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Lavoro di gruppo svolto dalla classe 4AL nel secondo periodo dell’anno scolastico 2013-14

Ragazzi di Vita di Pier Paolo Pasolini.

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Ragazzi di vita
Pier Paolo Pasolini è stato uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani del XX secolo. Tra le sue opere si contano poesie, romanzi, saggi, traduzioni, articoli di giornale, sceneggiature teatrali e film.

Una delle opere più famose di Pasolini è il romanzo  “Ragazzi di vita”pubblicato nel 1955.
La storia si svolge nella Roma del secondo dopoguerra, città distrutta, con palazzi cadenti e abbandonati. In tutta la città sorgono cantieri con lo scopo di ricostruire gli edifici distrutti. Per esempio il “Ferrobedò”è un quartiere con fabbriche abbandonate in cui le persone più povere si recano con lo scopo di rubare degli oggetti, per poi rivenderli e guadagnare qualche soldo.
I protagonisti dell’opera sono dei ragazzi appartenenti al sottoproletariato urbano che vivono arrangiandosi come possono. Il filo conduttore della storia è il Riccetto, un tipico ragazzo dell’epoca di cui vengono raccontate le avventure a partire dal 1943. Fin dall’inizio si capisce l’età del Riccetto attraverso le parole dell’autore: ha circa dieci/undici anni.
La sua famiglia vive abusivamente nel corridoio di una scuola abbandonata. A seguito del crollo della scuola muoiono sua madre e un suo caro amico d’infanzia. Il Riccetto si trova dunque solo, senza punti di riferimento e legami affettivi. Si trasferisce da suo cugino, ma di fatto trascorre la maggior parte del tempo per le vie di Roma assieme ad amici sempre diversi.
I ragazzi trascorrono le loro giornate per strada e lo spirito di sopravvivenza è quello che prevale. Non si perde l’occasione di rubare un portafoglio pieno di soldi di una signora, di appropriarsi illegalmente di due poltrone per poterle rivenderle; non ci si ferma nemmeno davanti agli amici, infatti il Riccetto ruba un paio di scarpe a un suo amico che dorme. La fame è sempre in agguato, e quando non ci sono alternative e rubare diventa l’unica possibilità per riempirsi lo stomaco, non c’è morale che tenga.
Alla povertà si aggiunge la violenza. Alduccio, esasperato dalle insistenti lamentele della madre che gli si rivolge definendolo “disgrazziato” e “magnazza infame” a causa del suo poco impegno in ambito familiare, è accecato dalla rabbia e con foga animalesca la accoltella nella cucina della casa. Un altro scioccante episodio vede protagonisti un gruppo di ragazzini che, per noia e in cerca di attenzioni femminili, decidono di fare un gioco nel mezzo del quale legano un compagno ad un palo, dandogli fuoco.
Un altro problema del tempo è la prostituzione: già dai primi capitoli il lettore incontra i protagonisti alla continua ricerca di donne. Non vi è un’età in cui ci si approccia alla sessualità e le vicende del Riccetto ne sono un esempio: lo incontriamo molto giovane nel secondo capitolo, nel quale si racconta della gita ad Ostia che compie con degli amici, in occasione della quale il gruppo organizza un appuntamento con una prostituta di nome Nadia, che in seguito ruberà loro i soldi. Nei capitoli seguenti alcuni ragazzi non si fermano neppure davanti alla richiesta di un uomo adulto ad avere rapporti omosessuali con loro. I giovani e il “froscio”, da loro così volgarmente chiamato, si appartano in una grotta nei sobborghi di Roma e i ragazzi, al termine dell’episodio, per riacquistare la loro virilità, decidono di recarsi in un bordello. Per questo motivo il romanzo è stato oggetto di numerose critiche e e di una denuncia per “oscenità”.
Nel testo il fiume ha un ruolo centrale, fa parte di una sorta di rito iniziatico: i ragazzi lo attraversano per dare prova di essere grandi, adulti e pronti: il Riccetto compie la traversata con successo; al contrario Genesio, nel disperato tentativo di dimostrare a sé stesso e agli altri il proprio valore, si tuffa senza saper nuotare e muore trascinato dalla corrente.

