periodo della loro relazione fu anche una sua modella. Dopo la fine della relazione con Freud Paul ha continuato a dipingere, sette opere della pittrice sono in mostra al Yale Center for British Art dal 3 aprile al 12 agosto 2018.

The Brontë Parsonage with Charlotte’s Pine and Emily’s Path to the Moors, 2017, Victoria Miro Gallery, London

Di recente l’artista ha dichiarato che i suoi prossimi quadri avranno come soggetto le ” potenti figure maschili “ della sua vita, ” Penso, ha detto, che sia ovvio che  bisogna comprendere la propria posizione come donna in relazione a quello che rimane un mondo retto da uomini “.  (New York Times, An artist’s Muse steps out of the Shadows with paintings of her own, 5 marzo 2018)

Da Doppiozero: Intervista a mia madre sul Sessantotto

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Operaie della Siemens

Mentre mia sorella, mia moglie, mio cognato e i bambini mangiavano i bignè, a mia madre ho detto: “Sediamoci sul divano”. Glielo avevo preannunciato al telefono: “Ti farò due domande sul Sessantotto, mi racconterai quello che ricordi, niente di impegnativo”. Ma la sola idea l’aveva messa in apprensione. “È passato tanto tempo”, aveva sussurrato.
Mia madre non era nel movimento, non partecipò alla battaglia di Valle Giulia. Nel 1968 aveva diciotto anni, viveva in un paese a venti chilometri da Roma, aveva lasciato la scuola a quindici e non pensava alla Primavera di Praga né alla rivoluzione culturale cinese. Era l’ultima di sette fratelli, tre maschi e quattro femmine, figli di un fornaciaio e di una materassaia immigrati dall’Abruzzo.
A quel tempo lavorava in un laboratorio farmaceutico come confettatrice. “Iniziamo da questo”, le ho detto, sistemandomi il portatile sulle gambe. “Sai cos’è una confettatrice?”, mi ha chiesto. “È l’operaia che dà il colore alle pastiglie. Le bagnavo tutto il giorno con acqua e zucchero e alla fine aggiungevo il colore”. Sapevo che mia madre, prima che nascessi, aveva lavorato nell’industria farmaceutica, ma non sapevo che fosse una confettatrice. Ho cercato il significato della parola sulla Treccani, c’è scritto: “Macchina con cui si esegue la confettatura”. Mia madre era una macchina.
“Eravamo una cinquantina di operaie, tutte donne. Ci avevano scelto sulla base di un unico criterio: dovevamo essere vedove o nubili, lo stipendio che ci passavano a fine mese doveva essere la nostra unica ragione di vita”, ha rievocato con malcelato rancore. “Lavoravamo dalla mattina alla sera, eravamo ricattabili in qualsiasi momento. In fabbrica non c’era il sindacato, quando cinque di noi presero la tessera della CGIL, ci licenziarono. Facemmo causa e la vincemmo, il giudice ci reintegrò. Ma a quel punto ci rinchiusero tutte e cinque in una stanza, lontano dai laboratori. Avevamo il divieto di avvicinarci agli stabilimenti. Il lavoro che ci affidarono serviva solo a mettere alla prova i nostri nervi: dovevamo staccare le etichette dalle bottiglie vuote”. Ha fatto una pausa e le è venuto in mente un aneddoto: “In quel periodo il direttore fu arrestato perché aveva messo in vendita un farmaco senza l’autorizzazione del ministero. Noi andavamo a lavorare ma restavamo tutto il giorno in sala d’aspetto, gli stabilimenti erano sotto sequestro. Quando il direttore fu rilasciato ci disse: «Ho salito il gradino di Regina Coeli, adesso sono un vero romano». Resistetti ancora per poco, poi quando la sede della società fu spostata a Pomezia mi licenziai. Avevo lavorato lì per nove anni”.
