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Leggere al liceo

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Per avere successo al liceo è importante imparare a leggere in modo efficace

Il primo passo: la comprensione

Comprensione: le parole
Per prima cosa bisogna comprendere le parole utilizzate nel testo che stiamo leggendo. Quando incontriamo una parola  che non conosciamo, possiamo cercare il suo significato sul vocabolario oppure possiamo cercare di comprendere il suo significato da quello che dice il testo.

Comprensione: contenuto
Mentre leggiamo costruiamo un’immagine mentale di quello che le singole parole da sole e insieme significano, in questo modo la mente comprende quello che sta leggendo: il racconto di un evento, la descrizione di un paesaggio o di un personaggio, un dialogo, etc..

Il secondo passo: l’analisi

Dobbiamo imparare ad analizzare i modi utilizzati dagli scrittori per scrivere il testo, ovvero la forma del testo: che tipo di testo stiamo leggendo?  chi racconta la storia? come sono descritti i personaggi? quale stile utilizza l’autore? etc..

Il terzo passo: l’interpretazione

Infine quello che leggiamo entra in relazione con noi e provoca delle reazioni,  ovvero  pensiamo e proviamo qualcosa su quello che stiamo leggendo. Ovviamente ogni lettore proverà e penserà qualcosa di personale e diverso da un altro lettore, è proprio questa propria  personale interpretazione il dono più prezioso e utile della lettura.

Spesso al liceo l’insegnante propone agli studenti esercizi di comprensione, analisi e interpretazione del testo letto.

Esercizio n.1 : leggi il brano e rispondi alle domande

da I promessi sposi: la fine del capitolo II

Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzio che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: – lo sposo! lo sposo!
Zitta, Bettina, zitta! – disse Renzo. – Vien qua; va’ su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio… ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve’… dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito -. La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d’avere una commission segreta da eseguire.
Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turba- mento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio.
Vo un momento, e torno, – disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, – cosa c’è? – disse, non senza un presentimento di terrore.
Lucia! – rispose Renzo, – per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie.
Che? – disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, – ah! – esclamò, arrossendo e tremando, – fino a questo segno!
Dunque voi sapevate…? – disse Renzo.
Pur troppo! – rispose Lucia; – ma a questo segno!
Che cosa sapevate?
Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli.
Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: – non m’avete mai detto niente.
Ah, Renzo! – rispose Lucia, rivolgendosi un mo- mento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?
Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate, e, accomodando l’aspetto e la voce, come poté meglio, disse: – il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla -. Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo.
Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l’accaduto. Due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero.
Un febbrone, – rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata all’altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne’ loro cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne’ loro discorsi.

Comprensione: le parole

1. Riscrivi con parole tue l’espressione “e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto”, cambia le parole “mostrare a quel mercato” e  “con quella nuova”.
2. Che cosa significa “fino a questo segno”?

Comprensione: i contenuti

1. Spiega l’espressione “Dominato da questi pensieri”
2. Perché Renzo vuole vedere Lucia da solo?

Analisi: la forma

1. Chi è il narratore?
2. In che modo sono espressi pensieri e sentimenti dei personaggi?

Interpretazione

In questo brano Renzo e Lucia vivono sentimenti molto intensi, descrivi lo stato d’animo di Lucia o di Renzo, la tua descrizione deve tenere in considerazione i passaggi del testo dai quali si possono desumere sentimenti e stati d’animo e citare questi passaggi.

 

Esercizio n.2 : leggi il racconto e rispondi alle domande

BINARIO 17

Prendo il treno alle 7:55 per Roma è un Eurostar. Ho tutto pronto e devo solo seguire il flusso degli eventi.
Sono stanco stasera e non ho voglia di leggere. Spengo la luce e poi il cellulare. Dormo sì dormo, scivolo in un sonno calmo e intero.
Rivedo per un istante i frammenti di un volto, il suo volto.
Mi appare diverso da quello che ho conosciuto anni fa, due tre, quanto basta per metamorfizzarci insieme.
Io e lei.
Lei, perché è chiaro che lì in fondo al treno, ferma per me c’è lei.
Che mi aspetta, mi chiama, mi ricorda, mi insegue, mi vuole.
Dormo, sì dormo nel buio sento il mio corpo freddo e immobile sul letto duro.
Sono lontano da casa dai miei da tutto.

La sveglia suona alle sette, mi alzo, mi vesto, faccio colazione e scendo piano le scale.
La porta d’ingresso scatta metallica e spezza il silenzio del palazzo.
Cammino veloce verso la stazione, evito una merda di cane sul marciapiede sporco e sconnesso lungo la strada, non c’è praticamente nessuno in giro. Il flusso degli eventi è lì che mi aspetta, lo sento lo so lo voglio.
Il viaggio in treno è silenzioso. Poca gente insonnolita è lunedì, l’ultimo di agosto.
Arrivo puntuale.
Stazione Termini è squallida sporca come tutte le stazioni. Alla fine del binario di arrivo vicino allo stand dell’edicolante c’è lei.
Non mi piace, mi era sembrata diversa sulla foto di Facebook. Ha i capelli raccolti, tirati sulla fronte grande e leggermente bombata. Gli occhi, gli occhi sono rimasti uguali, scuri, freddi ma intensi, chiusi nelle ciglia lunghe e truccate.
Le guardo la bocca è piccola ma carnosa e scura come la pelle abbronzata.
“Ti sei fatto crescere la barba. Stai bene”
“Anche tu” le rispondo.

Ci stiamo allontanando dal binario, attraversiamo l’atrio. Alle macchinette prendo una Fanta e lei intanto i biglietti della metro.
“Raggiungiamo gli altri ad Ostiense e poi si vede che fare”.
“Va bene” le rispondo.
La metro è affollata, ci mettiamo in fondo al vagone e parliamo di scuola vacanze fratelli sorelle.
Ha dei begli orecchini pendenti e una maglietta stretta e corta, arancio senza scritte né marchi. La guardo e anche lei mi guarda.
Siamo arrivati, usciamo e saliamo fuori. Gli altri non ci sono ancora, dobbiamo aspettarli per poco.