“Ragazzi di Vita” può essere considerato un romanzo picaresco di formazione, infatti segue il protagonista, il Riccetto, nella sua evoluzione verso la maturazione e l’età adulta. L’autore rivoluziona il modo di scrivere dando voce diretta ad una classe sociale da sempre esclusa dalla letteratura alta.
Le situazioni in cui, volta per volta, si vengono a trovare i vari protagonisti sono raccontate e descritte da Pasolini in modo diretto e naturale. Una particolarità del romanzo riguarda i dialoghi tra i personaggi: i discorsi sono riportati in dialetto romano delle borgate, scelta che rispecchia l’obiettivo dell’autore di porci davanti all’esatta realtà quotidiana dell’epoca.
Possiamo metaforicamente paragonare “Ragazzi di Vita” ad una fotografia della Roma del tempo, ora però completamente scomparsa poiché inevitabilmente trasformata dall’avanzare della società. Nella prefazione al testo Vincenzo Cerami sottolinea il carattere di “struggente tenerezza” con cui Pasolini osserva i suoi personaggi. Afferma che: “Pasolini osserva i suoi personaggi nella consapevolezza che saranno spazzati via dalla storia, o più precisamente che diventeranno ben altra e infelice cosa. Da un lato è commosso dalla vitalità di queste creature che scoprono il mondo cercando di tirarne fuori, anche se maldestramente, il meglio. Dall’altro, con forte sentimento di pietas, le vede lentamente e inesorabilmente asservirsi a un modello di sviluppo che le esclude dal suo orizzonte”.

Per quanto riguarda un giudizio personale, consigliamo vivamente la lettura di questo libro. Leggendolo, infatti, conosciamo una delle opere più famose di Pier Paolo Pasolini, autore che ha dato un importantissimo contributo alla letteratura italiana del XX secolo. La sua opera è stata per noi spunto di profonde riflessioni. Il modo in cui Pasolini descrive la gioventù dell’epoca ci permette di meditare sull’importanza dell’educazione. È dovere della società promuovere attività volte a valorizzare le potenzialità dei giovani e preoccuparsi del loro futuro, in modo tale che possano raggiungere i loro obiettivi e costruire al meglio la società del domani.
(di Ilaria Di Turi, Chiara Gobbo, Linda Maiorano, Federica Zoanni)

Il servitore di due padroni e l’Arlecchino di Strehler

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INTRODUZIONE:
Il servitore di due padroni è una celebre  opera di Carlo Goldoni, scritta nel 1745.
In piena sintonia con la tradizione della Commedia dell’Arte, Goldoni scrisse l’opera in forma di canovaccio per l’attore Antonio Sacchi, o Sacco, il quale, secondo l’uso del tempo, recitava improvvisando. Con successive riscritture, l’opera si dotò di un copione steso per intero.
Questo famoso attore impersonava con il nome di Truffaldino il secondo zani, ovvero servo, della Commedia dell’Arte. In seguito il nome di Truffaldino venne sostituito con quello di Arlecchino, il nome più famoso e noto del secondo servo della commedia italiana e con questo nome il personaggio della commedia è ora chiamato.
Al centro della commedia troviamo Arlecchino, servo di due padroni, che, per non svelare il suo inganno e per perseguire il suo unico intento, ovvero mangiare a sazietà, intreccia la storia all’inverosimile e crea continuamente equivoci e guai.

PERSONAGGI PRINCIPALI:

Arlecchino: astuto servitore del defunto Federigo Rasponi. In seguito alla morte di questo servirà la sorella, Beatrice Rasponi. Per uno scherzo del destino Arlecchino trova un secondo padrone, Florindo Aretusi.
Federigo Rasponi: agiato torinese che avrebbe dovuto sposare la giovane Clarice e che però viene ucciso da Florindo Aretusi a seguito di una lite.
Beatrice Rasponi: sorella di Federigo. Lei indosserà i panni del fratello per andare alla ricerca del suo amato Florindo e ostacola il matrimonio fra Clarice e Silvio.
Clarice: figlia del locandiere veneziano Pantalone de’ Bisognosi. Innamorata di Silvio, ma inizialmente promessa in sposa a Federigo Rasponi.
Silvio: fidanzato di Clarice.
Smeraldina: serva di Clarice,innamorata di Arlecchino.
Brighella: un ex servitore ora locandiere.

