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Signs out of time

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Signs out of time è un documentario che ripercorre la vita e le scoperte dell’archeologa lituana Marija Gimbutas. Nata a Vilnius nel 1921, Gimbutas ha studiato archeologia, folclore e linguistica. Gli scavi da lei condotti hanno confermato l’esistenza di antiche civiltà neolitiche nell’area sud -est dell’Europa lungo le rive del Danubio da lei chiamata Antica Europa. Queste civiltà hanno dato vita a grandi villaggi in cui vivevano gruppi umani che praticavano l’agricoltura, l’allevamento, la tessitura e la ceramica. Avevano una struttura sociale egualitaria, erano pacifiche e veneravano una divinità femminile, che presiedeva alla vita, alla morte e alla rigenerazione della natura e degli umani.   Gimbutas descrive queste civiltà come “una gilania (il termine è composto dalle due radici greche gy, da gyné “donna” e an, da anèr “uomo” e dalla lettera “L” in mezzo a loro come legame tra le due metà dell’umanità) un sistema sociale equilibrato, né patriarcale né matriarcale” ( Marja Gimbutas, Il linguaggio della dea, p.XX) . Queste civiltà ebbero fine tra il quarto e il terzo millennio a.C. in seguito allo spostamento verso occidente di popoli di lingua indoeuropea provenienti dal bacino del Volga. Questi popoli trasformarono la civiltà dell’Europa Antica da gilanica in androcratica, da matrilineare in patrilineare.  La cultura delle antiche civiltà pre-indoeuropee sopravvisse più a lungo in alcune aree del Mediterraneo, come Thera, Creta, Malta e Sardegna, in numerose altre aree divenne una cultura sotterranea, segreta, misteriosa, in alcuni periodi della storia europea si cercò di estirparla definitivamente con violente persecuzioni.

Fonte: Marja Gimbutas, Il linguaggio della dea, 2008, Venexia.

Signs out of time full movie

Il dono di Natale di Grazia Deledda

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G.Klimt, Adamo e Eva, 1918

Grazia Deledda è una scrittrice italiana del XX secolo, nata a Nuoro nel 1871 morta a Roma nel 1936. Nel 1926 riceve il premio Nobel per la letteratura.
Il dono di Natale è un racconto della raccolta omonima pubblicata a Roma nel 1930.
In un piccolo paese della Sardegna si celebra la notte di Natale; protagonisti del racconto sono due bambini di undici anni, Felle e Lia. Felle è il fratello più piccolo dei cinque fratelli Lobina, che tornano a casa dalle montagne per passare la notte di Natale in famiglia. La sorella si è fidanzata e il fidanzato festeggerà con loro. Anche in casa di Lia si festeggia il Natale e si attende un dono misterioso.
Deledda ci conduce su “le impronte di un piede di donna”  in un mondo scomparso, il mondo che la trasformazione industriale ha cancellato. Un mondo regolato da un’antica sapienza che è facile comprendere e imparare fin da bambini, come fanno Lia e  Felle.

I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.
Era una festa eccezionale, per loro, quell’anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.
Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.
E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.
Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.
Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d’alberi carichi di neve e di ghiacciuoli, appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole.
Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.
Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un’altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.
Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.
– Ben tornato, Felle.
– Oh, Lia! – egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.
Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l’amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d’occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.
– Che ci hai, qui? – domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. – Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, – aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: – e anche noi!
Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.
In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con buccie di arance e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.
La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un’aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.
Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.
– Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po’ di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? – pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.

Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca [1].
Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all’esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l’uomo che lo accompagnava. Quest’uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l’indipendenza d’Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista.
E rimasero tutti scambievolmente contenti.
Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d’oro.
Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.
L’ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s’intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.
Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.
Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.
Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d’occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.

Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.
Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.
– La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini – disse a Felle: – anch’essi hanno diritto di godersi la festa.
Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile.
La notte era gelida ma calma, e d’un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.
Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.
All’entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:
– La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.
Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c’erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po’ triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.

Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.
– Oh, ragazzi, su, in fila.
E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.
I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.
Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell’aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.
Dentro la chiesa continuava l’illusione della primavera: l’altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l’ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.
In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d’oro illuminava loro la via.
Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.
Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.
– Gloria, gloria – cantavano i preti sull’altare: e il popolo rispondeva:
– Gloria a Dio nel più alto dei cieli.
E pace in terra agli uomini di buona volontà.
Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.

All’uscita di chiesa sentì un po’ freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l’odore d’arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l’uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d’arancio, perché l’anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.
Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un’asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.

Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.
In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d’avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l’arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.
Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolìo della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.
Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.

Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?
Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.
Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov’era?
– Vieni avanti, e va su a vedere – gli disse l’uomo, indovinando il pensiero di lui.
Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.
E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.
– È il nostro primo fratellino – mormorò Lia. – Mio padre l’ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il “Gloria”. Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.

[1] È una sopraveste di pelle d’agnello, nera, con la lana, che tiene molto caldo.

Amore di lontananza di Antonia Pozzi e L’infinito di Leopardi

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Celia Paul, Evening Sea, 2016

Ricordo che, quand’ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sola volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.

Antonia Pozzi scrive Amore di lontananza a diciassette anni. Il componimento è di quindici versi endecasillabi come L’infinito di Leopardi. L’infinito presenta dieci enjambements, solo in due versi metrica e sintassi coincidono, il primo e l’ultimo verso. Il componimento è diviso in quattro parti da punti fermi, ma solo due di questi coincidono con la fine del verso: il verso tre e l’ultimo verso. In Amore di lontananza sono presenti sei enjambements, tra il verso uno e il verso due, tra il terzo e il quarto, tra il quarto e il quinto, tra il settimo e l’ottavo, tra l’ottavo e il nono, tra l’undicesimo e il dodicesimo. Pozzi riduce il numero di enjambements e divide il componimento in tre parti, terminanti ciascuna alla fine del verso: prima parte dal verso uno al verso sei, seconda dal verso sette al verso nove, terza dal verso dieci al verso quindici.

Se confrontiamo le singole parti dell’uno e dell’altro componimento troviamo somiglianze e differenze. I primi tre versi della poesia di Leopardi coincidono con i primi sei versi della poesia di Pozzi, entrambe le parti presentano il luogo dove avviene l’esperienza che la poesia descrive: “quest’’ermo colle e questa siepe”  , “nella casa della mia mamma (…) avevo una finestra”. Nei versi dal settimo al quattordici Pozzi descrive l’esperienza di creazione dell’immagine del mare, così come Leopardi nei versi dal quattro al tredici descrive la creazione dell’immagine dell’infinito. Ne L’infinito l’immaginazione ha origine dal superamento del limite,  “ questa siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” e crea immagini interiori di spazio e tempo infinito “interminati spazi di là da quella e sovrumani silenzi (…) io nel pensier mi fingo”, in Amore di lontananza l’immagine del mare nasce, prima, dal ricordo “Io allora non avevo visto il mare che una sola volta” e poi dalla metamorfosi che l’immagine reale subisce nello sguardo della poetessa “e la striscia dei colli si spianava”. E’ nei versi finali che la distanza tra i due poeti si fa più evidente. Nell’ultimo verso del componimento Leopardi esprime la dolcezza del naufragare nel mare dell’infinito, Pozzi in un verso condensa la sensazione di piacere più intensa che il mare immaginato le dà rispetto al mare vero; mare lontano che si materializza nella realtà ogni volta che la forza del desiderio lo fa esistere, non metafora di qualcosa che non esiste, l’infinito, ma simbolo dell’unica e sola realtà che possediamo, quella che creiamo in noi.