Il cielo di Roma è giallo, offuscato, fa caldo e lo zaino sulle spalle mi fa sudare. Ci appoggiamo alla ringhiera ad aspettare, passa gente frettolosa, uomini e donne, adulti che già riprendono il loro lavoro.
Lei mi racconta del mare e di una festa a cui è stata poche sere fa, tornando presto a mezzanotte, con le amiche.

Arrivano gli altri, mi presenta, saluto, mi sento imbarazzato non so cosa dire, ma lei gli altri sembra che non se ne accorgono.
Ci allontaniamo e qualcuno decide di andare a mangiare. Poi nel parco di una villa di cui non ricordo più il nome.
Il pomeriggio trascorre lento, giochiamo a pallone, noi ragazzi sudiamo e gridiamo. Lei sta seduta sulla panchina con le altre sue amiche, da lontano sembra che parlano e ridono, ascoltando la musica.
La dimentico per un po’ nelle urla del pallone.

Alla fine quando smettiamo di giocare le raggiungiamo sulla panchina. Lei fa qualche apprezzamento sul gioco e poi mi chiede a che ora parto.

Ho il treno alle 19:55 e sono quasi trascorse dodici ore, cinque con lei, di flusso degli eventi. Saluto gli altri e solo lei mi accompagna in stazione. Facciamo a piedi la strada per la metro, il marciapiede è pieno delle foglie degli alberi enormi che costeggiano il lungofiume, lei strascina i piedi e una le si infila nel sandalo. Ha le dita dei piedi lunghe, affusolate, le unghie smaltate di verde chiaro, luccicano tra le foglie per terra. E’ quasi sera e avverto la dolcezza dell’aria.
Treni in partenza: 19:55 Eurostar per Milano binario 17. Salgo sul treno e la saluto dietro il finestrino chiuso nel flusso degli eventi.

Comprensione: le parole

1. Riscrivi con parole tue l’espressione “scivolo in un sonno calmo e intero”, cambia tutte le parole tranne “sonno”.
2. Cosa significa “metamorfizzarci”?

Comprensione: i contenuti

1.Il racconto si svolge in un tempo preciso. Quale?
2.Quali sono gli altri riferimenti temporali presenti nel racconto, quali informazioni danno  sui due personaggi ?

Analisi: la forma

1. Chi è il narratore?
2. Il racconto è scritto in uno stile colloquiale. Trova due espressioni che dimostrino questa affermazione.

Interpretazione

1. Quali sentimenti prova il protagonista del racconto? In quali frasi e o parole li trovi?
2. Racconta l’esperienza di un tuo incontro  utilizzando il racconto come modello di scrittura.

 

Gli orecchini di Eugenio Montale

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Odilon Redon, Head of a young woman, 1895, collezione privata

Non serba ombra di voli il nerofumo
della spera. (E del tuo non è più traccia.)
È passata la spugna che i barlumi
indifesi dal cerchio d’oro scaccia. 4
Le tue pietre, i coralli, il forte imperio
che ti rapisce vi cercavo; fuggo
l’iddia che non s’incarna, i desiderî
porto fin che al tuo lampo non si struggono. 8
Ronzano élitre fuori, ronza il folle
mortorio e sa che due vite non contano.
Nella cornice tornano le molli 11
meduse della sera. La tua impronta
verrà di giù: dove ai tuoi lobi squallide
mani, travolte, fermano i coralli. 14

Sonetto elisabettiano: tre quartine e un distico finale, i versi 8, 10 e 13 hanno rime ipermetre (fuggo -struggono, contano-impronta, squallide-coralli).
Gli orecchini viene pubblicata nel 1940 sulla rivista Prospettive e poi in Finisterre a Lugano nel 1943. Di questo sonetto ha dato una famosa lettura il critico D’Arco Silvio Avalle in un saggio Gli orecchini di Montale del 1965. Avalle utilizzando le tecniche della critica strutturalista divide il sonetto in nove parti, divise in due coppie di quattro parti ciascuna disposte a chiasmo, più una parte centrale. La prima coppia corrisponde a: “Non serba ombra di voli il nerofumo” verso 1 (A) , “dal cerchio d’oro scaccia.” verso 4 (B), “Nella cornice tornano”  verso 11 (B), “meduse della sera” verso 12 (A).  In questa prima coppia troviamo nei versi esterni (A) il tempo in cui si colloca l’evento della poesia:  “Non serba ombra di voli il nerofumo“meduse della sera;  nei versi interni (B) lo spazio  dell’evento della poesia: dal cerchio d’oro scaccia.”  “Nella cornice tornano” .  La seconda coppia “Le tue pietre, i coralli”  verso 5 (A),  “vi cercavo”  verso 6 (B),  “ verrà di giù:”  verso 13 (B), “ mani, travolte, fermano i coralli” verso 14 (A). In questa coppia troviamo nei versi esterni (A) gli oggetti della poesia: “Le tue pietre, i coralli” e “mani, travolte, fermano i coralli” ; nei versi interni (B) le azioni che generano l’evento poetico “vi cercavo” e “ verrà di giù:” Al centro, dalla fine del verso sei al verso dieci, il nucleo misterioso della poesia individuato nel tema dell’amore “i desideri porto fin che al tuo lampo non si struggono” e della distruzione e morte “ronza il folle mortorio e sa che due vite non contano.”  Concludendo il critico si chiede “se le due vite non contino veramente nulla, oppure (ultima ipotesi) se di fronte all’Emergenza (quella della guerra e l’”altra”) non ci sia ancora luogo per una protesta solenne.” (D.S.Avalle, Gli orecchini di Montale, in A.Marchese, L’analisi letteraria, pp.291-294).