TRAMA:
La commedia si apre a Venezia in casa di Pantalone de’ Bisognosi, anziano mercante che sta assistendo alla promessa di matrimonio tra sua figlia, Clarice e Silvio.
I testimoni della promessa sono Smeraldina e Brighella. Senza alcun preavviso irrompe sulla scena Arlecchino, servo di Federigo Rasponi, il quale annuncia la venuta del suo padrone, giunto a Venezia per incontrare la sua futura sposa, Clarice. Costui, in realtà , è Beatrice Rasponi, sorella del defunto Federigo, la quale indossa i panni del fratello per cercare il suo amato, Florindo Aretusi, fuggito a Venezia a seguito dell’omicidio per mano sua di Federigo.
Brighella, pur avendo riconosciuto Beatrice, non svela l’inganno, anzi, sta al gioco, assicurando tutti che lo sconosciuto è Federigo Rasponi in persona. Neanche Arlecchino si interessa della vera identità del padrone, dato che il suo unico obiettivo è quello di saziare la sua perenne fame. Non soddisfatto del trattamento di Beatrice, che trascura gli orari del pranzo e lo lascia spesso da solo, per uno scherzo del destino si trova a servire un altro padrone, Florindo Aretusi, l’innamorato di Clarice, sotto falso nome.
Beatrice e Florindo, raggirati dall’astuzia dell’abile servitore, si ritrovano alloggiati nella locanda di Brighella in cerca l’una dell’altro. Arlecchino per non farsi scoprire, addossa tutte le responsabilità sul fantomatico Pasquale, servo che in realtà non esiste. Anche quando Beatrice e Florindo si rincontreranno, Florindo crederà che il servitore di Beatrice sia Pasquale e viceversa. Arlecchino soffre la fame, mente, corteggia, ama, finge di saper leggere, serve i due padroni in stanze diverse, pasticcia la trama e la risolve, tutto ciò mentre lo “pseudo” Federigo Rasponi complica la vita dei due amanti Silvio e Clarice e delle rispettive famiglie.
L’intreccio culmina, all’inizio dell’atto terzo, quando Arlecchino , per errore scambia il contenuto di due bauli che appartengono rispettivamente ai suoi due padroni. Egli si vede costretto a spiegare a Florindo come mai nel baule si trovi un suo ritratto e a Beatrice perché nel suo si trovino due lettere da lei scritte a Florindo. Arlecchino si libera dalla spiacevole situazione raccontando ad entrambi di avere avuto tali oggetti da un suo precedente padrone defunto.
Beatrice e Florindo credono ciascuno che l’altro sia morto e si disperano. La situazione, apparentemente irrimediabile si risolve con un incontro casuale, seguito dalle nozze, dei due innamorati. Una volta svelato l’inganno di Beatrice, Clarice e Silvio si riappacificano con le rispettive famiglie.
Alla fine Arlecchino per avere in moglie Smeraldina, la serva di Pantalone, rivela il suo inganno e dichiara di avere servito due padroni nello stesso tempo.
“Arlecchino: Sior sì, mi ho fatto sta bravura. Son intrà in sto impegno senza pensarghe; m’ho volesto provar. Ho durà poco, è vero, ma almanco ho la gloria che nissun m’aveva ancora scoverto, se da per mi no me descovriva per l’amor de quella ragazza. Ho fatto una gran fadiga, ho fatto anca dei mancamenti, ma spero che, per rason della stravaganza, tutti sti siori me perdonerà.” (scena ultima)

“Il servitore di due padroni” è un’opera di intrattenimento, comica e divertente.
La commedia scritta da Goldoni su richiesta di Antonio Sacchi, famoso Truffaldino, ebbe fin dalle sue prime rappresentazioni un grande successo di pubblico.

L’ARLECCHINO DI GIORGIO STREHLER.

Giorgio Strehler nato a Trieste il 14 agosto del 1921, è stato un importante registra teatrale italiano.
Strehler  fondò insieme a Nina Vinchi e Paolo Grassi il Piccolo Teatro di Milano,  inaugurato il 14 maggio del 1947 con lo spettacolo “ L’albergo dei poveri” di Maxim Gorki.
Nel corso della la sua attività Strehler si rifà alla tradizione teatrale italiana ed europea e mette in scena spettacoli, che sono rimasti nella storia del teatro italianoed europeo.
Nel 1990 fonda insieme a Jack Lang, allora ministro della cultura in Francia, “L’unione dei teatri d’Europa” , un’associazione a scopo culturale, con il fine di riunire produzioni e lavori artistici europei e consentire gli scambi culturali.
Nello stesso anno gli fu assegnato il premio “Europa per il teatro”.
Strehler ha messo in scena tutti i principali drammaturghi italiani ed europei. Tra i suoi più importanti spettacoli ricordiamo, oltre all’Arlecchino servitore di due padroni, il più longevo dei suoi allestimenti, “La trilogia della villeggiatura” e “Le baruffe chiozzotte” sempre di Goldoni, “Il flauto magico” e “Così fan tutte” di Mozart, “L’anima buona di Sezuan” , “Opera da tre soldi” e “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht, “Re Lear” e “La tempesta” di Shakespeare, “Il giardino dei ciliegi” di Checov, “I giganti della montagna” di Pirandello, “L’ultimo nastro di Krapp” di Beckett.
Ha pubblicato saggi e testi autobiografici, tra cui “Per un teatro umano”, raccolta di scritti vari sul teatro pubblicato nel 1974.
Morì a Lugano il 25 dicembre del 1997 durate le prove del suo spettacolo “Così fan tutte”.

