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Canzoniere di Petrarca canzone CXXXV

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Head within an aureole, Odilon Redon, 1894-95, Noirs

 

Qual piú diversa et nova
cosa fu mai in qual che stranio clima,
quella, se ben s’estima,
piú mi rasembra: a tal son giunto, Amore.
Là onde il dí vèn fore, 5
vola un augel che sol senza consorte
di volontaria morte
rinasce, et tutto a viver si rinova.
Cosí sol si ritrova
lo mio voler, et cosí in su la cima 10
de’ suoi alti pensieri al sol si volve,
et cosí si risolve,
et cosí torna al suo stato di prima:
arde, et more, et riprende i nervi suoi,
et vive poi con la fenice a prova. 15

Una petra è sí ardita
là per l’indico mar, che da natura
tragge a sé il ferro e ‘l fura
dal legno, in guisa che ‘ navigi affonde.
Questo prov’io fra l’onde 20
d’amaro pianto, ché quel bello scoglio
à col suo duro argoglio
condutta ove affondar conven mia vita:
cosí l’alm’à sfornita
(furando ‘l cor che fu già cosa dura, 25
et me tenne un, ch’or son diviso et sparso)
un sasso a trar piú scarso
carne che ferro. O cruda mia ventura,
che ‘n carne essendo, veggio trarmi a riva
ad una viva dolce calamita! 30

Né l’extremo occidente
una fera è soave et queta tanto
che nulla piú, ma pianto
et doglia et morte dentro agli occhi porta:
molto convene accorta 35
esser qual vista mai ver’ lei si giri;
pur che gli occhi non miri,
l’altro puossi veder securamente.
Ma io incauto, dolente,
corro sempre al mio male, et so ben quanto 40
n’ò sofferto, et n’aspetto; ma l’engordo
voler ch’è cieco et sordo
sí mi trasporta, che ‘l bel viso santo
et gli occhi vaghi fien cagion ch’io pèra,
di questa fera angelica innocente. 45

Surge nel mezzo giorno
una fontana, e tien nome dal sole,
che per natura sòle
bollir le notti, e ‘n sul giorno esser fredda;
e tanto si raffredda 50
quanto ‘l sol monta, et quanto è piú da presso.
Cosí aven a me stesso,
che son fonte di lagrime et soggiorno:
quando ‘l bel lume adorno
ch’è ‘l mio sol s’allontana, et triste et sole 55
son le mie luci, et notte oscura è loro,
ardo allor; ma se l’oro
e i rai veggio apparir del vivo sole,
tutto dentro et di for sento cangiarme,
et ghiaccio farme, cosí freddo torno. 60

Un’altra fonte à Epiro,
di cui si scrive ch’essendo fredda ella,
ogni spenta facella
accende, et spegne qual trovasse accesa.
L’anima mia, ch’offesa 65
anchor non era d’amoroso foco,
appressandosi un poco
a quella fredda, ch’io sempre sospiro,
arse tutta: et martiro
simil già mai né sol vide, né stella, 70
ch’un cor di marmo a pietà mosso avrebbe;
poi che ‘nfiammata l’ebbe,
rispensela vertú gelata et bella.
Cosí piú volte à ‘l cor racceso et spento:
i’ ‘l so che ‘l sento, et spesso me ‘nadiro. 75

Fuor tutti nostri lidi,
ne l’isole famose di Fortuna,
due fonti à: chi de l’una
bee, mor ridendo; et chi de l’altra, scampa.
Simil fortuna stampa 80
mia vita, che morir poria ridendo,
del gran piacer ch’io prendo,
se nol temprassen dolorosi stridi.
Amor, ch’anchor mi guidi
pur a l’ombra di fama occulta et bruna, 85
tacerem questa fonte, ch’ognor piena,
ma con piú larga vena
veggiam, quando col Tauro il sol s’aduna:
cosí gli occhi miei piangon d’ogni tempo,
ma piú nel tempo che madonna vidi. 90

Chi spïasse, canzone
quel ch’i’ fo, tu pôi dir: Sotto un gran sasso
in una chiusa valle, ond’esce Sorga,
si sta; né chi lo scorga
v’è, se no Amor, che mai nol lascia un passo, 95
et l’imagine d’una che lo strugge,
ché per sé fugge tutt’altre persone.