Le ho chiesto se, pur facendo quella vita, le arrivasse l’eco del profondo sommovimento che scuoteva la società italiana, la spinta che invocava una radicale modernizzazione del paese. La miccia era stata accesa dagli studenti universitari già nell’autunno del ’67 con le occupazioni degli atenei di tutte le principali città del centro-nord. “Avevi percezione di tutto questo?”.
“Noi volevamo aderire al Sessantotto, certo”, mi ha risposto (come se si possa aderire a un anno, combaciare con esso, come un cerotto sulla pelle, o dichiararsene seguaci o sostenitori, spalleggiare un’idea, un concetto che nella sua intima materialità è fatto dell’immaterialità dei giorni), “ma incontravamo l’ostruzionismo delle più anziane che temevano di perdere il lavoro”. Il Sessantotto visto da una ragazza di provincia era questo: uno tsunami che seduceva e al contempo spaventava. “Una volta partecipammo a una manifestazione a Roma, ci sentivamo come se ci avessero invitato a una festa a cui mai avremmo immaginato di partecipare”.
Andare a Roma per quelle ragazze doveva essere come andare verso il sole, mirare al cuore del mondo. “Che il Sessantotto fosse un anno eccezionale lo abbiamo capito dopo. Non era un fatto singolo, un evento che te lo ricordi per tutta la vita. Erano tante cose insieme accadute prima, durante e dopo quell’anno, e che in seguito avremmo racchiuso sotto il nome di Sessantotto. Lo sbarco sulla Luna, avvenuto l’anno dopo, per esempio, me lo ricordo poco. Successe di notte e io andai a dormire perché la mattina dovevo lavorare. Quando nel ’63 morì Kennedy, invece, avevo appena tredici anni ma me la ricordo bene”.
Ho guardato mia madre per un momento pensandola all’interno di quel flusso storico che sono stati gli anni Sessanta del Novecento. È difficile immaginare una madre nella Storia, collocarla in un tempo extradomestico, perlomeno una madre come la mia, una madre come tante, non una Simone de Beauvoir, ma una confettatrice.
Le ho detto di parlarmi della musica. Da bambino mi opprimeva con le canzoni degli anni Sessanta. La mia generazione è cresciuta tutta allo stesso modo, schiacciata da una dittatura musicocratica. “Ascoltavo i Beatles, i Rokes, Gianni Morandi, Mina, Rita Pavone, i Camaleonti, i Dik Dik. Nel tempo libero uscivo poco, mio padre mi costringeva a rientrare al massimo alle diciotto, «quando si fa notte», il che voleva dire che d’estate potevo tirare fino alle ventuno. La domenica pomeriggio andavamo a ballare nelle balere, il Cha cha cha, l’Alligalli, il Ballo della mattonella. In quel periodo iniziavano ad aprire le prime discoteche, come il Piper, dove però non ho mai messo piede perché i miei fratelli non me l’avrebbero permesso”.
Mia moglie ci ha offerto il vassoio con i bignè. “Ne avete ancora per molto?”. “Abbiamo quasi finito”, le ho risposto. Volevo sentire ancora la voce di mia madre su una questione importante: ciò che è venuto dopo, ossia gli anni di piombo, il terrorismo, la violenza politica, la strategia della tensione, le bombe, la rivoluzione che aveva cambiato aggettivo, e che da culturale era diventata armata. “Nei primi tempi”, ha detto mia madre, “pensavamo che le Brigate Rosse fossero nel giusto, poi abbiamo capito come stavano le cose. La nostra gioventù è finita lì. Nel ’72 mi sono sposata e nel ’73 sei nato tu”. Aveva ventitré anni mia madre quando sono nato io. Mi ha fatto una certa impressione immaginare la mia nascita posta accanto al dilagare della lotta armata, entrambi i fenomeni (privato e pubblico) a suggellare la fine di un’età irripetibile.