Un sonetto d’amore per una donna che non c’è e non ci sarà più?  La donna evocata nella poesia è Irma Brandeis, la studiosa americana che Montale conobbe a Firenze nel 1933 e con cui ebbe una relazione amorosa durata fino a quando nel 1939 la donna dovette tornare negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziste del regime fascista. Irma era ebrea.  il poeta non la rivide più. Montale ha descritto le poesie di Finisterre come le poesie “che rappresentano la mia esperienza, diciamo così petrarchesca”.

Comprensione
La mia mente non conserva le immagini che ha ricevuto (E della tua non c’è più traccia). Come cancellati da una spugna i deboli segni di un’esistenza sono scomparsi dalla mia memoria. Cercavo di ricordare i tuoi orecchini di corallo e il tuo amore. A te, che sei la mia divinità incarnata, porto i miei desideri finché al tuo ardore non si consumano. Fuori il rumore, come di ali di insetti, della folle guerra indifferente alle nostre due vite. Nella mente tornano i tristi pensieri della sera, come molli  meduse velenose. Si imprime in me un’immagine di morte: vedo gli orecchini di corallo e squallide mani di morti che li fissano ai tuoi lobi.

Il diario di Anne Frank

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Esplora il link e rispondi alle domande: link: annefrank.org

1. Quando la famiglia Frank cominciò a vivere nascosta
2. Dove si nascose
3. Quanti anni aveva Anne quando il padre decise di nascondere la famiglia
4. Come si chiamava il diario di Anne
5. Quando, da chi e perché venne pubblicato il diario
6. Nella casa nascondiglio di Anne c’era una sola finestra non oscurata, quale?

Signs out of time

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Signs out of time è un documentario che ripercorre la vita e le scoperte dell’archeologa lituana Marija Gimbutas. Nata a Vilnius nel 1921, Gimbutas ha studiato archeologia, folclore e linguistica. Gli scavi da lei condotti hanno confermato l’esistenza di antiche civiltà neolitiche nell’area sud -est dell’Europa lungo le rive del Danubio da lei chiamata Antica Europa. Queste civiltà hanno dato vita a grandi villaggi in cui vivevano gruppi umani che praticavano l’agricoltura, l’allevamento, la tessitura e la ceramica. Avevano una struttura sociale egualitaria, erano pacifiche e veneravano una divinità femminile, che presiedeva alla vita, alla morte e alla rigenerazione della natura e degli umani.   Gimbutas descrive queste civiltà come “una gilania (il termine è composto dalle due radici greche gy, da gyné “donna” e an, da anèr “uomo” e dalla lettera “L” in mezzo a loro come legame tra le due metà dell’umanità) un sistema sociale equilibrato, né patriarcale né matriarcale” ( Marja Gimbutas, Il linguaggio della dea, p.XX) . Queste civiltà ebbero fine tra il quarto e il terzo millennio a.C. in seguito allo spostamento verso occidente di popoli di lingua indoeuropea provenienti dal bacino del Volga. Questi popoli trasformarono la civiltà dell’Europa Antica da gilanica in androcratica, da matrilineare in patrilineare.  La cultura delle antiche civiltà pre-indoeuropee sopravvisse più a lungo in alcune aree del Mediterraneo, come Thera, Creta, Malta e Sardegna, in numerose altre aree divenne una cultura sotterranea, segreta, misteriosa, in alcuni periodi della storia europea si cercò di estirparla definitivamente con violente persecuzioni.

Fonte: Marja Gimbutas, Il linguaggio della dea, 2008, Venexia.

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Parafrasi A sé stesso di Leopardi

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E.Munch, Notte d’estate, 1889

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento. 5
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. 10
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera, 15
E l’infinita vanità del tutto.

Mio stanco cuore ora non batterai più. L’amore,  che pensavo eterno, è morto. Finito. E sento che in me non solo non c’è più speranza ma neppure desiderio.
Fermati per sempre. Hai sofferto abbastanza. Nessuna cosa sulla terra è degna di essere amata. La vita è solo amarezza e noia, il mondo è  privo di senso.
A questo punto rassegnati. Disperati per l’ultima volta. Non ci è stato dato nient’altro all’infuori della morte. Disprezza te stesso, l’esistenza dominata dal male e l’insensatezza  di tutte le cose.

LA MODERNITA’ DI A SE’ STESSO

A sé stesso è il testo più moderno di Leopardi. In che cosa sta la modernità di questa poesia?
La modernità di A sé stesso consiste nella rappresentazione della disperazione di un io in cui il desiderio si è spento. La disperazione di A sé stesso per la “fine del desiderio” non ci scandalizza, né ci è incomprensibile, come invece era incomprensibile e scandalizzava gli uomini dell’Ottocento e del Novecento.
Per lungo tempo il pensiero occidentale, sia filosofico sia religioso, ha avuto come obiettivo la “fine del desiderio”, ovvero il controllo e la repressione del desiderio.
La creazione di un sistema di controllo del desiderio è fondamentale in qualsiasi società. Il sistema più semplice è quello della repressione autoritaria, più complesso ed elitario è quello ideato dalla filosofia greca, ma anche da altre filosofie non occidentali, del controllo consapevole del desiderio (morale stoica, epicurea, pratiche yoga e buddhiste); nella religione cristiana, ma anche in altre religioni, il controllo viene raggiunto attraverso la sostituzione del desiderio con la speranza. In tutte queste soluzioni il desiderio viene svalutato, secondo modalità e con intensità diverse.
Al contrario Leopardi riconosce la naturalità e necessità del desiderio, propone, al posto della svalutazione del desiderio, il desiderio di “cari inganni”, chiamati nell’operetta morale Dialogo di Tristano e di un amico “inganni dell’immaginazione”, come valore per l’individuo e per la società, afferma il dolore e l’infelicità che la fine del desiderio comporta, infelicità ineliminabile in ogni società. Freud nel saggio Il disagio della civiltà afferma “L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza” (S.Freud, Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, p.250).