La cosa più diversa e strana
che si trovi in un luogo straniero,
quella se ben si considera,
più mi assomiglia: a tal punto sono arrivato, Amore.
Là dove nasce il sole,
vola un uccello che solo senza compagna
dalla morte che ha cercata
rinasce e torna nuovamente alla vita.
Così sola si ritrova
la mia volontà, e così nel punto più alto
dei suoi alti pensieri si volge al sole,
così muore,
e così torna al suo stato di prima:
brucia e muore e riprende i suoi nervi
e poi vive a gara con la fenice. 15

Là nel mare indiano si trova
una pietra tanto strana, che per natura
attira a sè il ferro e lo ruba
al legno, in modo che le navi affonda.
Questo io provo tra le onde 20
del mio amaro pianto, perché quel bello scoglio
con il suo duro orgoglio
ha portato dove conviene che affondi la mia vita:
a tal punto un sasso più incapace di attirare
la carne che il ferro
ha svuotato l’anima
(rubando il cuore che era cosa dura 25
che mi teneva unito, mentre ora sono diviso e sparso). O mia crudele sorte
che pur essendo di carne, mi vedo trascinarmi a riva
a una viva dolce calamita! 30

Nell’estremo occidente
vi è un animale feroce dolce e quieto
quanto nessun altro, ma pianto
e dolore e morte porta negli occhi:
conviene essere molto accorti 35
quando si volge lo sguardo verso di esso;
pur che non gli si veda gli occhi,
si può guardare quell’animale senza pericolo.
Ma io incauto, dolente,
corro sempre verso il mio male, e so bene quanto 40
ne ho sofferto, e quanto ne aspetto;
ma la mia volontà ingorda, cieca e sorda
mi trascina così che il santo bel viso
e begli occhi di questo angelico, innocente 45
animale feroce saranno causa della mia morte.

Nel continente australe si trova
una fontana che prende nome dal Sole
che per natura è calda di notte
e fredda di giorno;
e tanto è più fredda 50
quanto più il sole sale e riscalda.
Così succede a me,
da cui sgorgano come da una fonte lacrime continuamente:
quando il mio bel sole si allontana, 55
e i miei occhi sono nell’oscurità della notte,
allora brucio, ma se vedo apparire
l’oro e i raggi del mio vivo sole,
mi sento cambiare dentro e fuori
e diventare di ghiaccio e tornare
a essere freddo. 60

Si racconta di un’altra fonte in Epiro
che mentre è fredda accende
ogni fiamma spenta, e spegne quella che trova accesa.
L’anima mia che ancora
non era offesa dal fuoco amoroso, 65
avvicinandosi un poco
a quella fredda che io sempre sospiro,
arse tutta: e un tale supplizio
non vide mai né sole né stella 70
che un cuore di marmo avrebbe mosso a pietà;
dopo che l’ebbe infiammata,
la virtù gelata e bella la spense.
E più volte in questo modo ha acceso e spento il cuore:
questo so io che lo sento e spesso me ne adiro. 75

Lontano da tutti i nostri lidi
nelle isole famose della Fortuna,
vi sono due fonti: chi beve dell’una
muore ridendo, chi dell’altra, si salva.
Una sorte simile mi capita, 80
che potrei morire ridendo
del gran piacere che sento,
se non provassi anche dolori acuti.
Amore che ancora mi guidi
all’ombra di una fama nascosta e oscura, 85
taceremo di questa fonte, che sempre piena,
ma più fluente
vediamo, quando il sole s’incontra con il Toro,
così i miei occhi piangono sempre,
ma di più nel tempo in cui vidi la mia donna
la prima volta. 90

O canzone chi ti chiedesse
cosa faccio, tu puoi dire: Se ne sta
sotto un’alta montagna nella chiusa valle
del Sorga, non c’è nessun altro
se non Amore che non lo lascia mai, 95
e l’immagine di una che lo tormenta,
perché è lui che fugge tutte le altre persone.