Dunque, quando il mondo era impegnato a sognare, mia madre lavorava tutto il giorno in una fabbrica. Quante occasioni offre la Storia di avere diciott’anni in un periodo così vivo, pulsante, creativo, luminoso? A quanti, tra tutti gli esseri umani che nei secoli hanno vissuto sulla Terra, è capitato questo? Quanti hanno avuto in sorte di essere giovani quand’era giovane il mondo? Mia madre è stata tra questi, ma mentre la osservavo seduta sull’orlo del divano di casa mia, con le ginocchia strette e le dita intrecciate, cinquant’anni esatti dopo il Sessantotto, ho capito che a lei non è stato concesso di avere sogni, e se li aveva (ma certo che li aveva) era stata educata a svilirli. La Storia spesso è un’astrazione che non coincide con la pratica quotidiana del vivere. Allora mi è tornata in mente una frase di Walter Benjamin: “Gli dica di rispettare i sogni della sua giovinezza quando sarà uomo”. A lei però non l’ho pronunciata quella frase. Ho detto solo: “Va bene, basta così”. Al che mia madre ha sospirato. Poi ci siamo alzati dal divano e siamo tornati a noi. (Andrea Pomella)  link a doppiozero

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (rev.0)

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Blumen Mythos, Paul Klee, 1918

What we talk about when we talk about Love, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è il titolo della omonima raccolta di racconti scritti da Raymond Carver
english.wikipedia.org/Raymond_Carver.

La più antica poesia d’amore è scritta da una donna

Pari agli dei mi sembra
quell’uomo: che siede di fronte a te
e ti ascolta mentre dolcemente parli e ridi

A me il cuore batte forte e ho paura.
Ti vedo e non ho più voce

la lingua mi si spezza; un brivido sottile
corre nel corpo, gli occhi  si oscurano
gli orecchi rimbombano

Sudo, tremo
Divento più verde dell’erba e sento
la morte vicina

(Saffo frammento  in Liriche e frammenti, Giulio Einaudi Editori, 1965)

A Roma quando un uomo  comincia a scrivere d’amore si ricorda dell’antica poesia della donna greca; la poetessa è Saffo e il poeta Catullo. Per chi non li conoscesse: la prima nata a Lesbo, isola dell’Egeo, nel VII secolo a.C., autrice di alcuni dei più noti frammenti della lirica greca, il secondo di Verona vissuto nel I secolo a.C., al tempo di Cesare e Cicerone. Quando a Roma per essere veri uomini , non bisognava occuparsi di amore e di donne, Catullo scrive un libro in cui molte poesie, quelle che avranno più notorietà tra i posteri, sono poesie d’amore; qualche tempo fa c’era una Tshirt con su scritto

Odi et amo, quare id faciam fortasse requiris
nescio sed fieri sentio et excrucior
(Catullo, Liber, 85)

Odio e amo perché lo faccio forse mi chiederai
non lo so ma sento che avviene e sto in croce