Celia Paul’s Painter and model

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Celia Paul, Painter and model, 2012

Celia Paul è una artista inglese nata nel 1959 in India, vive e lavora a Londra. Due suoi quadri, tra cui Painter and model del 2012, sono esposti alla mostra All too human, Bacon, Freud and a century of painting life, in corso fino al 27 agosto 2018 alla Tate Britain di Londra.
Painter and model di Celia Paul ha lo stesso titolo del quadro di Lucian Freud, che raffigura Paul in piedi con in mano i pennelli e il pittore, sdraiato nudo sul divano di fronte a lei. Nel suo quadro Celia Paul raffigura se stessa, pittrice e modella, seduta su una sedia, come spesso raffigurava la madre, il più frequente soggetto dei suoi quadri. Con Lucian Freud Paul  ebbe una  relazione in giovane età e un figlio, i due si conobbero alla Slade School of Fine Art di Londra, dove Paul studiava (Artist and muse Celia Paul, Independent, 10 ottobre 2012). Durante il periodo della loro relazione fu anche una sua modella. Dopo la fine della relazione con Freud Paul ha continuato a dipingere, sette opere della pittrice sono in mostra al Yale Center for British Art dal 3 aprile al 12 agosto 2018.

The Brontë Parsonage with Charlotte’s Pine and Emily’s Path to the Moors, 2017, Victoria Miro Gallery, London

Di recente l’artista ha dichiarato che i suoi prossimi quadri avranno come soggetto le ” potenti figure maschili “ della sua vita, ” Penso, ha detto, che sia ovvio che  bisogna comprendere la propria posizione come donna in relazione a quello che rimane un mondo retto da uomini “.  (New York Times, An artist’s Muse steps out of the Shadows with paintings of her own, 5 marzo 2018)

Per l’otto marzo: una trasmissione di Radio3 sulla prostituzione

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Michaela Thelenova, E55 – zur Situation der Sexarbeiterinnen, 1981, Veletržní palác, Praga

Nella trasmissione “Dialoghi. Per l’8 marzo: Il corpo delle donne” del 3 marzo si parla di prostituzione, intervengono le docenti Liliosa Azara, Silvia Giorcelli, Luciana Percovich, conduce Albero Guasco.

Il link permette di scaricare il file mpeg4 e di ascoltarlo con una app dal proprio computer o cellulare
Per l’8 marzo il corpo delle donne – Radio3

Le donne muoiono di Anna Banti

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Le visionarie, Nero editions, collana Not

