Approfondimento: le tre novelle della prima giornata sulla fede

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Il Decameron inizia con tre novelle sulla fede. Nella prima ser Cepparello, uomo malvagissimo, muore e diviene un santo famoso che compie molti miracoli. Nella seconda l’ebreo Abraam dopo aver visto la corruzione della chiesa di Roma si converte alla fede cattolica. Nella terza l’ebreo Melchisedec racconta al Saladino la novella dei tre anelli.
Ascoltiamo la puntata di Umana Cosa (trasmissione RAI del 2013 in occasione dei settecento anni dalla nascita di Boccaccio) sulle tre novelle della prima giornata.
Di seguito sono riportati i passi letti e commentati nella puntata. Per il testo integrale delle novelle vai a questo link.

(link a tutti i podcast della trasmissione)

Prima giornata prima novella
Ser Cepparello con una falsa confessione inganna uno santo frate,e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.

Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volonterosamente v’andava, e più volte a fedire e a uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ Santi era grandissimo, e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcuno altro era iracundo. A chiesa non usava giammai, e i sacramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario più che alcuno altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitor grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giucatore e mettitore di malvagi dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse.
(…) Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà; e per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più che aver potete, se alcun ce n’è; e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e’ miei in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti.”
(…) “Padre mio, io non vorrei che voi guardasti perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla, anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da questo abominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Idio non m’avesse così visitato.
(…) Disse allora il frate: “O, altro hai tu fatto?”

“Messer sì, “ rispose ser Ciappelletto “ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio.”
Il frate cominciò a sorridere e disse: “Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo.”
Disse allora ser Ciappelletto: “E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio.”
(…) “Oimè, messere, ché un peccato m’è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta che io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi esser molto certo che Idio mai non avrà misericordia di me per questo peccato.”
“Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Idio per te.”
(…) “Padre mio, poscia che voi mi promettete di pregare Idio per me, e io il vi dirò: sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai una volta la mamma mia.”
( …) “O figliuol mio, or parti questo così gran peccato? o gli uomini bestemmiano tutto il giorno Idio, e sì perdona Egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato; e tu non credi che Egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione che io ti veggio, sì ti perdonerebbe Egli.”
(…) “Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla qual si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far che egli così non voglia morire come egli è vivuto?”.
(…) “E in tanto crebbe la fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era che in alcuna avversità fosse, che a altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Idio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui. Così adunque visse e morì ser Cepparello da Prato e santo divenne come avete udito.”

La “supercazzola” in punto di morte di Giorgio Perozzi (Philippe Noiret) in Amici miei di Mario Monicelli (1975). L’episodio è ispirato alla confessione di ser Cepparello.

L’introduzione di Panfilo
(…) Esso, al quale niuna cosa è occulta, più alla purità del pregator riguardando che alla sua ignoranza o allo essilio del pregato, così come se quegli fosse nel suo cospetto beato, essaudisce coloro che ’l priegano. Il che manifestamente potrà apparire nella novella la quale di raccontare intendo: manifestamente, dico, non il giudicio di Dio ma quel degli uomini seguitando.

Seconda novella
Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato,va in corte di Roma; e, veduta la malvagità de’ cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.

“Parmene male che Idio dea a quanti sono: e dicoti così, che, se io ben seppi considerare, quivi niuna santità, niuna divozione, niuna buona opera o essemplo di vita o d’altro in alcuno che cherico fosse veder mi parve, ma lussuria, avarizia e gulosità, fraude, invidia e superbia e simili cose e piggiori, se piggiori esser possono in alcuno, mi vi parve in tanta grazia di tutti vedere, che io ho più tosto quella per una fucina di diaboliche operazioni che di divine. E per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro pastore e per consequente tutti gli altri si procaccino di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana religione, là dove essi fondamento e sostegno esser dovrebber di quella. E per ciò che io veggio non quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra religione aumentarsi e più lucida e più chiara divenire, meritamente mi par discerner lo Spirito santo esser d’essa, sì come di vera e di santa più che alcuna altra, fondamento e sostegno. Per la qual cosa, dove io rigido e duro stava a’ tuoi conforti e non mi volea far cristiano, ora tutto aperto ti dico che io per niuna cosa lascerei di cristian farmi: andiamo adunque alla chiesa, e quivi secondo il debito costume della vostra santa fede mi fa’ battezzare.”