In mezzo c’era stato Platone

“Impara bene, Socrate” disse ” se vuoi riflettere un momento anche sull’ambizione degli uomini: potresti restar scosso dall’irragionevolezza della cosa, se non tieni a mente ciò che ho detto, e metti a fuoco l’incredibile attrazione umana per l’eros di divenire famosi e di lasciare eredità di gloria eterna (…). Pensi davvero che Alcesti sarebbe morta al posto di Admeto, Achille per Patroclo, (…), se non si fossero convinti che la loro memoria di eroi sarebbe stata immortale? E noi infatti li ricordiamo. Penso che tutti facciano di tutto per questa immortalità, infatti sono innamorati dell’immortalità. C’è gente fisicamente feconda. Questi cercano la donna, anzitutto, verso di lei portano il loro eros. Con il fare figli si assicurano immortalità, felicità, memoria. Ma c’è anche chi nell’anima … sì c’è chi diviene gravido nell’anima, più che nel corpo. Gravido sì, della cosa di cui è naturale che si ingravidi l’anima per poi partorirla. Che cos’è questa cosa? Il pensiero e tutte le altre virtù. (…) Capita che un ragazzo resti incinto di queste cose. Poi crescendo sente il desiderio di dare vita, di creare. Allora si guarda intorno e cerca il bello nel quale creare, non creerà mai nel brutto. E’ fecondo, perciò s’abbraccia ai corpi belli, non certo a i brutti. Se incontra un’anima bella, pura, nobile, s’abbraccia a quest’anima e al corpo di questa, e con lui discorre della virtù che un uomo deve avere e comincia a educarsi. Diciamo che si unisce al “suo bello”. E facendo l’amore con lui crea e poi partorisce ciò di cui era incinto da tanto tempo. Il risultato è che tra i due si stabilisce un unione più forte che se avessero insieme dei veri figli: perché hanno il legame di creature più belle e immortali. Chiunque preferirebbe per sé la nascita di tale figli piuttosto che quella di figli di carne. (…) Eh sì, quando uno partendo, dalle cose concrete di quaggiù, attraverso un giusto eros per i giovani, elevandosi, comincia a scorgere quel bello, potrebbe già quasi sfiorare la perfezione. Questo significa puntare, con buon metodo, alle cose dell’eros, o esservi guidati da altri: cominciare da queste bellezze particolari, concrete, e mirando al bello, elevarsi, come per una scala di gradini, prima da un corpo a due corpi, poi da due a tutti i corpi belli; e dai corpi belli alle azioni umane belle; e dalle azioni belle alle varie scienze belle; e dalle belle scienze finire a quel famoso sapere, che altro non è se non scienza di quell’assoluto bello.”  (Platone, Simposio, pp.115-117, 121-122, Oscar Mondadori, 1987)

L’amore di Saffo e Catullo e quello di Platone hanno dato alla cultura occidentale i due principali, anche se non unici, modelli di amore: l’amore come passione incomprensibile e distruttiva, l’amore come processo di elevazione e miglioramento di sé.
Questi modelli li troviamo ancora in due libri del periodo romantico.

Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia. Il mio ingegno è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io sdegnando ogni modello terreno la troverei nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animali generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le voci e co’ pensieri spirati dal cielo ad altissime imprese: tu raccendi ne’ nostri petti la sola virtù utile a’ mortali, la Pietà, per cui sorride talvolta il labbro dell’infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri, senza del quale tutto sarebbe caos e morte. Se tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata; gli animali, nemici fra loro; il Sole, foco malefico; e il Mondo, pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l’anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell’avvenire. (Ugo Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis)

Tutta la violenza di queste parole si abbatté sull’infelice. In preda alla disperazione si gettò ai piedi di Lotte, le afferrò le mani, se le premette sugli occhi, sulla fronte, un presagio del suo orrendo proposito traversò l’animo di lei. I suoi sensi si smarrirono strinse le mani di lui, se le premette al seno, con un moto di pietà si chinò su di lui, le loro guance ardenti si toccarono. 
Il mondo sparì. Egli l’abbracciò, se la strinse al petto, le coprì le trepide labbra balbettanti di baci furiosi… “Werher!” gridò lei con voce soffocata, divincolandosi “Werther!…” e con debole mano respinse il suo petto. “Werther!” gridò con l’autorità del più nobile sentimento…
Egli non si oppose, aprì le braccia  e insensato le cadde ai piedi: Ella si alzò, sconvolta e angosciata, tremante d’amore e di collera, e disse: “E’ l’ultima volta! Werther! Non mi vedrà mai più!…” (W.Goethe,I dolori del giovane Werther)

Per l’otto marzo: una trasmissione di Radio3 sulla prostituzione

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Michaela Thelenova, E55 – zur Situation der Sexarbeiterinnen, 1981, Veletržní palác, Praga

Nella trasmissione “Dialoghi. Per l’8 marzo: Il corpo delle donne” del 3 marzo si parla di prostituzione, intervengono le docenti Liliosa Azara, Silvia Giorcelli, Luciana Percovich, conduce Albero Guasco.