Da Doppiozero: Intervista a mia madre sul Sessantotto

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Operaie della Siemens

Mentre mia sorella, mia moglie, mio cognato e i bambini mangiavano i bignè, a mia madre ho detto: “Sediamoci sul divano”. Glielo avevo preannunciato al telefono: “Ti farò due domande sul Sessantotto, mi racconterai quello che ricordi, niente di impegnativo”. Ma la sola idea l’aveva messa in apprensione. “È passato tanto tempo”, aveva sussurrato.
Mia madre non era nel movimento, non partecipò alla battaglia di Valle Giulia. Nel 1968 aveva diciotto anni, viveva in un paese a venti chilometri da Roma, aveva lasciato la scuola a quindici e non pensava alla Primavera di Praga né alla rivoluzione culturale cinese. Era l’ultima di sette fratelli, tre maschi e quattro femmine, figli di un fornaciaio e di una materassaia immigrati dall’Abruzzo.
A quel tempo lavorava in un laboratorio farmaceutico come confettatrice. “Iniziamo da questo”, le ho detto, sistemandomi il portatile sulle gambe. “Sai cos’è una confettatrice?”, mi ha chiesto. “È l’operaia che dà il colore alle pastiglie. Le bagnavo tutto il giorno con acqua e zucchero e alla fine aggiungevo il colore”. Sapevo che mia madre, prima che nascessi, aveva lavorato nell’industria farmaceutica, ma non sapevo che fosse una confettatrice. Ho cercato il significato della parola sulla Treccani, c’è scritto: “Macchina con cui si esegue la confettatura”. Mia madre era una macchina.
“Eravamo una cinquantina di operaie, tutte donne. Ci avevano scelto sulla base di un unico criterio: dovevamo essere vedove o nubili, lo stipendio che ci passavano a fine mese doveva essere la nostra unica ragione di vita”, ha rievocato con malcelato rancore. “Lavoravamo dalla mattina alla sera, eravamo ricattabili in qualsiasi momento. In fabbrica non c’era il sindacato, quando cinque di noi presero la tessera della CGIL, ci licenziarono. Facemmo causa e la vincemmo, il giudice ci reintegrò. Ma a quel punto ci rinchiusero tutte e cinque in una stanza, lontano dai laboratori. Avevamo il divieto di avvicinarci agli stabilimenti. Il lavoro che ci affidarono serviva solo a mettere alla prova i nostri nervi: dovevamo staccare le etichette dalle bottiglie vuote”. Ha fatto una pausa e le è venuto in mente un aneddoto: “In quel periodo il direttore fu arrestato perché aveva messo in vendita un farmaco senza l’autorizzazione del ministero. Noi andavamo a lavorare ma restavamo tutto il giorno in sala d’aspetto, gli stabilimenti erano sotto sequestro. Quando il direttore fu rilasciato ci disse: «Ho salito il gradino di Regina Coeli, adesso sono un vero romano». Resistetti ancora per poco, poi quando la sede della società fu spostata a Pomezia mi licenziai. Avevo lavorato lì per nove anni”.
Le ho chiesto se, pur facendo quella vita, le arrivasse l’eco del profondo sommovimento che scuoteva la società italiana, la spinta che invocava una radicale modernizzazione del paese. La miccia era stata accesa dagli studenti universitari già nell’autunno del ’67 con le occupazioni degli atenei di tutte le principali città del centro-nord. “Avevi percezione di tutto questo?”.
“Noi volevamo aderire al Sessantotto, certo”, mi ha risposto (come se si possa aderire a un anno, combaciare con esso, come un cerotto sulla pelle, o dichiararsene seguaci o sostenitori, spalleggiare un’idea, un concetto che nella sua intima materialità è fatto dell’immaterialità dei giorni), “ma incontravamo l’ostruzionismo delle più anziane che temevano di perdere il lavoro”. Il Sessantotto visto da una ragazza di provincia era questo: uno tsunami che seduceva e al contempo spaventava. “Una volta partecipammo a una manifestazione a Roma, ci sentivamo come se ci avessero invitato a una festa a cui mai avremmo immaginato di partecipare”.