La commedia di Goldoni fu rappresentata sia nei teatri italiani sia in quelli europei più volte sempre con successo.
Giorgio Strehler mette in scena “Il Servitore di due padroni”, da lui rinominato “Arlecchino servitore di due padroni” al Piccolo Teatro di Milano nel luglio del 1947 come ultimo spettacolo della prima stagione del nuovo teatro milanese.
L’Arlecchino era lo spettacolo allegro e spensierato dopo gli spettacoli seri e impegnati.
Lo spettacolo di Strehler è stato rappresentato, in più di duemila repliche, nei teatri di moltissime città di tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Cina ed è tuttora (2013) nel cartellone del teatro milanese.
Due i grandi attori che hanno interpretato l’Arlecchino di Strehler Mario Moretti e Ferruccio Soleri, che tuttora interpreta il personaggio nello spettacolo che stagione dopo stagione continua ad andare in scena al Piccolo di Milano.
A questo spettacolo Strehler rimase per tutta la vita profondamente legato e non smise di rimetterlo in scena fino all’anno della sua morte nel 1997 in occasione del cinquantenario della fondazione del Piccolo Teatro di Milano.
Dagli archivi del Piccolo riportiamo uno stralcio dagli appunti di regia che Strehler scriveva per i programmi di sala dello spettacolo. archivio.piccoloteatro.org

Appunti di regia Arlecchino tournée 1954
Riflessioni sullo spettacolo pubblicate sul programma di sala in occasione della tournée in America Latina del 1954
Un segno di continuità.
Recitato per la prima volta dal Piccolo Teatro nel corso del suo primo anno di vita, Il servitore di due padroni di Carlo Goldoni (da noi poi chiamato Arlecchino servitore di due padroni, per indicare più chiaramente ai pubblici stranieri il carattere della commedia) è diventato, a poco a poco, il segno della continuità ideale del nostro lavoro e al tempo stesso una bandiera.
Sette anni fa, il nostro Arlecchino segnava in Europa, alla fine di una sanguinosa guerra che aveva ceduto il suo inevitabile debito di sconforto e di disperazioni per tanti, il ritrovamento di alcuni eterni valori di poesia e al tempo stesso di un messaggio di fiducia per gli uomini, attraverso la liberazione del riso più aperto, del gioco più puro. Era il teatro che, con i suoi attori, ritornava (o tentava di ritornare) alle fonti primitive di un avvenimento scenico dimenticato, attraverso le vicende della storia, e indicava un cammino di semplicità, di amore e di solidarietà ai pubblici contemporanei. Era il teatro che riscopriva (se così si può dire) una sua epoca gloriosa: la Commedia dell’Arte, non più come un fatto intellettuale, ma come un esercizio di vita presente, operante. Questo forse fu il punto che più chiaramente distinse la nostra fatica da quella di tanti altri interpreti che ci avevano preceduto sulla stessa strada.
(…)
Il mondo degli equivoci si muove vertiginosamente attorno alla figura misteriosa ed eterna di Arlecchino. Si varcano qui i limiti del logico e del possibile. L’assurdo nella sua forza più piena ed assoluta entra sul palcoscenico e non spaventa. Anzi ci trasporta in un mondo più facile, in cui tutti i nodi si sciolgono e infine ci trascina nell’empireo del grande teatro comico che è tutto un inno gioioso di liberazione e di felicità di esistere.
Abbandonarsi a questa “felicità”, senza peso e senza tempo, è tutto quello che noi chiediamo a noi stessi e a coloro che ci ascoltano.
Sappiamo che quando un tale miracolo avviene si accende, se pur per un attimo, nel nostro cuore una scintilla che lascia la sua incancellabile traccia di calore e di umanità.

La scena XV dell’ atto II prende luogo nella locanda di Brighella,dove alloggiano Florindo e Beatrice. Essi sono giunti a Venezia in cerca l’uno dell’altra. Arlecchino si vede costretto a soddisfare le esigenze dei suoi due padroni e fa di tutto purché l’inganno non venga svelato. In questa scena, è impegnato a servire contemporaneamente la cena a entrambi. Truffaldino porta da solo ogni portata ai padroni e non lascia far nulla ai camerieri.

SCENA QUINDICESIMA
Un Cameriere con un piatto, poi Truffaldino, poi Florindo, poi Beatrice ed altri Camerieri.
CAMERIERE: Quanto sta costui a venir a prender le vivande?                                                   TRUFFALDINO (dalla camera): Son qua, camerada; cossa me deu?
CAMERIERE: Ecco il bollito. Vado a prender un altro piatto (parte).
TRUFFALDINO: Che el sia castrà, o che el sia vedèllo? El me par castrà. Sentimolo un pochetin (ne assaggia un poco). No l’è né castrà, né vedèllo: l’è pegora bella e bona (s’incammina verso la camera di Beatrice).