La nostra società ha fatto proprio il riconoscimento della naturalità e necessità del desiderio, la non svalutazione dello stesso e il riconoscimento del prezzo di sofferenza che la repressione del desiderio comporta, ma ha adottato soluzioni sensibilmente diverse rispetto alla valorizzazione del desiderio dei “cari inganni” proposta da Leopardi. L’infelicità, che la repressione e il controllo del desiderio producono nella nostra società, sono “risolti” con la creazione di desideri artificiali, basata su un apparente processo contrario alla svalutazione del desiderio, desideri funzionali al mantenimento della società stessa, ovvero prospettando una felicità illusoria, che Leopardi chiamerebbe “un inganno dell’intelletto”. A questo riguardo in una delle sue ultime interviste Pier Paolo Pasolini affermava di odiare il potere del suo tempo perché lo considerava “un potere che manipola i corpi in un modo orribile, (…) li manipola trasformando la loro coscienza, nel peggiore dei modi, stabilendo nuovi valori che sono alienanti e falsi” ( in Pasolini prossimo nostro, film – intervista di Bernardo Bertolucci).

In A sé stesso la fine del desiderio genera disperazione, rabbia, odio. Il poeta si rivolge al proprio cuore, è questa la metafora che il poeta utilizza per rappresentare il “sé stesso” del titolo (tutti i testi letterari scritti in prima persona fanno credere al lettore che l’autore stia parlando di sé, in realtà l’autore parla di sé come di un personaggio letterario). Per due volte nel componimento (v.6 e v.11 ) il poeta, usando l’imperativo, si rivolge a esso ordinandogli di smettere di soffrire; il poeta vuole che il suo cuore non provi più nulla, ha smesso di desiderare, “il desiderio è spento”, che smetta anche di soffrire. Nel verso 11 con un secondo imperativo il poeta intima al cuore di disperare per l’ultima volta, infine nel verso 13 gli rivolge l’ordine di disprezzare sé stesso, l’esistenza, la sofferenza che tutti subiscono e il nulla che pervade tutto. La richiesta del poeta di smettere di soffrire non può essere soddisfatta, dolore e sofferenza si trasformano in disperazione, frustrazione, rabbia contro sé stessi e il mondo. Le cose non hanno senso in sé “l’infinita vanità del tutto”, il loro senso dipende da noi, se non siamo in grado o non siamo più in grado di dare un senso alle cose, ci rimane solo la disperazione e la rabbia “fango è il mondo” “disprezza te” .
In questo componimento Leopardi rappresenta l’altro volto del desiderio di piacere infinito che muove gli esseri viventi, quello della disperazione più totale e profonda, se “il desiderio è spento”, rimane la disperazione, che è sempre un’ultima disperazione “dispera l’ultima volta”. Catullo, un antico poeta latino aveva condensato un contenuto simile in una brevissima poesia “Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris. Nescio sed fieri sentio et excrucior” (Odio e amo. Perché lo faccia forse mi chiederai. Non lo so ma sento che accade e soffro).

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (rev.0)

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Blumen Mythos, Paul Klee, 1918

What we talk about when we talk about Love, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è il titolo della omonima raccolta di racconti scritti da Raymond Carver
english.wikipedia.org/Raymond_Carver.

La più antica poesia d’amore è scritta da una donna

Pari agli dei mi sembra
quell’uomo: che siede di fronte a te
e ti ascolta mentre dolcemente parli e ridi

A me il cuore batte forte e ho paura.
Ti vedo e non ho più voce

la lingua mi si spezza; un brivido sottile
corre nel corpo, gli occhi  si oscurano
gli orecchi rimbombano

Sudo, tremo
Divento più verde dell’erba e sento
la morte vicina

(Saffo frammento  in Liriche e frammenti, Giulio Einaudi Editori, 1965)

A Roma quando un uomo  comincia a scrivere d’amore si ricorda dell’antica poesia della donna greca; la poetessa è Saffo e il poeta Catullo. Per chi non li conoscesse: la prima nata a Lesbo, isola dell’Egeo, nel VII secolo a.C., autrice di alcuni dei più noti frammenti della lirica greca, il secondo di Verona vissuto nel I secolo a.C., al tempo di Cesare e Cicerone. Quando a Roma per essere veri uomini , non bisognava occuparsi di amore e di donne, Catullo scrive un libro in cui molte poesie, quelle che avranno più notorietà tra i posteri, sono poesie d’amore; qualche tempo fa c’era una Tshirt con su scritto

Odi et amo, quare id faciam fortasse requiris
nescio sed fieri sentio et excrucior
(Catullo, Liber, 85)

Odio e amo perché lo faccio forse mi chiederai
non lo so ma sento che avviene e sto in croce

