Canti di Leopardi: L’infinito, La sera del dì di festa, A Silvia, A sè stesso, Palinodia a Gino Capponi, La ginestra (testo e parafrasi)

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Leopardi chiama i componimenti scritti tra il 1819 e il 1821 “idilli” e li definisce “situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo” , sono componimenti di carattere intimo, pagine di riflessioni e confessioni, diverse dalle canzoni di tono e contenuto elevato scritte quasi negli stessi anni. Negli Idilli il poeta parla in prima persona dei moti del proprio cuore.

L’INFINITO

L’Infinito, scritto tra la primavera e l’autunno del 1819, è il più famoso degli idilli. Nell’Infinito Leopardi realizza “un processo immaginativo e consolatorio sottoposto a un preciso controllo razionale” (H. Grosser, Il canone letterario, vol.4, p.301). Come afferma nello Zibaldone, trattando della teoria del piacere, l’infinito è creato dalla immaginazione “esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. (…) E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano e figurarseli infiniti. (…) il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova nella immaginazione” (Zibaldone pp.165-168, luglio 1821). Nel componimento il poeta descrive l’attività immaginativa della sua mente “interminati spazi … sovrumani silenzi … io nel pensier mi fingo ” dove “mi fingo” va tradotto come “io immagino”. Alla fine del componimento il poeta descrive la sensazione di piacere che deriva da questa esperienza dell’immaginazione “Così tra quest’immensità s’annega il pensier mio e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Il naufragare nell’infinito è dolce perché soddisfa il desiderio di piacere infinito dell’uomo. Il perdersi nell’infinito di Leopardi non è un’esperienza religiosa di abbandono a un oltre metafisico, ma un processo mentale di cui il poeta è perfettamente consapevole.
Da un punto di vista formale notiamo la struttura circolare del testo, all’inizio “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe”, alla fine “Così tra quest’immensità …. m’è dolce in questo mare”, il “caro mi fu” riprende il “m’è dolce”, e i due aggettivi dimostrativi dell’inizio questo e questa ritornano alla fine. Nei quindici versi endecasillabi non ci sono rime, ci sono alcune assonanze, tra il verso 4 e il 5, tra l’8 il 9 e l’11. Solo tra due versi, il primo e l’ultimo, non ci sono enjambements. A questo proposito è stato osservato che “la struttura sintattica infrange sistematicamente la misura metrica, impedendo una lettura che rispetti il ritmo dell’endecasillabo e creando misure ritmiche e melodiche libere e variate….. Questo procedimento costituisce un equivalente formale del rapporto finito/infinito.” (H. Grosser, op.cit., p.302). La scelta lessicale presenta termini indefiniti e vaghi secondo la poetica dell’indefinito e del vago: ermo, ultimo, interminati, sovrumani, profondissima, eterno, annegare, naufragare, infinito, immensità. Le figure retoriche principali sono le metafore: core, voce, morte stagioni, presente e viva, naufragare, mare; frequenti gli iperbati e le anastrofi. Da notare infine l’alternanza dei deittici questo e quello a indicare il punto di partenza e di arrivo del processo immaginativo.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani 5
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce 10
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare. 15

Nella solitudine della natura il poeta si rivolge a luoghi cari e amati, un colle e una siepe.
La siepe impedisce allo sguardo di vedere l’orizzonte. Seduto in  contemplazione immagina spazi e silenzi infiniti e una quiete profondissima, dove quasi prova paura.
Il vento stormisce tra gli alberi e il poeta paragona lo stormire del vento al silenzio infinito e pensa all’eternità, al tempo passato e a quello presente, vivo e pieno di suoni.
Così sente di perdersi nell’infinito e questo gli è dolce.