Antesignana del genere weird, Anna Banti  pubblica nel 1952 Le donne muoiono, che a buon diritto sarebbe degno di far parte de Le visionarie raccolta di racconti che uniscono  fantascienza e fantasy a femminismo.
Le donne muoiono è ambientato in un futuro lontano, nel 2617. A Valloria, città lacustre vicina alla rovine dell’antica Venezia, un giovane studente manifesta all’improvviso i segni di una strana malattia. Come un vecchio, ricorda cose di un tempo sconosciuto ai più. Nel giro di poco tempo il morbo, denominato seconda memoria, si propaga a tutti i giovani maschi. Tutti ricordano di vite passate, trascorse in tempi lontani. A due anni di distanza dall’inizio dell’epidemia ci si rende conto inequivocabilmente che le donne sono escluse dalla seconda memoria, che non è più una malattia, ma il segno dell’evoluzione naturale della specie umana e dell’immortalità del genere umano maschile. Gli uomini non muoiono e ricordano le loro precedenti vite, mentre le donne continuano ad essere condannate a vivere una vita sola.
Scopertisi immortali gli uomini perdono interesse alla conservazione della vita e cambiano il loro atteggiamento di fronte alla morte che è ormai una spiacevole formalità, che, col progredire degli studi, si sarebbe potuta completamente eliminare. Solo le donne di fronte ai moribondi non sanno “trattenere le lacrime”.
La differenza e distanza tra uomini e donne aumenta. Gli uomini si abituano presto alla nuova separazione, imputandola all’antico pregiudizio del “poco cervello delle donne” e fanno a meno di loro. Sempre più donne lasciano i loro mariti e fidanzati e si rifugiano in collegi e club di sole donne. Le poche donne che rimangono con gli uomini non hanno l’obbligo di mantenersi fedeli a uno solo di loro, piuttosto quello di mantenersi lontane dalle donne che hanno scelto di vivere in comunità isolate. Queste libere dai legami di famiglia, certe della loro morte, possono seguire la propria inclinazione naturale e dedicarsi alle arti, la poesia, la pittura, la musica, “avidamente innamorate del loro breve soggiorno terreno, facevan tesoro di ogni attimo, prolungandolo in echi tanto profondi quanto parsimoniosi”.
Una mattina d’estate del 2710, un’estate calda più dell’ordinario, una musicista trentenne, Agnese Grasti, mentre cerca di risolvere un passaggio della partitura musicale che sta scrivendo vive una strana esperienza. E’ sicura di avere conquistato la seconda memoria e di essere in grado di farne un uso migliore e più proficuo degli uomini. La sera fugge dall’istituto che la ospita e dopo una settimana trascorsa a riflettere in solitudine nella stanza di un avveniristico albergo della fine del terzo millennio ritorna dalle sue compagne e si suicida dopo aver consegnato a un’amica il diario “della sua straordinaria avventura”.
 Le donne muoiono fa parte della raccolta di racconti omonima pubblicata nel 1951. Della raccolta fanno parte tre altri racconti ambientati in epoche diverse, tutti con protagoniste femminili.
Conosco una famiglia ... , Il primo racconto della raccolta è ambientato all’inizio del Novecento in “un centro urbano piuttosto grosso”, che pretende di essere una città mondana e colta ma è in realtà provincialissima, falsa e rozza. Nel salotto “impennacchiato, ammuffito, sconnesso, fittissimo d’oggetti” della vecchia madre si tiene il rito della visita quotidiana di figlie, nuore, nipoti alla “povera mammà”, che da poco ha perso marito e un figlio. Sfilano giovinette e anziane, spose e vedove, zie e madri, ci si scambia dimostrazioni di affetto e interesse mentre si pensa all’eredità, nelle conversazioni si parla di figli, mariti, fratelli, generi, figure evanescenti come fantasmi; la narratrice osserva e registra con fredda e distaccata cattiveria i gesti trattenuti, le parole ipocrite, i pensieri nascosti delle donne, comparse grottesche, prigioniere inconsapevoli di un mondo in via di disfacimento.
I porci del 1946 è uno strano e misterioso racconto ambientato in Italia al tempo delle invasioni barbariche. Priscilla e il fratello Lucilio, dell’antica famiglia dei Valeri, sono in fuga da Roma dopo il saccheggio dei Vandali di Genserico. I due fratelli si dirigono verso nord alla ricerca della villa della nonna materna. Arrivati nella pianura piena di acqua e di nebbia i due profughi trovano una villa semidistrutta che credono l’antica casa di famiglia. Il rudere viene utilizzato dai “servi” del luogo come porcile. Priscilla sogna di ricostruire la villa. Una sera la donna riesce a trascinare il fratello a dormire tra le rovine. Nel pieno della notte un grande frastuono invade le stanze distrutte, dopo un primo momento di terrore, i due sono presi dall’ira e si rendono conto che sono i porci e i loro guardiani a provocare l’enorme rumore. Priscilla abbandona il suo progetto di ricostruzione e si rassegna a vivere nella capanna in cui si sono sistemati all’arrivo. Lucilio si mescola ai barbari, impara il mestiere di macellaio e dorme con la figlia di Arterico, il capo del luogo. Un giorno all’inizio della primavera arriva un vecchio vescovo di nome Eusebio, che passa in quei luoghi per compiere il suo ministero, si invaghisce della nobile donna romana e fa restaurare la villa. Nella casa ritornata al suo antico splendore Priscilla, attorniata dalle figlie di Arterico, amministra i riti di una religione cristiana e barbara insieme, “ma il baccano dei porci e dei porcari le arrivava sempre da dietro la parete a cui poggiava il suo letto”.
Lavinia fuggita è considerato uno dei capolavori dell’opera di Banti. La storia è ambientata a Venezia nell’orfanatrofio della Pietà agli inizi del 1700, al tempo in cui fu maestro del coro Antonio Vivaldi. Lavinia, Zanetta e Orsola sono tre orfane “figlie di coro”, che imparavano a suonare e cantare ed erano  famose in tutta Europa per la loro bravura.
Fin da piccola Lavinia è bravissima in tutti gli strumenti, ma la sua passione è scrivere musica; da qualche tempo di nascosto da tutti ha cominciato a cambiare le partiture del maestro Vivaldi, una volta ha riscritto interamente un oratorio del maestro approfittando della sua mancanza. Lavinia si è confidata con Orsola che è affascinata dall’amica e la sprona a parlare con Vivaldi.
Il racconto si apre con la partenza di Orsola dall’orfanatrofio, per andare sposa a un ricco mercante, e l’incontro tra il barcaiolo Iseppo, venuto a prendere Orsola, e Zanetta, scesa a salutare l’amica in partenza. Le due donne si ritrovano a Chioggia, Orsola moglie del mercante e Zanetta moglie di Iseppo divenuto fornaio. Non sono mogli come le altre e tutti i pomeriggi Zanetta va in visita a Orsola. Nel silenzio dei loro incontri riaffiorano i ricordi del passato, quando le due donne erano ragazze all’orfanatrofio. Così la storia di Lavinia fuggita viene raccontata come un ricordo, “un gran ricordo”.
Una volta l’anno, d’estate, le ragazze della Pietà passavano un giorno di vacanza all’aperto. Quell’anno la gita era stata alle Zattere il giorno dell’Ascensione. Nel pomeriggio di quel giorno Lavinia venne convocata dalla Priora alla presenza del Doge e del maestro Antonio Vivaldi. Zanetta e Orsola videro uscire dal padiglione Lavinia piangente con in mano il suo libro di musica, non seppero mai che cosa fosse successo durante quell’incontro. La sera alla Pietà Lavinia era scomparsa e di lei non si ebbero più notizie. Solo dopo che fu sparita Zanetta e Orsola ricordarono i discorsi degli ultimi giorni “Devo tornare laggiù, qui non c’è posto per me, e ho bisogno di spazio. Mi vestirò da uomo, farò il pastore, all’aperto, sotto il sole e la luna.” Dopo la sua scomparsa le due amiche non sopportarono più di rimanere alla Pietà, Orsola decise di maritarsi e Zanetta la seguì, insieme hanno conservato il quaderno di tela rossa e gialla delle musiche di Lavinia.
Banti ricorda nel suo ultimo libro Un grido lacerante Lavinia insieme ad Agnese di Le donne muoiono come donne “dell’eccezione contro la norma del conformismo”, inventate per reclamare “la parità della mente e la libertà del lavoro”.

