Vittorio Alfieri

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Vittorio Alfieri nacque nel 1749 ad Asti, figlio del conte Antonio Alfieri, in una famiglia nobile e ricca. Compì gli studi nell’Accademia militare di Torino, verso i quali ebbe da subito un totale disprezzo. Nella sua autobiografia Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso parla degli anni di scuola come di un periodo di “ineducazione” in cui “asino, fra asini, e sotto un asino” gettava via la propria gioventù. Libero dalla scuola cominciò un lungo vagabondare, sia in Italia che in Europa, conducendo la vita libera e dissipata del giovane aristocratico. Sono anche anni di  letture, Montaigne, Cervantes, gli illuministi francesi, l’opera che lo appassiona di più è Le vite parallele dello scrittore greco Plutarco, una raccolta di biografie di grandi personaggi storici, greci e latini. Le gesta degli antichi  infiammano il suo desiderio di gloria e di virtù, negli antichi Alfieri vede la grandezza d’animo a cui aspira e che non sa come realizzare nella realtà  presente.  A una tanto mondana esistenza doveva però corrispondere un perenne senso di inutilità e insoddisfazione. Alfieri non mostrava alcuna inclinazione per la compagnia degli uomini, i quali alla fine gli parevano essere sempre la medesima povera cosa.
L’approccio con la letteratura fu la svolta della sua vita. Alfieri ci arrivò ventiseienne quando, abbozzò per noia la sua prima tragedia, Cleopatra, dove per il personaggio di Antonio prigioniero dell’amore per Cleopatra il poeta prendeva come modello sé stesso in quel tempo impegnato in una penosa storia di amore con una marchesa torinese. La Cleopatra fu rappresentata al teatro Carignano di Torino nel giugno del 1775 e ottenne un discreto successo. Da allora si dedicò alla vocazione letteraria  e comprese di aver trovato la propria via e il modo di liberarsi di una vita che lo faceva “impazzire e scoppiare”. Per Alfieri dunque la letteratura fu una “necessità vitale”, una “espressione totale della sua personalità” (Mario Fubini, Vittorio Alfieri in Dizionario biografico degli italiani, Treccani, vol.2, 1960).
Nel 1776 si trasferì a Firenze  per meglio apprendere la lingua italiana. In Toscana, a Firenze, Pisa e poi Siena scrive le prime tragedie, il Filippo, Antigone, Polinice, Virginia, Agamennone, Oreste, La congiura dei Pazzi. Qui ebbe inizio la storia d’amore con la contessa Luisa Stolberg d’Albany, moglie del pretendente al trono inglese, definita dal poeta il suo “degno amore”. Per svincolarsi dagli obblighi di cittadino piemontese si “spiemontizzò”  e  cedette alla sorella l’intero patrimonio, riservandosi solo una rendita annua. Si trasferì a Roma per raggiungere la contessa, ma dovette ben presto lasciare la città infastidito dalle maldicenze sulla relazione con la Stolberg, che pure era riuscita a liberarsi del marito vecchio e dedito all’alcol. Per attenuare il dolore della separazione iniziò un viaggio attraverso le città italiane letterarie più importanti. Scriveva intanto le tragedie e le poesie, poi raccolte nel volume delle Rime.
Nel 1784 si ricongiunse con l’amata presso Colmar in Alsazia e tre anni dopo si trasferirono a Parigi, dove assistette allo scoppio della Rivoluzione. Dopo un iniziale entusiasmo, divenne un convinto antifrancese: la democrazia che i rivoluzionari intendevano affermare non coincideva infatti con la sua aristocratica idea di libertà. A questo proposito scrisse il Misogallo, documento dell’avversione per la Francia. Lasciò in seguito Parigi trasferendosi definitivamente a Firenze assieme alla Stolberg, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Morì nel 1803.
Fu autore della raccolta di poesie Rime e di un’autobiografia Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso, che insieme alle tragedie è considerato il suo capolavoro. Ai temi della libertà e della lotta contro la tirannia dedicò due trattati, Della tirannide e Del principe e delle lettere. Scrisse diciassette Satire e sei commedie, tra cui quattro di tema politico.
Nelle opere autobiografiche, la Vita e le Rime Alfieri ha dato un ritratto ideale di sé come di un uomo libero, di carattere fiero e appassionato, incline alla malinconia. L’uomo libero è il protagonista del trattato Della tirannide ed è colui che “mediante il proprio ingegno” si accorge di vivere nella tirannide, mentre la maggior parte degli uomini, “turpissimi armenti di coloro che nessuna delle umane facoltà esercitando”, non se ne accorgono. Nel II libro Alfieri spiega come l’uomo libero possa vivere sotto la tirannide. Egli deve stare “sempre lontano dal tiranno, da suoi satelliti,dagli infami onori, dalle inique sue cariche, dai vizi, lusinghe e corruzioni sue”, e non potendo “acquistare la gloria del fare” deve ricercare “con ansietà, bollore ed ostinazione, quella del pensare, del dire e dello scrivere”. L’uomo libero è quindi lo scrittore stesso i cui scritti devono essere pubblicati e giovare a tutti o ai molti, è questo un tratto illuminista della riflessione di Alfieri che assegna allo scrittore il compito di essere utile agli altri uomini. Nel Del principe e delle lettere Alfieri teorizza l’assoluta necessità per lo scrittore di essere ricco o comunque di avere di che vivere, perché lo scrivere non può procurare gloria e fama all’autore né riuscire utile ai lettori se non è “alto, veridico, libero e interamente sciolto da ogni secondo meschino fine”. Lo scrittore è descritto come un uomo che è mosso da un impulso naturale “un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace, né loco (…) una infiammata e risoluta voglia e ncessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non esser nulla”. Questa descrizione dello scrittore presenta caratteri che saranno poi dell’artista romantico, che è il genio, animato dal proprio singolo individuale impulso e libero dai modelli e dalla tradizione. Quando non fosse più possibile vivere sotto la tirannide da uomini liberi Alfieri afferma che l’uomo libero deve “generosamente morire per non vivere servo”. La riflessione politica di Alfieri, che pure conosce Machiavelli, è astratta e lontana dalla storia, non interessata ai meccanismi politici reali, più attenta agli aspetti psicologici e individuali del comportamento politico. Nelle ultime pagine del trattato Alfieri afferma che “il primo di tutti i rimedi contro alla tirannide, ancorché tacito e lento, è pur sempre il sentirla; e sentirla vivamente i molti non possono, (abbenché oppresi ne siano) là dove i pochi non osino appien disvelarla ” e che poiché non vi è alla tirannide altro rimedio che “la universal volontà e opinione” si deve sperare che i tiranni siano crudeli in modo tale che i più se ne accorgano e si ribellino.