Il link permette di scaricare il file mpeg4 e di ascoltarlo con una app dal proprio computer o cellulare
Per l’8 marzo il corpo delle donne – Radio3

Le donne muoiono di Anna Banti

Dato che si accompagna al calo di consumi di farmaci Cialis da banco registrato cialis online consegna rapida Ultime estrazioni del Viagra, Livorno e Grosseto.

Le visionarie, Nero editions, collana Not

Antesignana del genere weird, Anna Banti  pubblica nel 1952 Le donne muoiono, che a buon diritto sarebbe degno di far parte de Le visionarie raccolta di racconti che uniscono  fantascienza e fantasy a femminismo.
Le donne muoiono è ambientato in un futuro lontano, nel 2617. A Valloria, città lacustre vicina alla rovine dell’antica Venezia, un giovane studente manifesta all’improvviso i segni di una strana malattia. Come un vecchio, ricorda cose di un tempo sconosciuto ai più. Nel giro di poco tempo il morbo, denominato seconda memoria, si propaga a tutti i giovani maschi. Tutti ricordano di vite passate, trascorse in tempi lontani. A due anni di distanza dall’inizio dell’epidemia ci si rende conto inequivocabilmente che le donne sono escluse dalla seconda memoria, che non è più una malattia, ma il segno dell’evoluzione naturale della specie umana e dell’immortalità del genere umano maschile. Gli uomini non muoiono e ricordano le loro precedenti vite, mentre le donne continuano ad essere condannate a vivere una vita sola.
Scopertisi immortali gli uomini perdono interesse alla conservazione della vita e cambiano il loro atteggiamento di fronte alla morte che è ormai una spiacevole formalità, che, col progredire degli studi, si sarebbe potuta completamente eliminare. Solo le donne di fronte ai moribondi non sanno “trattenere le lacrime”.
La differenza e distanza tra uomini e donne aumenta. Gli uomini si abituano presto alla nuova separazione, imputandola all’antico pregiudizio del “poco cervello delle donne” e fanno a meno di loro. Sempre più donne lasciano i loro mariti e fidanzati e si rifugiano in collegi e club di sole donne. Le poche donne che rimangono con gli uomini non hanno l’obbligo di mantenersi fedeli a uno solo di loro, piuttosto quello di mantenersi lontane dalle donne che hanno scelto di vivere in comunità isolate. Queste libere dai legami di famiglia, certe della loro morte, possono seguire la propria inclinazione naturale e dedicarsi alle arti, la poesia, la pittura, la musica, “avidamente innamorate del loro breve soggiorno terreno, facevan tesoro di ogni attimo, prolungandolo in echi tanto profondi quanto parsimoniosi”.
Una mattina d’estate del 2710, un’estate calda più dell’ordinario, una musicista trentenne, Agnese Grasti, mentre cerca di risolvere un passaggio della partitura musicale che sta scrivendo vive una strana esperienza. E’ sicura di avere conquistato la seconda memoria e di essere in grado di farne un uso migliore e più proficuo degli uomini. La sera fugge dall’istituto che la ospita e dopo una settimana trascorsa a riflettere in solitudine nella stanza di un avveniristico albergo della fine del terzo millennio ritorna dalle sue compagne e si suicida dopo aver consegnato a un’amica il diario “della sua straordinaria avventura”.
 Le donne muoiono fa parte della raccolta di racconti omonima pubblicata nel 1951. Della raccolta fanno parte tre altri racconti ambientati in epoche diverse, tutti con protagoniste femminili.
Conosco una famiglia ... , Il primo racconto della raccolta è ambientato all’inizio del Novecento in “un centro urbano piuttosto grosso”, che pretende di essere una città mondana e colta ma è in realtà provincialissima, falsa e rozza. Nel salotto “impennacchiato, ammuffito, sconnesso, fittissimo d’oggetti” della vecchia madre si tiene il rito della visita quotidiana di figlie, nuore, nipoti alla “povera mammà”, che da poco ha perso marito e un figlio. Sfilano giovinette e anziane, spose e vedove, zie e madri, ci si scambia dimostrazioni di affetto e interesse mentre si pensa all’eredità, nelle conversazioni si parla di figli, mariti, fratelli, generi, figure evanescenti come fantasmi; la narratrice osserva e registra con fredda e distaccata cattiveria i gesti trattenuti, le parole ipocrite, i pensieri nascosti delle donne, comparse grottesche, prigioniere inconsapevoli di un mondo in via di disfacimento.