FLORINDO: Dove si va? (l’incontra).                                                                                   TRUFFALDINO: (Oh poveretto mi!).                                                                                       FLORINDO: Dove vai con quel piatto?
TRUFFALDINO: Metteva in tavola, signor.
FLORINDO: A chi?
TRUFFALDINO: A vussioria.
FLORINDO: Perché metti in tavola prima ch’io venga a casa?
TRUFFALDINO: V’ho visto a vegnir dalla finestra. (Bisogna trovarla).
FLORINDO: E dal bollito principi a metter in tavola, e non dalla zuppa?
TRUFFALDINO: Ghe dirò, signor, a Venezia la zuppa la se magna in ultima.
FLORINDO: Io costumo diversamente. Voglio la zuppa. Riporta in cucina quel piatto.
TRUFFALDINO: Signor sì la sarà servida.
FLORINDO: E spicciati, che voglio poi riposare.
TRUFFALDINO: Subito (mostra di ritornare in cucina).
FLORINDO: (Beatrice non la ritroverò mai?) (entra nell’altra camera in prospetto).
Truffaldino, entrato Florindo in camera, corre col piatto e lo porta a Beatrice.
CAMERIERE: (torna con una vivanda) E sempre bisogna aspettarlo. Truffaldino (chiama).
TRUFFALDINO: (esce di camera di Beatrice) Son qua. Presto, andè a parecchiar in quell’altra camera, che l’è arrivado quell’altro forestier, e portè la minestra subito.
CAMERIERE: Subito (parte).
TRUFFALDINO: Sta piatanza coss’èla mo? Bisogna che el sia el fracastor (assaggia). Bona, bona, da galantomo (la porta in camera di Beatrice. Camerieri passano e portano l’occorrente per preparare la tavola in camera di Florindo). Bravi. Pulito. I è lesti come gatti (verso i Camerieri). Oh se me riuscisse de servir a tavola do padroni; mo la saria la gran bella cossa. (Camerieri escono dalla camera di Florindo e vanno verso la cucina). Presto, fioi, la menestra.     CAMERIERE: Pensate alla vostra tavola, e noi penseremo a questa (parte).
TRUFFALDINO: Voria pensar a tutte do, se podesse. (Cameriere torna colla minestra per Florindo). Dè qua a mi, che ghe la porterò mi; andè a parecchiar la roba per quell’altra camera. (Leva la minestra di mano al Cameriere e la porta in camera di Florindo).