In mezzo c’era stato Platone

“Impara bene, Socrate” disse ” se vuoi riflettere un momento anche sull’ambizione degli uomini: potresti restar scosso dall’irragionevolezza della cosa, se non tieni a mente ciò che ho detto, e metti a fuoco l’incredibile attrazione umana per l’eros di divenire famosi e di lasciare eredità di gloria eterna (…). Pensi davvero che Alcesti sarebbe morta al posto di Admeto, Achille per Patroclo, (…), se non si fossero convinti che la loro memoria di eroi sarebbe stata immortale? E noi infatti li ricordiamo. Penso che tutti facciano di tutto per questa immortalità, infatti sono innamorati dell’immortalità. C’è gente fisicamente feconda. Questi cercano la donna, anzitutto, verso di lei portano il loro eros. Con il fare figli si assicurano immortalità, felicità, memoria. Ma c’è anche chi nell’anima … sì c’è chi diviene gravido nell’anima, più che nel corpo. Gravido sì, della cosa di cui è naturale che si ingravidi l’anima per poi partorirla. Che cos’è questa cosa? Il pensiero e tutte le altre virtù. (…) Capita che un ragazzo resti incinto di queste cose. Poi crescendo sente il desiderio di dare vita, di creare. Allora si guarda intorno e cerca il bello nel quale creare, non creerà mai nel brutto. E’ fecondo, perciò s’abbraccia ai corpi belli, non certo a i brutti. Se incontra un’anima bella, pura, nobile, s’abbraccia a quest’anima e al corpo di questa, e con lui discorre della virtù che un uomo deve avere e comincia a educarsi. Diciamo che si unisce al “suo bello”. E facendo l’amore con lui crea e poi partorisce ciò di cui era incinto da tanto tempo. Il risultato è che tra i due si stabilisce un unione più forte che se avessero insieme dei veri figli: perché hanno il legame di creature più belle e immortali. Chiunque preferirebbe per sé la nascita di tale figli piuttosto che quella di figli di carne. (…) Eh sì, quando uno partendo, dalle cose concrete di quaggiù, attraverso un giusto eros per i giovani, elevandosi, comincia a scorgere quel bello, potrebbe già quasi sfiorare la perfezione. Questo significa puntare, con buon metodo, alle cose dell’eros, o esservi guidati da altri: cominciare da queste bellezze particolari, concrete, e mirando al bello, elevarsi, come per una scala di gradini, prima da un corpo a due corpi, poi da due a tutti i corpi belli; e dai corpi belli alle azioni umane belle; e dalle azioni belle alle varie scienze belle; e dalle belle scienze finire a quel famoso sapere, che altro non è se non scienza di quell’assoluto bello.”  (Platone, Simposio, pp.115-117, 121-122, Oscar Mondadori, 1987)

L’amore di Saffo e Catullo e quello di Platone hanno dato alla cultura occidentale i due principali, anche se non unici, modelli di amore: l’amore come passione incomprensibile e distruttiva, l’amore come processo di elevazione e miglioramento di sé.
Questi modelli li troviamo ancora in due libri del periodo romantico.

Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia. Il mio ingegno è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io sdegnando ogni modello terreno la troverei nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animali generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le voci e co’ pensieri spirati dal cielo ad altissime imprese: tu raccendi ne’ nostri petti la sola virtù utile a’ mortali, la Pietà, per cui sorride talvolta il labbro dell’infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri, senza del quale tutto sarebbe caos e morte. Se tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata; gli animali, nemici fra loro; il Sole, foco malefico; e il Mondo, pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l’anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell’avvenire. (Ugo Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis)

Tutta la violenza di queste parole si abbatté sull’infelice. In preda alla disperazione si gettò ai piedi di Lotte, le afferrò le mani, se le premette sugli occhi, sulla fronte, un presagio del suo orrendo proposito traversò l’animo di lei. I suoi sensi si smarrirono strinse le mani di lui, se le premette al seno, con un moto di pietà si chinò su di lui, le loro guance ardenti si toccarono. 
Il mondo sparì. Egli l’abbracciò, se la strinse al petto, le coprì le trepide labbra balbettanti di baci furiosi… “Werher!” gridò lei con voce soffocata, divincolandosi “Werther!…” e con debole mano respinse il suo petto. “Werther!” gridò con l’autorità del più nobile sentimento…
Egli non si oppose, aprì le braccia  e insensato le cadde ai piedi: Ella si alzò, sconvolta e angosciata, tremante d’amore e di collera, e disse: “E’ l’ultima volta! Werther! Non mi vedrà mai più!…” (W.Goethe,I dolori del giovane Werther)

Le donne muoiono di Anna Banti

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Le visionarie, Nero editions, collana Not