I porci del 1946 è uno strano e misterioso racconto ambientato in Italia al tempo delle invasioni barbariche. Priscilla e il fratello Lucilio, dell’antica famiglia dei Valeri, sono in fuga da Roma dopo il saccheggio dei Vandali di Genserico. I due fratelli si dirigono verso nord alla ricerca della villa della nonna materna. Arrivati nella pianura piena di acqua e di nebbia i due profughi trovano una villa semidistrutta che credono l’antica casa di famiglia. Il rudere viene utilizzato dai “servi” del luogo come porcile. Priscilla sogna di ricostruire la villa. Una sera la donna riesce a trascinare il fratello a dormire tra le rovine. Nel pieno della notte un grande frastuono invade le stanze distrutte, dopo un primo momento di terrore, i due sono presi dall’ira e si rendono conto che sono i porci e i loro guardiani a provocare l’enorme rumore. Priscilla abbandona il suo progetto di ricostruzione e si rassegna a vivere nella capanna in cui si sono sistemati all’arrivo. Lucilio si mescola ai barbari, impara il mestiere di macellaio e dorme con la figlia di Arterico, il capo del luogo. Un giorno all’inizio della primavera arriva un vecchio vescovo di nome Eusebio, che passa in quei luoghi per compiere il suo ministero, si invaghisce della nobile donna romana e fa restaurare la villa. Nella casa ritornata al suo antico splendore Priscilla, attorniata dalle figlie di Arterico, amministra i riti di una religione cristiana e barbara insieme, “ma il baccano dei porci e dei porcari le arrivava sempre da dietro la parete a cui poggiava il suo letto”.
Lavinia fuggita è considerato uno dei capolavori dell’opera di Banti. La storia è ambientata a Venezia nell’orfanatrofio della Pietà agli inizi del 1700, al tempo in cui fu maestro del coro Antonio Vivaldi. Lavinia, Zanetta e Orsola sono tre orfane “figlie di coro”, che imparavano a suonare e cantare ed erano  famose in tutta Europa per la loro bravura.
Fin da piccola Lavinia è bravissima in tutti gli strumenti, ma la sua passione è scrivere musica; da qualche tempo di nascosto da tutti ha cominciato a cambiare le partiture del maestro Vivaldi, una volta ha riscritto interamente un oratorio del maestro approfittando della sua mancanza. Lavinia si è confidata con Orsola che è affascinata dall’amica e la sprona a parlare con Vivaldi.
Il racconto si apre con la partenza di Orsola dall’orfanatrofio, per andare sposa a un ricco mercante, e l’incontro tra il barcaiolo Iseppo, venuto a prendere Orsola, e Zanetta, scesa a salutare l’amica in partenza. Le due donne si ritrovano a Chioggia, Orsola moglie del mercante e Zanetta moglie di Iseppo divenuto fornaio. Non sono mogli come le altre e tutti i pomeriggi Zanetta va in visita a Orsola. Nel silenzio dei loro incontri riaffiorano i ricordi del passato, quando le due donne erano ragazze all’orfanatrofio. Così la storia di Lavinia fuggita viene raccontata come un ricordo, “un gran ricordo”.
Una volta l’anno, d’estate, le ragazze della Pietà passavano un giorno di vacanza all’aperto. Quell’anno la gita era stata alle Zattere il giorno dell’Ascensione. Nel pomeriggio di quel giorno Lavinia venne convocata dalla Priora alla presenza del Doge e del maestro Antonio Vivaldi. Zanetta e Orsola videro uscire dal padiglione Lavinia piangente con in mano il suo libro di musica, non seppero mai che cosa fosse successo durante quell’incontro. La sera alla Pietà Lavinia era scomparsa e di lei non si ebbero più notizie. Solo dopo che fu sparita Zanetta e Orsola ricordarono i discorsi degli ultimi giorni “Devo tornare laggiù, qui non c’è posto per me, e ho bisogno di spazio. Mi vestirò da uomo, farò il pastore, all’aperto, sotto il sole e la luna.” Dopo la sua scomparsa le due amiche non sopportarono più di rimanere alla Pietà, Orsola decise di maritarsi e Zanetta la seguì, insieme hanno conservato il quaderno di tela rossa e gialla delle musiche di Lavinia.
Banti ricorda nel suo ultimo libro Un grido lacerante Lavinia insieme ad Agnese di Le donne muoiono come donne “dell’eccezione contro la norma del conformismo”, inventate per reclamare “la parità della mente e la libertà del lavoro”.