CAMERIERE: E’ curioso costui. Vuol servire di qua e di la. Io lascio fare: già la mia mancia bisognerà che me la diano. Truffaldino esce di camera di Florindo.
BEATRICE: Truffaldino (dalla camera lo chiama).
CAMERIERE: Eh! servite il vostro padrone (a Truffaldino).
TRUFFALDINO: Son qua (entra in camera di Beatrice; i Camerieri portano il bollito per Florindo).
CAMERIERE: Date qui (lo prende).
Camerieri partono.Truffaldino esce di camera di Beatrice con i tondi sporchi.
FLORINDO: Truffaldino (dalla camera lo chiama forte).
TRUFFALDINO: De qua (vuol prendere il piatto del bollito dal Cameriere).
CAMERIERE: Questo lo porto io.
TRUFFALDINO: No sentì che el me chiama mi? (gli leva il bollito di mano e lo porta a Florindo).
CAMERIERE: È bellissima. Vuol far tutto. (I Camerieri portano un piatto di polpette, lo danno al Cameriere e partono).
CAMERIERE: Lo porterei io in camera, ma non voglio aver che dire con costui. (Truffaldino esce di camera di Florindo con i tondi sporchi). Tenete, signor faccendiere; portate queste polpette al vostro padrone.
TRUFFALDINO: Polpette? (prendendo il piatto in mano).
CAMERIERE: Sì, le polpette ch’egli ha ordinato (parte).
TRUFFALDINO: Oh bella! A chi le òi da portar? Chi diavol de sti padroni le averà ordinade? Se ghel vago a domandar in cusina, no voria metterli in malizia; se fallo e che no le porta a chi le ha ordenade, quell’altro le domanderà e se scoverzirà l’imbroio. Farò cussi… Eh, gran mi! Farò cusì; le spartirò in do tondi, le porterò metà per un, e cusì chi le averà ordinade, le vederà (prende un altro tondo di quelli che sono in sala, e divide le polpette per metà). Quattro e quattro. Ma ghe n’è una de più. A chi ghe l’òia da dar? No voi che nissun se n’abbia per mal; me la magnerò mi (mangia la polpetta). Adesso va ben. Portemo le polpette a questo (mette in terra l’altro tondo, e ne porta uno da Beatrice).
CAMERIERE: (con un bodino all’inglese) Truffaldino (chiama)
TRUFFALDINO: Son qua (esce dalla camera di Beatrice).
CAMERIERE: Portate questo bodino…
TRUFFALDINO: Aspettè che vegno (prende l’altro tondino di polpette, e lo porta a Florindo).
CAMERIERE: Sbagliate; le polpette vanno di la.
TRUFFALDINO: Sior si, lo so, le ho portade de là; e el me padron manda ste quattro a regalar a sto forestier (entra). CAMERIERE: Si conoscono dunque, sono amici. Potevano desinar insieme.
TRUFFALDINO: (torna in camera di Florindo) E cusì, coss’elo sto negozio? (al Cameriere).
CAMERIERE: Questo è un bodino all’inglese.
TRUFFALDINO: A chi valo?
CAMERIERE: Al vostro padrone (parte).
TRUFFALDINO: Che diavolo è sto bodin? L’odor l’è prezioso, el par polenta. Oh, se el fuss polenta, la saria pur una bona cossa! Voi sentir (tira fuori di tasca una forchetta). No l’è polenta, ma el ghe someia (mangia). L’è meio della polenta (mangia).
BEATRICE: Truffaldino (dalla camera lo chiama).
TRUFFALDINO: Vegno (risponde colla bocca piena).
FLORINDO: Truffaldino (lo chiama dalla sua camera).
TRUFFALDINO: Son qua (risponde colla bocca piena, come sopra). Oh che roba preziosa! Un altro bocconcin, e vegno (segue a mangiare).
BEATRICE: (esce dalla sua camera e vede Truffaldino che mangia; gli dà un calcio e gli dice) Vieni a servire (torna nella sua camera). Truffaldino mette il bodino in terra, ed entra in camera di Beatrice.
FLORINDO: (esce dalla sua camera) Truffaldino (chiama). Dove diavolo è costui?
TRUFFALDINO: (esce dalla camera di Beatrice) L’è qua (vedendo Florindo).
FLORINDO: Dove sei? Dove ti perdi?
TRUFFALDINO: Era andà a tor dei piatti, signor.
FLORINDO: Vi è altro da mangiare?
TRUFFALDINO: Anderò a veder.
FLORINDO: Spicciati, ti dico, che ho bisogno di riposare (torna nella sua camera).
TRUFFALDINO: Subito. Camerieri, gh’è altro? (chiama). Sto bodin me lo metto via per mi (lo nasconde).
CAMERIERE: Eccovi l’arrosto (porta un piatto con l’arrosto).
TRUFFALDINO: Presto i frutti (prende l’arrosto).
CAMERIERE: Gran furie! Subito (parte).
TRUFFALDINO: L’arrosto lo porterò a questo (entra da Florindo).
CAMERIERE: Ecco le frutta, dove siete? (con un piatto di frutta).
TRUFFALDINO: Son qua (di camera di Florindo).
CAMERIERE: Tenete (gli dà le frutta). Volete altro?
TRUFFALDINO: Aspettè (porta le frutta a Beatrice).
CAMERIERE: Salta di qua, salta di là; è un diavolo costui. TRUFFALDINO Non occorr’altro. Nissun vol altro.
CAMERIERE: Ho piacere.
TRUFFALDINO: Parecchiè per mi.
CAMERIERE: Subito (parte).
TRUFFALDINO: Togo su el me bodin; evviva, l’ho superada, tutti i è contenti, no i vol alter, i è stadi servidi. Ho servido a tavola do padroni, e un non ha savudo dell’altro. Ma se ho servido per do, adess voio andar a magnar per quattro (parte)

L’Illuminismo

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Gli scrittori inglesi del diciottesimo secolo parlano di Illuminismo, per indicare un movimento e un periodo storico, che si estende per tutto il secolo. L’Illuminismo ha inizio in Inghilterra verso la fine del Seicento con la Gloriosa Rivoluzione e gli scritti di Locke e Bayle, la sua fine viene solitamente collocata nel 1776 con la Dichiarazione d’Indipendenza americana  o nel 1789 con la Rivoluzione Francese. Nel corso del Settecento, soprattutto in Francia e in Inghilterra, si svilupparono gli ideali propri dell’Illuminismo. Tutte le nazioni europee diedero importanti contributi al movimento.

Che cos’è l’Illuminismo
L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso” Questa è una citazione dall’articolo di Kant Che cos’è l’illuminismo, uscito nel 1784 sulla Rivista mensile di Berlino, nel quale Kant evidenzia la carica emancipatrice del movimento e valorizza l’uso autonomo della ragione. Minorità è infatti l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Questo stato di minorità è imputabile a se stesso perché l’uomo non ha coraggio di usare autonomamente il proprio intelletto. Kant afferma: “Sapere aude”, cioè “abbi il coraggio di conoscere”.

I fini pratici della ragione e la “metafora della luce”
Gli illuministi affermano che la ragione umana non basta a se stessa per conoscere e la richiamano ad osservare i dati empirici. Lo scopo della riflessione e dell’indagine scientifica è l’utilità pratica, cioè i benefici che tali elaborazioni possono offrire alla società. Gli intellettuali del Settecento, che si sentivano partecipi di un periodo di grandi cambiamenti, celebravano i traguardi raggiunti attraverso la “metafora della luce”: la luce della ragione scaccia le tenebre dell’ignoranza.