Terza novella
Melchisedech giudeo, con una novella di tre anella,cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli.

(…) Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale, intra l’altre gioie più care che nel suo tesoro avesse, era uno anello bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore e in perpetuo lasciarlo ne’ suoi discendenti, ordinò che colui de’ suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che colui s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli altri esser come maggiore onorato e reverito. E colui al quale da costui fu lasciato tenne simigliante ordine ne’ suoi discendenti, e così fece come fatto avea il suo predecessore.
(…) Li quali, dopo la morte del padre, volendo ciascuno la eredità e l’onore occupare e l’uno negandola all’altro, in testimonanza di dover ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il suo anello; e trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro, che qual fosse il vero non si sapeva cognoscere, si rimase la quistione, qual fosse il vero erede del padre, in pendente: e ancor pende. E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion proponeste: ciascun la sua eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare, ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione.”

Giuseppe Battiston legge la novella dei tre anelli in Nathan il Saggio di G.E.Lessing

Quarta novella
Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera dalla pena.

Già si tacea Filomena dalla sua novella espedita, quando Dioneo, che appresso di lei sedeva, senza aspettare dalla reina altro comandamento, conoscendo già per l’ordine cominciato che a lui toccava il dover dire, in cotal guisa cominciò a parlare:
– Amorose donne, se io ho bene la ’ntenzione di tutte compresa, noi siamo qui per dovere a noi medesimi novellando piacere; e per ciò, solamente che contro a questo non si faccia, estimo a ciascuno dovere esser licito (e così ne disse la nostra reina, poco avanti, che fosse) quella novella dire che più crede che possa dilettare: per che, avendo udito che per li buoni consigli di Giannoto di Civignì Abraam avere l’anima salvata e Melchisedech per lo suo senno avere le sue ricchezze dagli aguati del Saladino difese, senza riprensione attender da voi intendo di raccontar brievemente con che cautela un monaco il suo corpo di gravissima pena liberasse.
Fu in Lunigiana, paese non molto da questo lontano, un monistero già di santità e di monaci più copioso che oggi non è, nel quale tra gli altri era un monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie potevano macerare. Il quale per ventura un giorno in sul mezzodì, quando gli altri monaci tutti dormivano, andandosi tutto solo da torno alla sua chiesa, la quale in luogo assai solitario era, gli venne veduta una giovinetta assai bella, forse figliuola d’alcuno de’ lavoratori della contrada, la quale andava per li campi certe erbe cogliendo: né prima veduta l’ebbe, che egli fieramente assalito fu dalla concupiscenza carnale. Per che, fattolesi più presso, con lei entrò in parole e tanto andò d’una in altra, che egli si fu accordato con lei e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona se n’accorse.
E mentre che egli, da troppa volontà trasportato, men cautamente con le’ scherzava, avvenne che l’abate, da dormir levatosi e pianamente passando davanti alla cella di costui, sentio lo schiamazzio che costoro insieme faceano; e per conoscere meglio le voci s’accostò chetamente all’uscio della cella a ascoltare, e manifestamente conobbe che dentro a quella era femina e tutto fu tentato di farsi aprire; poi pensò di volere tenere in ciò altra maniera, e tornatosi alla sua camera aspettò che il monaco fuori uscisse. Il monaco, ancora che da grandissimo suo piacere e diletto fosse con questa giovane occupato, pur nondimeno tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito alcuno stropicio di piedi per lo dormitoro, a un piccol pertugio pose l’occhio e vide apertissimamente l’abate stare a ascoltarlo, e molto ben comprese l’abate aver potuto conoscere quella giovane esser nella sua cella. Di che egli, sappiendo che di questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu dolente: ma pur, sanza del suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente seco molte cose rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne potesse. E occorsagli una nuova malizia, la quale al fine imaginato da lui dirittamente pervenne, e faccendo sembiante che esser gli paresse stato assai con quella giovane, le disse: “Io voglio andare a trovar modo come tu esca di qua entro senza esser veduta; e per ciò statti pianamente infino alla mia tornata.”