Andare a Roma per quelle ragazze doveva essere come andare verso il sole, mirare al cuore del mondo. “Che il Sessantotto fosse un anno eccezionale lo abbiamo capito dopo. Non era un fatto singolo, un evento che te lo ricordi per tutta la vita. Erano tante cose insieme accadute prima, durante e dopo quell’anno, e che in seguito avremmo racchiuso sotto il nome di Sessantotto. Lo sbarco sulla Luna, avvenuto l’anno dopo, per esempio, me lo ricordo poco. Successe di notte e io andai a dormire perché la mattina dovevo lavorare. Quando nel ’63 morì Kennedy, invece, avevo appena tredici anni ma me la ricordo bene”.
Ho guardato mia madre per un momento pensandola all’interno di quel flusso storico che sono stati gli anni Sessanta del Novecento. È difficile immaginare una madre nella Storia, collocarla in un tempo extradomestico, perlomeno una madre come la mia, una madre come tante, non una Simone de Beauvoir, ma una confettatrice.
Le ho detto di parlarmi della musica. Da bambino mi opprimeva con le canzoni degli anni Sessanta. La mia generazione è cresciuta tutta allo stesso modo, schiacciata da una dittatura musicocratica. “Ascoltavo i Beatles, i Rokes, Gianni Morandi, Mina, Rita Pavone, i Camaleonti, i Dik Dik. Nel tempo libero uscivo poco, mio padre mi costringeva a rientrare al massimo alle diciotto, «quando si fa notte», il che voleva dire che d’estate potevo tirare fino alle ventuno. La domenica pomeriggio andavamo a ballare nelle balere, il Cha cha cha, l’Alligalli, il Ballo della mattonella. In quel periodo iniziavano ad aprire le prime discoteche, come il Piper, dove però non ho mai messo piede perché i miei fratelli non me l’avrebbero permesso”.
Mia moglie ci ha offerto il vassoio con i bignè. “Ne avete ancora per molto?”. “Abbiamo quasi finito”, le ho risposto. Volevo sentire ancora la voce di mia madre su una questione importante: ciò che è venuto dopo, ossia gli anni di piombo, il terrorismo, la violenza politica, la strategia della tensione, le bombe, la rivoluzione che aveva cambiato aggettivo, e che da culturale era diventata armata. “Nei primi tempi”, ha detto mia madre, “pensavamo che le Brigate Rosse fossero nel giusto, poi abbiamo capito come stavano le cose. La nostra gioventù è finita lì. Nel ’72 mi sono sposata e nel ’73 sei nato tu”. Aveva ventitré anni mia madre quando sono nato io. Mi ha fatto una certa impressione immaginare la mia nascita posta accanto al dilagare della lotta armata, entrambi i fenomeni (privato e pubblico) a suggellare la fine di un’età irripetibile.

Dunque, quando il mondo era impegnato a sognare, mia madre lavorava tutto il giorno in una fabbrica. Quante occasioni offre la Storia di avere diciott’anni in un periodo così vivo, pulsante, creativo, luminoso? A quanti, tra tutti gli esseri umani che nei secoli hanno vissuto sulla Terra, è capitato questo? Quanti hanno avuto in sorte di essere giovani quand’era giovane il mondo? Mia madre è stata tra questi, ma mentre la osservavo seduta sull’orlo del divano di casa mia, con le ginocchia strette e le dita intrecciate, cinquant’anni esatti dopo il Sessantotto, ho capito che a lei non è stato concesso di avere sogni, e se li aveva (ma certo che li aveva) era stata educata a svilirli. La Storia spesso è un’astrazione che non coincide con la pratica quotidiana del vivere. Allora mi è tornata in mente una frase di Walter Benjamin: “Gli dica di rispettare i sogni della sua giovinezza quando sarà uomo”. A lei però non l’ho pronunciata quella frase. Ho detto solo: “Va bene, basta così”. Al che mia madre ha sospirato. Poi ci siamo alzati dal divano e siamo tornati a noi. (Andrea Pomella)  link a doppiozero