Philosophie
In Francia la cultura degli illuministi prende il nome di philosophie e philosophes si appellarono i suoi esponenti. I philosophes condividevano il modo di concepire e praticare l’attività intellettuale e di intendere la funzione sociale del filosofo. Sostenevano che la guida della filosofia doveva essere la filantropia, l’amore per l’uomo, il loro scopo era di contribuire alla felicità degli uomini. L’uomo e il mondo erano gli oggetti del sapere, i valori e gli obiettivi erano mondani e umani. I problemi religiosi furono messi da parte e furono sostituiti dal problema della giustizia tra gli uomini e della felicità sulla terra.

La critica alla società
Ogni aspetto della realtà fu messo in discussione. In particolare furono criticate l’autorità, la tradizione e gli antichi modelli di comportamento. Denis Diderot afferma nell’Enciclopedia: “bisogna esaminare tutto, buttare all’aria tutto, senza eccezioni e senza riguardi”. Sulle basi di tale ideale si svilupparono il deismo come critica alla Chiesa e il dispotismo illuminato come riforma dello Stato assolutistico.
Il deismo, orientamento di pensiero nato in Inghilterra, riconosceva l’esistenza di un Dio come principio creatore e ordinatore del mondo e assunse tra il XVII e il XVIII un significato polemico contro le religioni storiche, le chiese, contro l’idea di rivelazione o di mistero, in nome della ragione e della libertà di coscienza. La cultura dei Lumi, deistica, atea e materialistica, attaccò le istituzioni ecclesiastiche, ne contestò i privilegi e il potere e imputò alla Chiesa la responsabilità dell’ignoranza popolare che frenava il progresso sociale.
In ambito politico il movimento illuminista si contraddistinse per un comune ideale riformatore che si incarnò nel dispotismo illuminato. Il dispotismo illuminato prevedeva l’accettazione dell’assolutismo come forma di governo e la collaborazione tra illuministi e monarchi per la realizzazione delle riforme.

Una nuova idea di Stato
La visione illuministica della politica si fondava sul giusnaturalismo contrattualista. Il giusnaturalismo è una tendenza di pensiero fondata su due principi: l’esistenza per ogni uomo di un diritto naturale e la superiorità del diritto naturale rispetto al diritto positivo, cioè il diritto prodotto dall’uomo che si deve basare sul diritto naturale. Il giusnaturalismo è detto contrattualista perché sostiene che lo Stato deve nascere da un contratto tra i singoli uomini, che decidono di uscire dallo stato di natura – dove sono eguali e liberi, ma privi di garanzie – e di formare una società civile sottomettendosi volontariamente a un potere sovrano. In questa prospettiva nasce una concezione di Stato opposta a quella fino ad allora tradizionale: lo Stato si fonda sul dovere del sovrano di rispettare e proteggere i diritti dell’individuo. Si afferma la consapevolezza che per tutelare gli individui è necessario regolare, limitare e controllare il potere del sovrano. Vengono elaborate quindi le teorie della sovranità della legge e della divisione dei poteri.

Il cosmopolitismo
Gli illuministi si dichiarano cosmopoliti ovvero“cittadini del mondo”. Questa idea, già conosciuta e diffusa nel mondo antico greco e latino, ritorna in auge nel Settecento. Il cosmopolitismo illuministico, erede dell’antico, si richiama al principio dell’universalità della natura e della ragione umana, all’esistenza di una legge naturale comune a tutti gli uomini postulata dal giusnaturalismo, all’idea della fratellanza e uguaglianza di tutti gli uomini. Gli illuministi criticano il concetto di patria, denunciando la sua natura utilitaristica ed egoistica “Tale è dunque la condizione umana, che desiderare la grandezza del proprio paese è desiderare il male dei propri vicini. Chi volesse che la propria patria non fosse mai né più grande né più piccola, né più ricca né più povera, sarebbe cittadino dell’universo.” (Patria in Dizionario filosofico, Voltaire)

La circolazione delle idee
L’illuminismo ebbe come centro principale la Francia, ma si diffuse in tutta Europa nel XVIII secolo grazie a svariati canali comunicativi. Giocarono un ruolo importante le istituzioni culturali e i nuovi luoghi della socialità borghese come le accademie, le società scientifiche e i caffè, insieme a novità come la stampa periodica e il mercato librario. In questo contesto nacque l’opinione pubblica che assunse sempre più potere di fronte ai governi. All’opinione pubblica si rivolgevano i massimi esponenti dell’illuminismo che volevano dare vita a una coscienza collettiva, e che partecipavano alla “vita activa”, cioè alla vita politica e sociale.