Anna Banti (1895-1985), pseudonimo di Lucia Lopresti, è una scrittrice italiana del Novecento.
Banti frequenta a Roma il liceo classico e si laurea in storia dell’arte. Inizia a scrivere saggi di critica d’arte. Nel 1924 ha sposato Roberto Longhi, suo ex professore di liceo di arte e storico dell’arte. Nel 1929 per allontanarsi dall’attività del marito decide di abbandonare la critica d’arte e comincia a scrivere racconti e romanzi. Tra le sue opere più note il romanzo Artemisia ricostruzione della vita della pittrice Artemisia Gentileschi e Noi credevamo, romanzo in prima persona del Risorgimento di Domenico Lopresti, nonno della scrittrice, da cui è stato tratto il film omonimo di Mario Martone. Di Anna Banti è stato da poco pubblicato Racconti ritrovati.

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Anne Sexton by Elsa Dorfman

Cinderella fa parte delle diciassette favole dei Fratelli Grimm rielaborate dalla poetessa americana Anne Sexton (1928-1974) in Transformations pubblicato nel 1971. Dalla raccolta è stato tratto il libretto dell’omonima opera scritto dalla stessa Sexton e musicato da Conrad Susa.

You always read about it:
the plumber 1 with the twelve children
who wins the Irish Sweepstakes 2.
From toilets to riches.
That story.

Or the nursemaid 3,
some luscious sweet 4 from Denmark
who captures the oldest son’s heart.
from diapers 5 to Dior.
That story.

Or a milkman who serves the wealthy 6,
eggs, cream, butter, yogurt, milk,
the white truck like an ambulance
who goes into real estate 7
and makes a pile 8.
From homogenized to martinis at lunch.

Or the charwoman 9
who is on the bus when it cracks up
and collects enough from the insurance 10.
From mops 11 to Bonwit Teller 12 .
That story.