Antesignana del genere weird, Anna Banti  pubblica nel 1952 Le donne muoiono, che a buon diritto sarebbe degno di far parte de Le visionarie raccolta di racconti che uniscono  fantascienza e fantasy a femminismo.
Le donne muoiono è ambientato in un futuro lontano, nel 2617. A Valloria, città lacustre vicina alla rovine dell’antica Venezia, un giovane studente manifesta all’improvviso i segni di una strana malattia. Come un vecchio, ricorda cose di un tempo sconosciuto ai più. Nel giro di poco tempo il morbo, denominato seconda memoria, si propaga a tutti i giovani maschi. Tutti ricordano di vite passate, trascorse in tempi lontani. A due anni di distanza dall’inizio dell’epidemia ci si rende conto inequivocabilmente che le donne sono escluse dalla seconda memoria, che non è più una malattia, ma il segno dell’evoluzione naturale della specie umana e dell’immortalità del genere umano maschile. Gli uomini non muoiono e ricordano le loro precedenti vite, mentre le donne continuano ad essere condannate a vivere una vita sola.
Scopertisi immortali gli uomini perdono interesse alla conservazione della vita e cambiano il loro atteggiamento di fronte alla morte che è ormai una spiacevole formalità, che, col progredire degli studi, si sarebbe potuta completamente eliminare. Solo le donne di fronte ai moribondi non sanno “trattenere le lacrime”.
La differenza e distanza tra uomini e donne aumenta. Gli uomini si abituano presto alla nuova separazione, imputandola all’antico pregiudizio del “poco cervello delle donne” e fanno a meno di loro. Sempre più donne lasciano i loro mariti e fidanzati e si rifugiano in collegi e club di sole donne. Le poche donne che rimangono con gli uomini non hanno l’obbligo di mantenersi fedeli a uno solo di loro, piuttosto quello di mantenersi lontane dalle donne che hanno scelto di vivere in comunità isolate. Queste libere dai legami di famiglia, certe della loro morte, possono seguire la propria inclinazione naturale e dedicarsi alle arti, la poesia, la pittura, la musica, “avidamente innamorate del loro breve soggiorno terreno, facevan tesoro di ogni attimo, prolungandolo in echi tanto profondi quanto parsimoniosi”.
Una mattina d’estate del 2710, un’estate calda più dell’ordinario, una musicista trentenne, Agnese Grasti, mentre cerca di risolvere un passaggio della partitura musicale che sta scrivendo vive una strana esperienza. E’ sicura di avere conquistato la seconda memoria e di essere in grado di farne un uso migliore e più proficuo degli uomini. La sera fugge dall’istituto che la ospita e dopo una settimana trascorsa a riflettere in solitudine nella stanza di un avveniristico albergo della fine del terzo millennio ritorna dalle sue compagne e si suicida dopo aver consegnato a un’amica il diario “della sua straordinaria avventura”.
 Le donne muoiono fa parte della raccolta di racconti omonima pubblicata nel 1951. Della raccolta fanno parte tre altri racconti ambientati in epoche diverse, tutti con protagoniste femminili.
Conosco una famiglia ... , Il primo racconto della raccolta è ambientato all’inizio del Novecento in “un centro urbano piuttosto grosso”, che pretende di essere una città mondana e colta ma è in realtà provincialissima, falsa e rozza. Nel salotto “impennacchiato, ammuffito, sconnesso, fittissimo d’oggetti” della vecchia madre si tiene il rito della visita quotidiana di figlie, nuore, nipoti alla “povera mammà”, che da poco ha perso marito e un figlio. Sfilano giovinette e anziane, spose e vedove, zie e madri, ci si scambia dimostrazioni di affetto e interesse mentre si pensa all’eredità, nelle conversazioni si parla di figli, mariti, fratelli, generi, figure evanescenti come fantasmi; la narratrice osserva e registra con fredda e distaccata cattiveria i gesti trattenuti, le parole ipocrite, i pensieri nascosti delle donne, comparse grottesche, prigioniere inconsapevoli di un mondo in via di disfacimento.
I porci del 1946 è uno strano e misterioso racconto ambientato in Italia al tempo delle invasioni barbariche. Priscilla e il fratello Lucilio, dell’antica famiglia dei Valeri, sono in fuga da Roma dopo il saccheggio dei Vandali di Genserico. I due fratelli si dirigono verso nord alla ricerca della villa della nonna materna. Arrivati nella pianura piena di acqua e di nebbia i due profughi trovano una villa semidistrutta che credono l’antica casa di famiglia. Il rudere viene utilizzato dai “servi” del luogo come porcile. Priscilla sogna di ricostruire la villa. Una sera la donna riesce a trascinare il fratello a dormire tra le rovine. Nel pieno della notte un grande frastuono invade le stanze distrutte, dopo un primo momento di terrore, i due sono presi dall’ira e si rendono conto che sono i porci e i loro guardiani a provocare l’enorme rumore. Priscilla abbandona il suo progetto di ricostruzione e si rassegna a vivere nella capanna in cui si sono sistemati all’arrivo. Lucilio si mescola ai barbari, impara il mestiere di macellaio e dorme con la figlia di Arterico, il capo del luogo. Un giorno all’inizio della primavera arriva un vecchio vescovo di nome Eusebio, che passa in quei luoghi per compiere il suo ministero, si invaghisce della nobile donna romana e fa restaurare la villa. Nella casa ritornata al suo antico splendore Priscilla, attorniata dalle figlie di Arterico, amministra i riti di una religione cristiana e barbara insieme, “ma il baccano dei porci e dei porcari le arrivava sempre da dietro la parete a cui poggiava il suo letto”.
Lavinia fuggita è considerato uno dei capolavori dell’opera di Banti. La storia è ambientata a Venezia nell’orfanatrofio della Pietà agli inizi del 1700, al tempo in cui fu maestro del coro Antonio Vivaldi. Lavinia, Zanetta e Orsola sono tre orfane “figlie di coro”, che imparavano a suonare e cantare ed erano  famose in tutta Europa per la loro bravura.
Fin da piccola Lavinia è bravissima in tutti gli strumenti, ma la sua passione è scrivere musica; da qualche tempo di nascosto da tutti ha cominciato a cambiare le partiture del maestro Vivaldi, una volta ha riscritto interamente un oratorio del maestro approfittando della sua mancanza. Lavinia si è confidata con Orsola che è affascinata dall’amica e la sprona a parlare con Vivaldi.
Il racconto si apre con la partenza di Orsola dall’orfanatrofio, per andare sposa a un ricco mercante, e l’incontro tra il barcaiolo Iseppo, venuto a prendere Orsola, e Zanetta, scesa a salutare l’amica in partenza. Le due donne si ritrovano a Chioggia, Orsola moglie del mercante e Zanetta moglie di Iseppo divenuto fornaio. Non sono mogli come le altre e tutti i pomeriggi Zanetta va in visita a Orsola. Nel silenzio dei loro incontri riaffiorano i ricordi del passato, quando le due donne erano ragazze all’orfanatrofio. Così la storia di Lavinia fuggita viene raccontata come un ricordo, “un gran ricordo”.
Una volta l’anno, d’estate, le ragazze della Pietà passavano un giorno di vacanza all’aperto. Quell’anno la gita era stata alle Zattere il giorno dell’Ascensione. Nel pomeriggio di quel giorno Lavinia venne convocata dalla Priora alla presenza del Doge e del maestro Antonio Vivaldi. Zanetta e Orsola videro uscire dal padiglione Lavinia piangente con in mano il suo libro di musica, non seppero mai che cosa fosse successo durante quell’incontro. La sera alla Pietà Lavinia era scomparsa e di lei non si ebbero più notizie. Solo dopo che fu sparita Zanetta e Orsola ricordarono i discorsi degli ultimi giorni “Devo tornare laggiù, qui non c’è posto per me, e ho bisogno di spazio. Mi vestirò da uomo, farò il pastore, all’aperto, sotto il sole e la luna.” Dopo la sua scomparsa le due amiche non sopportarono più di rimanere alla Pietà, Orsola decise di maritarsi e Zanetta la seguì, insieme hanno conservato il quaderno di tela rossa e gialla delle musiche di Lavinia.
Banti ricorda nel suo ultimo libro Un grido lacerante Lavinia insieme ad Agnese di Le donne muoiono come donne “dell’eccezione contro la norma del conformismo”, inventate per reclamare “la parità della mente e la libertà del lavoro”.