Anna Banti (1895-1985), pseudonimo di Lucia Lopresti, è una scrittrice italiana del Novecento.
Banti frequenta a Roma il liceo classico e si laurea in storia dell’arte. Inizia a scrivere saggi di critica d’arte. Nel 1924 ha sposato Roberto Longhi, suo ex professore di liceo di arte e storico dell’arte. Nel 1929 per allontanarsi dall’attività del marito decide di abbandonare la critica d’arte e comincia a scrivere racconti e romanzi. Tra le sue opere più note il romanzo Artemisia ricostruzione della vita della pittrice Artemisia Gentileschi e Noi credevamo, romanzo in prima persona del Risorgimento di Domenico Lopresti, nonno della scrittrice, da cui è stato tratto il film omonimo di Mario Martone. Di Anna Banti è stato da poco pubblicato Racconti ritrovati.

Il racconto

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Caratteri del racconto

Narrare è un’attività dell’uomo in quanto animale parlante. La narrazione che riguarda fatti inventati e non ha uno scopo immediato è una forma di arte. Questa narrazione assume forme diverse, una di queste forme è il racconto. Generalmente è chiamato racconto un testo narrativo breve, in inglese si usa l’espressione short story. Un racconto deve essere coerente e compiuto. Ciascuna parte del racconto deve essere in relazione con le altre, ovvero la sua presenza nel racconto non deve essere casuale, e il racconto deve avere un inizio e una fine. Un racconto deve essere come un organismo vivente, unito e compiuto. Queste caratteristiche valgono anche per gli altri testi narrativi come le favole, i poemi epici, i romanzi.

Fabula e intreccio

In un racconto deve accadere qualcosa, ci deve essere un cambiamento della situazione iniziale. Ogni racconto ha una trama ovvero una serie di avvenimenti disposti in senso temporale. Per definire con più precisione la trama si usa il termine fabula, in inglese story, quando la narrazione segue scrupolosamente l’ordine cronologico degli avvenimenti. Si usa il termine intreccio, in inglese plot, quando la narrazione non segue scrupolosamente l’ordine cronologico degli avvenimenti. Per esempio nel racconto Il colombre di Dino Buzzati la trama segue la fabula e gli eventi sono narrati in ordine cronologico, dall’infanzia alla vecchiaia di Stefano Roi, il protagonista del racconto. Invece il racconto L’Anima di Elsa Morante ha inizio con una brevissima frase che anticipa il contenuto del racconto “Un vecchio signore aveva stretto amicizia con un’Anima.” questa brevissima frase trasforma la fabula in intreccio.