Once
the wife of a rich man was on her deathbed
and she said to her daughter Cinderella:
Be devout. Be good. Then I will smile
down from heaven in the seam of a cloud 13.
The man took another wife who had
two daughters, pretty enough
but with hearts like blackjacks 14.
Cinderella was their maid.
She slept on the sooty 15 hearth each night
and walked around looking like Al Jolson 16 .
Her father brought presents home from town,
jewels and gowns 17 for the other women
but the twig 18 of a tree for Cinderella.
She planted that twig on her mother’s grave
and it grew to a tree where a white dove sat.
Whenever she wished for anything the dove
would drop it like an egg upon the ground.
The bird is important, my dears, so heed 19 him.

Next came the ball, as you all know.
It was a marriage market.
The prince was looking for a wife.
All but Cinderella were preparing
and gussying 20 up for the event.
Cinderella begged 21 to go too.
Her stepmother 22 threw a dish of lentils
into the cinders 23 and said: Pick them
up in an hour and you shall go.
The white dove brought all his friends;
all the warm wings of the fatherland came,
and picked up the lentils in a jiffy 24.
No, Cinderella, said the stepmother,
you have no clothes and cannot dance.
That’s the way with stepmothers.

Cinderella went to the tree at the grave
and cried forth like a gospel singer:
Mama! Mama! My turtledove 25,
send me to the prince’s ball!
The bird dropped down a golden dress
and delicate little slippers 26.
Rather a large package for a simple bird.
So she went. Which is no surprise.
Her stepmother and sisters didn’t
recognize her without her cinder face
and the prince took her hand on the spot 27
and danced with no other the whole day.

As nightfall came she thought she’d better
get home. The prince walked her home
and she disappeared into the pigeon 28 house
and although the prince took an axe 29 and broke
it open she was gone. Back to her cinders.
These events repeated themselves for three days.
However on the third day the prince
covered the palace steps with cobbler’s 30 wax
and Cinderella’s gold shoe stuck upon it.
Now he would find whom the shoe fit
and find his strange dancing girl for keeps 31.
He went to their house and the two sisters
were delighted because they had lovely feet.
The eldest went into a room to try the slipper on
but her big toe 32 got in the way so she simply
sliced it off and put on the slipper.
The prince rode away with her until the white dove
told him to look at the blood pouring forth 33.
That is the way with amputations.
They just don’t heal up 34 like a wish.
The other sister cut off her heel 35
but the blood told as blood will.
The prince was getting tired.
He began to feel like a shoe salesman.
But he gave it one last try.
This time Cinderella fit into the shoe
like a love letter into its envelope.

At the wedding ceremony
the two sisters came to curry favor 36
and the white dove pecked their eyes out.
Two hollow spots were left
like soup spoons.

Cinderella and the prince
lived, they say, happily ever after,
like two dolls in a museum case
never bothered by diapers or dust,
never arguing over the timing of an egg,
never telling the same story twice,
never getting a middle-aged spread 37,
their darling smiles pasted on for eternity.
Regular Bobbsey Twins 38.
That story.

Video: Cinderella adapted  from Cinderella by Anne Sexton

 

1 l’idraulico
2 lotteria
3 babysitter
4 deliziosa dolcezza
5 pannoloni
6 i ricchi
7 diventa agente immobiliare
8 e fa un mucchio di soldi
donna delle pulizie
10  assicurazione
11  mocio
12 grande magazzino di lusso a New York
13  la cucitura di una nuvola
14 gioco a carte (nome italiano: ventuno)
15 fuligginoso
16 cantante americano dei primi del Novecento famoso per le sue interpretazioni in black face makeup
17 abiti da ballo
18 rametto molto sottile
19 fate attenzione
20 agghindandosi
21 implorando
22 matrigna
23 cenere
24 in un momento
25 tortora
26 scarpette da ballo
27 subito
28 piccione
29 scure
30 ciabattino
31 per sempre
32 alluce
33 che sgorgava
34 si cicatrizzano
35 tallone
36 per ottenere favori
37 senza ingrassare
38 coppia di gemelli maschio e femmina protagonisti di una serie di racconti per bambini pubblicata dal 1904 al 1979