Anna Banti (1895-1985), pseudonimo di Lucia Lopresti, è una scrittrice italiana del Novecento.
Banti frequenta a Roma il liceo classico e si laurea in storia dell’arte. Inizia a scrivere saggi di critica d’arte. Nel 1924 ha sposato Roberto Longhi, suo ex professore di liceo di arte e storico dell’arte. Nel 1929 per allontanarsi dall’attività del marito decide di abbandonare la critica d’arte e comincia a scrivere racconti e romanzi. Tra le sue opere più note il romanzo Artemisia ricostruzione della vita della pittrice Artemisia Gentileschi e Noi credevamo, romanzo in prima persona del Risorgimento di Domenico Lopresti, nonno della scrittrice, da cui è stato tratto il film omonimo di Mario Martone. Di Anna Banti è stato da poco pubblicato Racconti ritrovati.

Il racconto

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Caratteri del racconto

Narrare è un’attività dell’uomo in quanto animale parlante. La narrazione che riguarda fatti inventati e non ha uno scopo immediato è una forma di arte. Questa narrazione assume forme diverse, una di queste forme è il racconto. Generalmente è chiamato racconto un testo narrativo breve, in inglese si usa l’espressione short story. Un racconto deve essere coerente e compiuto. Ciascuna parte del racconto deve essere in relazione con le altre, ovvero la sua presenza nel racconto non deve essere casuale, e il racconto deve avere un inizio e una fine. Un racconto deve essere come un organismo vivente, unito e compiuto. Queste caratteristiche valgono anche per gli altri testi narrativi come le favole, i poemi epici, i romanzi.

Fabula e intreccio

In un racconto deve accadere qualcosa, ci deve essere un cambiamento della situazione iniziale. Ogni racconto ha una trama ovvero una serie di avvenimenti disposti in senso temporale. Per definire con più precisione la trama si usa il termine fabula, in inglese story, quando la narrazione segue scrupolosamente l’ordine cronologico degli avvenimenti. Si usa il termine intreccio, in inglese plot, quando la narrazione non segue scrupolosamente l’ordine cronologico degli avvenimenti. Per esempio nel racconto Il colombre di Dino Buzzati la trama segue la fabula e gli eventi sono narrati in ordine cronologico, dall’infanzia alla vecchiaia di Stefano Roi, il protagonista del racconto. Invece il racconto L’Anima di Elsa Morante ha inizio con una brevissima frase che anticipa il contenuto del racconto “Un vecchio signore aveva stretto amicizia con un’Anima.” questa brevissima frase trasforma la fabula in intreccio.

Esordio – intrigo, peripezie e Spannung – conclusione

La trama nella sua forma semplice prevede un esordio, l’avvenimento o l’insieme di avvenimenti che mettono in moto la trama, una parte centrale, detta intrigo e peripezie, in cui avvengono i fatti che conducono a un cambiamento, di solito alla fine di questa parte si trova il punto culminante del racconto detta in tedesco Spannung, dopo la quale la trama giunge alla conclusione. Per esempio nel racconto Il colombre di Dino Buzzati l’esordio racconta la prima uscita in mare di Stefano, l’intrigo e le peripezie raccontano la vita di Stefano dopo la decisione del padre di allontanarlo dal mare e il suo ritorno dopo la morte del padre, la Spannung si ha quando Stefano ormai vecchio decide di andare incontro al colombre, l’incontro di Stefano con il colombre conclude il racconto. Il racconto L’Anima di Elsa Morante ha inizio con il primo incontro del vecchio signore con l’Anima, prosegue con le avventure del vecchio signore e dell’Anima, la Spannung è quando il vecchio signore incontra per un’ultima volta l’Anima che gli dice che sta per morire, la conclusione quando l’Anima ormai imprigionata nel corpo di un cane si avvicina al vecchio chiedendogli aiuto.

Sequenze

Un racconto è composto da più sequenze, singole parti coerenti di narrazione. Di solito le sequenze sono delimitate da punti a capo, rientri del capoverso, spazi bianchi.

Arte e vita

Come tutte le forme artistiche il racconto ha un rapporto particolare con la nostra esperienza di vita, Pablo Picasso affermava che “l’arte è una bugia che insegna a vedere la verità”, può essere interessante riflettere su questa affermazione del grande artista.