Esordio – intrigo, peripezie e Spannung – conclusione

La trama nella sua forma semplice prevede un esordio, l’avvenimento o l’insieme di avvenimenti che mettono in moto la trama, una parte centrale, detta intrigo e peripezie, in cui avvengono i fatti che conducono a un cambiamento, di solito alla fine di questa parte si trova il punto culminante del racconto detta in tedesco Spannung, dopo la quale la trama giunge alla conclusione. Per esempio nel racconto Il colombre di Dino Buzzati l’esordio racconta la prima uscita in mare di Stefano, l’intrigo e le peripezie raccontano la vita di Stefano dopo la decisione del padre di allontanarlo dal mare e il suo ritorno dopo la morte del padre, la Spannung si ha quando Stefano ormai vecchio decide di andare incontro al colombre, l’incontro di Stefano con il colombre conclude il racconto. Il racconto L’Anima di Elsa Morante ha inizio con il primo incontro del vecchio signore con l’Anima, prosegue con le avventure del vecchio signore e dell’Anima, la Spannung è quando il vecchio signore incontra per un’ultima volta l’Anima che gli dice che sta per morire, la conclusione quando l’Anima ormai imprigionata nel corpo di un cane si avvicina al vecchio chiedendogli aiuto.

Sequenze

Un racconto è composto da più sequenze, singole parti coerenti di narrazione. Di solito le sequenze sono delimitate da punti a capo, rientri del capoverso, spazi bianchi.

Arte e vita

Come tutte le forme artistiche il racconto ha un rapporto particolare con la nostra esperienza di vita, Pablo Picasso affermava che “l’arte è una bugia che insegna a vedere la verità”, può essere interessante riflettere su questa affermazione del grande artista.

Pasolini: credere non credere

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Frammento finale dell’intervista di Gideon Bachmann a Pier Paolo Pasolini per Sight and Sound nel 1975, l’intervista completa è nel film di Giuseppe Bertolucci Pasolini Prossimo Nostro

Il Principe di Machiavelli – Pantheon del 12 gennaio 2013 con Gennaro Sasso

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Niccolò Machiavelli, Palazzo della Signoria, Firenze

Il Principe – Pantheon del 12 gennaio 2013 con Gennaro Sasso

“Alla fine mi sono convinto di una cosa, è possibile che quest’autore non sia mai stato veramente letto nelle cose essenziali (…) esiste una sinfonicità del pensiero di Machiavelli che comprende almeno tre opere, i Discorsi, il Principe che ne nasce e le Storie fiorentine … è possibile che non abbiamo capito che per Machiavelli l’Italia non esisteva, non riusciva ad esistere, che bisognava fondarla effettivamente in modo profondo e che per fondarla in modo profondo bisognava realizzare una serie di riforme etico – politiche, diciamo in senso lato, in cui il problema fondamentale fosse il rapporto con la Chiesa, e Machiavelli dice se noi trasportassimo la sede romana della Chiesa nella incorrotta Svizzera in capo a due generazioni la Svizzera sarebbe corrotta come noi, in questo senso Machiavelli è veramente un autore rivoluzionario, che è stato messo tra parentesi, che è stato allontanato, perché io sono convinto che anche i più grandi estimatori di Machiavelli, e li abbiamo avuti lei li ha citati, ma nel dettaglio hanno mai veramente detto che Machiavelli non è un autore cristiano, mi sono reso conto tardi di questa cosa, me ne sono reso conto tardi, non certo nel 58, perché, ma perché c’era un condizionamento a tenere in sordina questo tema ed è per questo che non è un autore della letteratura italiana e chi si è avvicinato a Machiavelli anche laicamente ha messo la sordina su questo punto” (Gennaro Sasso minuti 27-29 della puntata)

Franco Fortini legge Alla luna di Giacomo Leopardi

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in Fahrenheit – 100 anni di Fortini – ore 15:00 del 09/05/2017

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!