LA SERA DEL DÌ DI FESTA

La sera del dì di festa è un idillio, il periodo di scrittura è il 1819-1821, forse la primavera del 1820. E’ un componimento di 46 versi endecasillabi sciolti, privi di rime. Il lessico è indefinito e del vago, ci sono parole “peregrine” che evocano immagini e sensazioni indefinite, lo splendido notturno dell’inizio e il canto che si spegne in lontananza della fine della poesia. La poesia è un solitario colloquio del poeta con sé stesso, una riflessione sul proprio dolore e sul tempo che passa e distrugge. Il componimento è rivolto a una donna che il poeta ama e che non conosce le sue pene; compare, forse per la prima volta, la natura maligna “l’antica natura onnipossente che mi fece all’affanno”. Nei versi centrali della poesia il dolore viene espresso con forza, senza vergogna “e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etade!”. Il tono acceso e l’espressione non controllata dell’emozione non è piaciuta a molti lettori del secolo scorso. Il componimento si chiude con un ricordo doloroso dell’infanzia “Nella mia prima età …. già similmente mi stringeva il core”. A questa poesia si addicono le parole di Leopardi che definiva il genere lirico “vera e pura poesia in tutta la sua estensione; proprio di ogni uomo anche incolto che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto e colle parole misurate in qualunque modo e coll’armonia; espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo” (Zibaldone, 4234). Anche in questo componimento troviamo le figure retoriche classiche: metafore, anastrofi e iperbati. Si distaccano le apostrofi “O donna mia”, “Oh giorni orrendi” e le interrogative retoriche “Or dov’è… Or dov’è….” che intensificano il tono allocutivo e patetico del testo.

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi 5
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. 10
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro 15
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già ch’io speri, 20
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto 25
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito 30
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero 35
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta 40
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco, 45
Già similmente mi stringeva il core.

La notte è dolce, chiara e senza vento,
la luce della luna si posa quieta sui tetti
e in mezzo agli orti, e illumina
i monti limpidi in lontananza.
O donna mia, tutte le vie sono silenziose
e rare luci notturne sono accese sui balconi:
tu dormi, nelle tue stanze tranquille un facile sonno
ti ha accolto, nulla ti dà affanno e non sai,
non pensi alla ferita che mi hai aperto in petto.
Tu dormi : io mi affaccio a salutare questo cielo
che appare così benevolo e la natura antica e onnipotente
che mi ha creato per soffrire. A te nego anche la speranza,
mi disse, e sui tuoi occhi brillino solo lacrime.
Questo è stato un giorno di festa ; ora ti riposi dai giochi
e forse ti ricordi in sogno a quanti sei piaciuta e quanti
sono piaciuti a te: io, non lo spero no,
non ti vengo in mente. Intanto mi domando
quanto mi rimanga da vivere, e mi getto per terra
e grido e fremo. O giorni orribili
della mia giovinezza ! Ahi non lontano sento
lungo la via il canto solitario
dell’operaio che torna a tarda notte
alla sua povera casa dopo la festa.
E provo una stretta al cuore
a pensare come al mondo tutto passa
e quasi non lascia segno. Ecco è fuggito
il giorno di festa, e ad esso segue il giorno
di lavoro, e il tempo si porta via
ogni evento umano. Dove sono
i popoli antichi? Dove i nostri grandi antenati ?
Dove il grande impero di Roma che combatté
per mare e per terra ?
Tutto è pace e silenzio, il mondo sta
e di loro non si parla più.
Quando da bambino aspettavo
con impazienza il giorno di festa,
oppure quando era finito, a me
che stavo pieno di dolore, sveglio sul letto,
un canto che a tarda notte
si udiva allontanarsi a poco a poco per le vie
già allora mi stringeva il cuore.