Il Principe di Machiavelli – Pantheon del 12 gennaio 2013 con Gennaro Sasso

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Niccolò Machiavelli, Palazzo della Signoria, Firenze

Il Principe – Pantheon del 12 gennaio 2013 con Gennaro Sasso

“Alla fine mi sono convinto di una cosa, è possibile che quest’autore non sia mai stato veramente letto nelle cose essenziali (…) esiste una sinfonicità del pensiero di Machiavelli che comprende almeno tre opere, i Discorsi, il Principe che ne nasce e le Storie fiorentine … è possibile che non abbiamo capito che per Machiavelli l’Italia non esisteva, non riusciva ad esistere, che bisognava fondarla effettivamente in modo profondo e che per fondarla in modo profondo bisognava realizzare una serie di riforme etico – politiche, diciamo in senso lato, in cui il problema fondamentale fosse il rapporto con la Chiesa, e Machiavelli dice se noi trasportassimo la sede romana della Chiesa nella incorrotta Svizzera in capo a due generazioni la Svizzera sarebbe corrotta come noi, in questo senso Machiavelli è veramente un autore rivoluzionario, che è stato messo tra parentesi, che è stato allontanato, perché io sono convinto che anche i più grandi estimatori di Machiavelli, e li abbiamo avuti lei li ha citati, ma nel dettaglio hanno mai veramente detto che Machiavelli non è un autore cristiano, mi sono reso conto tardi di questa cosa, me ne sono reso conto tardi, non certo nel 58, perché, ma perché c’era un condizionamento a tenere in sordina questo tema ed è per questo che non è un autore della letteratura italiana e chi si è avvicinato a Machiavelli anche laicamente ha messo la sordina su questo punto” (Gennaro Sasso minuti 27-29 della puntata)

Il Decameron di Pasolini e quello di Boccaccio: osservazioni e confronti

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La novella di Andreuccio inizia con quello che è chiamato raccordo sullo sguardo, in inglese eye shot, si tratta di una sequenza di due immagini, nella prima viene presentato un personaggio che osserva, nella seconda quello che il personaggio osserva, è l’equivalente della focalizzazione interna della narrazione scritta.

Nella novella di Andreuccio di Pasolini ci sono alcune differenze con la versione originale di Boccaccio. Pasolini muta il rapporto tra fabula e intreccio, per esempio anticipa il racconto dell’inganno ordito dalla giovane siciliana ai danni di Andreuccio ed elimina uno degli episodi della sua avventura napoletana .

Il realismo di Boccaccio utilizza uno stile medio, che unisce il realistico a una elegante forma linguistica, anche quando descrive la realtà più bassa, volgare, popolare utilizza sempre uno stile elegante, raffinato.
Pasolini invece non ingentilisce la realtà, la rappresenta senza mutarla.
Pasolini usa il napoletano nel suo Decameron perché è la lingua del popolo. “Ho scelto Napoli”, dirà Pasolini, “perché è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare quello che erano e, così, di lasciarsi morire”. Napoli e i napoletani sono il simbolo della resistenza a quella trasformazione causata dal capitalismo industriale che Pasolini riteneva disastrosa per l’uomo e il mondo. La scena finale di Andreuccio che esce dalla chiesa danzando è inventata da Pasolini e aggiunge una nota di gioia alla vittoria finale del giovane.

 

 

La novella di Lisabetta ha inizio con quello che è chiamato il trattamento oggettivo della scena (objective treatment of a scene); allo spettatore viene presentato ciò che sta di fronte alla camera nella narrazione della storia. Lo spettatore non vede la scena attraverso il punto di vista di un personaggio; è l’equivalente del narratore esterno della narrazione scritta.

Pasolini dedica la lunga scena iniziale a uno degli incontri notturni di Lisabetta e Lorenzo, nella novella di Boccaccio non c’è traccia di questi incontri che sono appena accennati in un breve passaggio “e sì andò la bisogna che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno.” Nella lunga scena iniziale Pasolini prefigura la fine della novella e crea un racconto a struttura circolare. Subito dopo l’inquadratura della finestra Lisabetta bacia Lorenzo sdraiato a torso nudo sul letto, il giovane è immobile e appare come morto, l’ultima inquadratura è quella di Lisabetta con le braccia tese verso il vaso di basilico sulla finestra.

Pasolini modifica il racconto di Boccaccio mostrando la reazione violenta di uno dei fratelli di Lisabetta. Il realismo di Pasolini è molto più crudo di quello di Boccaccio, non esclude, non nasconde nulla, neanche ciò che può disturbare, infastidire il lettore o spettatore.

Fuocoammare

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Film di Gianfranco Rosi del 2016, vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino nello stesso anno, candidato all’Oscar 2017 come miglior documentario, Fuocoammare è ambientato a Lampedusa e racconta due vicende parallele, quella di alcuni degli abitanti dell’isola, tra cui un bambino, e quella dei migranti che arrivano sull’isola al termine del loro viaggio. Gli attori sono tutti non professionisti. Gianfranco Rosi si inserisce nella tradizione del cinema neorealista, erede del verismo italiano; il film – documentario è ricco  di spunti di riflessioni e di significati, tra i più belli quello del bambino e del suo occhio pigro, metafora di quanto sia importante “educarsi a vedere la realtà”. vedi il film a questo link di radio replay fino al 2 marzo

Audio Rai.TV – Tre soldi – La candelora dei femminielli, tra sacro e profano | di Mariano Di Nardo e Florinda Fiamma

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Quella alla Madonna di Montevergine è una delle devozioni più sentite della Campania. Il 2 febbraio, giorno della Candelora, proprio alla Madonna nera è dedicata la processione che sale in cima al santuario sul Monte Partenio in provincia di Avellino. Un santuario eretto dove sorgeva un antico tempio dedicato alla dea Cibele, circostanza questa che lo rende un luogo di sincretismo religioso e pagano. Attraverso le voci di femminielli e devoti raccontiamo questa storia che inizia nel 1200 con un episodio leggendario che ha reso questa Madonna, detta anche Mamma Schiavona, la protettrice dei femminielli, quelle figure tipicamente partenopee di uomini che vivono e sentono come donne. E sono proprio i femminielli insieme a tutto l’universo LGBT ad animare da anni questa processione con canti, danze, tammorriate e invocazioni alla Madonna. Montevergine diventa così un luogo di incontri e riconciliazioni, antico e moderno, sacro e profano, uomo e donna.

Sorgente: Audio Rai.TV – Tre soldi – La candelora dei femminielli, tra sacro e profano | di Mariano Di Nardo e Florinda Fiamma