E uscito fuori e serrata la cella con la chiave, dirittamente se n’andò alla camera dell’abate; e, presentatagli quella secondo che ciascun monaco facea quando fuori andava, con un buon volto disse: “Messere, io non potei stamane farne venire tutte le legne le quali io aveva fatte fare, e per ciò con vostra licenzia io voglio andare al bosco e farlene venire.”
L’abate, per potersi più pienamente informare del fallo commesso da costui, avvisando che questi accorto non se ne fosse che egli fosse stato da lui veduto, fu lieto di tale accidente e volentier prese la chiave e similmente gli diè licenzia. E come il vide andato via, cominciò a pensare qual far volesse più tosto: o in presenza di tutti i monaci aprir la cella di costui e far loro vedere il suo difetto, acciò che poi non avesser cagione di mormorare contro di lui quando il monaco punisse, o di voler prima da lei sentire come andata fosse la bisogna. E pensando seco stesso che questa potrebbe esser tal femina o figliuola di tale uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna d’averla a tutti i monaci fatta vedere, s’avisò di voler prima veder chi fosse e poi prender partito; e chetamente andatose alla cella, quella aprì e entrò dentro e l’uscio richiuse. La giovane vedendo venir l’abate tutta smarrì, e temendo di vergogna cominciò a piagnere.
Messer l’abate, postole l’occhio adosso e veggendola bella e fresca, ancora che vecchio fosse sentì subitamente non meno cocenti gli stimoli della carne che sentiti avesse il suo giovane monaco; e fra se stesso cominciò a dire: “Deh, perché non prendo io del piacere quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che il dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno apparecchiati? Costei è una bella giovane e è qui che niuna persona del mondo il sa: se io la posso recare a fare i piacer miei, io non so perché io nol mi faccia. Chi il saprà? Egli nol saprà persona mai, e peccato celato è mezzo perdonato. Questo caso non avverrà forse mai più: io estimo ch’egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Domenedio ne manda altrui.”
E così dicendo e avendo del tutto mutato proposito da quello per che andato v’era, fattosi più presso alla giovane, pianamente la cominciò a confortare e a pregarla che non piagnesse; e d’una parola in un’altra procedendo, a aprirle il suo disidero pervenne. La giovane, che non era di ferro né di diamante, assai agevolmente si piegò a’ piaceri dell’abate: il quale, abbracciatala e basciatala più volte, in su il letticello del monaco salitosene, avendo forse riguardo al grave peso della sua dignità e alla tenera età della giovane, temendo forse di non offenderla per troppa gravezza, non sopra il petto di lei salì ma lei sopra il suo petto pose, e per lungo spazio con lei si trastullò.
Il monaco, che fatto avea sembiante d’andare al bosco, essendo nel dormentoro occultato, come vide l’abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicurato estimò il suo avviso dovere avere effetto; e veggendol serrar dentro, l’ebbe per certissimo. E uscito di là dove era, chetamente n’andò a un pertugio per lo quale ciò che l’abate fece o disse e udì e vide. Parendo all’abate essere assai con la giovanetta dimorato, serratala nella cella, alla sua camera se ne tornò; e dopo alquanto, sentendo il monaco e credendo lui esser tornato dal bosco, avvisò di riprenderlo forte e di farlo incarcerare acciò che esso solo possedesse la guadagnata preda: e fattoselo chiamare, gravissimamente e con mal viso il riprese e comandò che fosse in carcere messo.
Il monaco prontissimamente rispose: “Messere, io non sono ancora tanto all’Ordine di san Benedetto stato, che io possa avere ogni particularità di quello apparata; e voi ancora non m’avavate monstrato che’ monaci si debban far dalle femine premiere come da’ digiuni e dalle vigilie; ma ora che mostrato me l’avete, vi prometto, se questa mi perdonate, di mai più in ciò non peccare, anzi farò sempre come io a voi ho veduto fare.”
L’abate, che accorto uomo era, prestamente conobbe costui non solamente aver più di lui saputo, ma veduto ciò che esso aveva fatto; per che, dalla sua colpa stessa rimorso, si vergognò di fare al monaco quello che egli, sì come lui, aveva meritato. E perdonatogli e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio, onestamente misero la giovanetta di fuori e poi più volte si dee credere ve la facesser tornare.