Voltaire e Montesquieu
Tra i maggiori esponenti dell’illuminismo francese ve ne furono due che manifestarono un forte legame con la cultura inglese: Voltaire e Montesquieu. Voltaire si impegnò nella lotta contro il dogmatismo e il fanatismo religioso per diffondere il valore della tolleranza e contestare ogni forma di potere arbitrario. Indicò inoltre le prospettive riformatrici nell’organizzazione della convivenza sociale. Tra le sue opere politiche più importanti troviamo il Trattato sulla tolleranza, scritto tra il 1761 e il 1763, che si inspirò a un caso di fanatismo religioso avvenuto in quegli anni in Francia: Jean Calas, un commerciante ugonotto, fu torturato e condannato a morte per motivi religiosi, mentre la famiglia fu esiliata e privata di tutti i beni.
L’opera più famosa di Voltaire è il Candido pubblicato nel 1759. Candido è un giovane che vive in Vestfalia nel castello del barone di Thunder-den-Tronckht insieme alla figlia del barone, Cunegonda, di cui Candido è innamorato, e al suo maestro Pangloss. Candido, scoperto mentre bacia Cunegonda, viene cacciato da castello. Hanno inizio le sue straordinarie avventure in giro per il mondo alla ricerca di Cunegonda che era stata rapita. La trama è molto complessa, ricca di bizzarri episodi e avventure di ogni genere. I tre protagonisti sono spesso alle prese con disgrazie e sciagure. Particolare in questo romanzo è infatti la visione pessimistica di Voltaire, in contrasto con l’ottimismo che era attribuito agli illuministi.
Montesquieu invece ideò una teoria costituzionale di enorme importanza, tanto da influenzare la politica e le scelte politiche di tutti gli stati europei negli anni a venire. Tale teoria era la teoria della divisione dei poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario, all’interno dello stato, che venne descritta nell’opera Lo spirito delle leggi del 1748. In ambito narrativo bisogna ricordare le Lettere persiane, scritte nel 1721. Queste lettere sono una satira rivolta alla società francese, criticata nei suoi usi e costumi dai due giovani protagonisti persiani, Usbek e Rica, che in visita a Parigi raccontano ai loro amici in Persia quello che vedono e fanno.

Encyclopédie
L’opera venne scritta tra il 1751 e il 1766. La progettazione dell’Encyclopédie fu affidata a Diderot e D’Alembert coadiuvati da quasi duecento intellettuali di varia estrazione sociale e culturale e che comprendevano anche i nomi più rappresentativi dell’Illuminismo. La Chiesa e la Monarchia ostacolarono la realizzazione dell’Enciclopedia perché diffondeva idee che minacciavano la loro autorità. I volumi dell’enciclopedia presentavano infatti un carattere eterodosso percepito come una minaccia per le due istituzioni. Lo scopo dell’ Enciclopedia era di trasmettere la conoscenza fino allora raggiunta dall’uomo e di diffondere le nuove idee degli illuministi.

Jean Jacques Rousseau
Illuminista originale e solitario Rousseau interruppe la collaborazione intellettuale con gli illuministi dell’Enciclopedia intorno alla metà del Settecento. Nel 1762 pubblicò le sue riflessioni politiche nel Contratto sociale. In questo scritto Rousseau elabora un modello di società politica fortemente democratica, in cui la sovranità è attribuita a tutti i cittadini dello Stato, le colonne portanti di questo modello sono l’uguaglianza e la libertà dei cittadini. Rousseau si ispirava alle città a democrazia diretta del mondo antico e proponeva un modello di organizzazione sociale fortemente innovativo.

Le scuole economiche
Nel Settecento nascono alcune diverse scuole di pensiero economico: la fisiocrazia e il liberismo. I fisiocrati, Francois Quesnay, sostenevano la superiorità del settore agricolo, ritenuto l’unico capace di produrre vera ricchezza, su tutti gli altri e si battevano contro i mercantilisti che erano protezionisti, per l’abbattimento dei dazi sui cereali e delle dogane. I liberisti, Adam Smith, David Ricardo, sostenevano che il progresso deriva dalla libera iniziativa privata e accusavano il precedente sistema feudale e le politiche mercantiliste degli antichi regimi. Il loro programma era incentrato sugli interessi della borghesia, sulla proprietà privata, sulla libera iniziativa economica e il libero scambio.

L’Illuminismo in Italia
L’Illuminismo si diffuse ampiamente anche in Italia. A Milano nacque l’Accademia dei Pugni sotto la direzione di Pietro Verri, che tra il 1764 e il 1766 pubblicò il periodico Il Caffè. Un milanese, Cesare Beccaria, membro dell’Accademia dei Pugni, scrisse il testo più rappresentativo dell’Illuminismo italiano, Dei delitti e delle pene del 1764, nel quale trattò i temi della tortura, della pena di morte e individuò i fondamenti del diritto penale moderno. L’altro principale centro dell’Illuminismo italiano fu Napoli dove vissero e operarono Giannone, Genovesi, Filangieri e altri importanti illuministi, che si occuparono di diritto ed economia.

(fonte: Illuminismo in Dizionario di storia, Treccani, 2010)