A SILVIA

A Silvia segna il ritorno alla poesia dopo il silenzio poetico degli anni 1823 – 1828. Scritta nell’aprile del 1828 a Pisa, è uno dei “grandi idilli” o canti pisano-recanatesi. A Silvia è una delle poesie sentimentali di Leopardi, componimenti nei quali Leopardi canta il dolore della caduta delle “illusioni” dopo la scoperta dell’“arido vero”. Secondo la tradizione Silvia è Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi in giovane età. Nella poesia la giovane donna diviene il simbolo della giovinezza, della sua bellezza e felicità “Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi”, mentre la morte della fanciulla simboleggia la fine delle speranze della gioventù “Ahi come, come passata sei, cara compagna dell’età mia nova, mia lacrimata speme!”. Silvia e la speranza divengono una sola cosa, senza di loro non c’è più vita, ma solo morte “All’apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano”. A Silvia è la prima canzone libera o leopardiana, in cui le strofe di endecasillabi e settenari hanno uno schema di versi e rime libero. Nelle prime tre strofe il poeta rievoca la giovinezza felice, nella quarta strofa, il nucleo del componimento, è contenuta l’espressione del sentimento del poeta, prima la dolcezza del ricordo poi l’amaro sconforto della disillusione. Nelle ultime due strofe il poeta torna al ricordo, non a quello felice della gioventù, ma a quello triste e sconsolato della morte e della perdita della speranza. In A Silvia Leopardi realizza alla perfezione molte delle sue osservazioni sulla poesia; nello Zibaldone scrive che “la lettura della vera poesia … destando mozioni vivissime, e riempiendo l’animo d’idee vaghe e indefinite e vastissime e sublimissime e mal chiare etc. lo riempie quanto più si possa a questo mondo” (Zibaldone, 1574). Sono idee vaghe e indefinite tutte quelle che nascono dalle immagini di A Silvia, il volto splendente di bellezza e gioventù della donna, il maggio pieno di profumi, il cielo sereno, le vie dorate, il paesaggio chiuso nell’indefinitezza del mare e dei monti intravisti in lontananza, idee vaghe e indefinite che riempiono l’animo. Sempre nello Zibaldone si trova la differenza tra parole che “non presentano la sola idea dell’oggetto significato, ma quando più e quando meno immagini accessorie” e termini che “ presentano la nuda e circoscritta idea” di un oggetto (Zibaldone, 110). Tutte le parole della poesia sono “parole” che evocano altri significati e non “termini” che indicano con precisione, per esempio “beltà splendea”, “perpetuo canto”, “vago avvenir”, “cara compagna dell’età mia nova”, “all’apparir del vero”.

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare 5
Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta 10
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri 15
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce, 20
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. 25
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia 30
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura. 35
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, 40
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome, 45
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore.

Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei 50
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme! 55
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero 60
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

Canzone leopardiana : strofe libere di endecasillabi e settenari.

La poesia si apre con un’invocazione a Silvia, la giovane donna protagonista insieme al poeta della poesia. Il poeta evoca il ricordo del tempo della gioventù, quando la bellezza splendeva negli occhi ridenti e timidi della giovane. Nei due versi finali della strofa la giovinetta è immaginata mentre sale il colle della giovinezza per varcarne la soglia, è lieta e pensosa nello stesso tempo.
Nella strofa seguente il poeta ricorda il canto della donna, intenta ai lavori femminili, le stanze della casa e le vie intorno ne risuonavano, cantando la fanciulla pensava al suo futuro immaginandolo felice. Era maggio, il mese pieno di profumi, e Silvia trascorreva così le sue giornate.
Il poeta ricorda poi se stesso, quando giovinetto trascorreva i suoi giorni a studiare, talvolta abbandonava lo studio faticoso e dal balcone della casa paterna rivolgeva la sua attenzione al canto di Silvia e alla mano che sul telaio batteva la tela, guardava il cielo sereno, le strade splendenti di sole e i campi, il mare in lontananza e dall’altra parte i monti. Provava in sé un’emozione indicibile.
Che dolci pensieri,
che speranze, che sentimenti, o Silvia mia !
Come bella ci appariva allora la vita, il futuro !
Quando mi ricordo di questa così grande speranza,
provo un sentimento amaro e sconsolato,
e torno a disperarmi.
Perché, natura, non mantieni le promesse?
Perché inganni in questo modo i tuoi figli?
Tu, Silvia, prima che giungesse l’inverno,
piccolina, morivi di una malattia nascosta.
E non vedevi il fiore della tua giovinezza ;
non ti addolcivano il cuore i complimenti
per i tuoi neri capelli e per i tuoi occhi innamorati e schivi;
e non parlavi d’amore con le amiche nei giorni di festa.
Anche la mia dolce speranza moriva:
anche a me è stata negata la giovinezza.
Oh come, come sei passata,
cara compagna della mia prima gioventù,
mia disperata speranza!
Questo è quel mondo che abbiamo sognato?
Questi i piaceri, l’amore, gli eventi
di cui abbiamo tanto parlato insieme?
Questo è quello che tocca a noi uomini?
Tu, infelice, sei morta
prima che la speranza svanisse
e in lontananza mi indicavi la fredda morte
e una nuda tomba.

A SE STESSO

A se stesso è probabilmente l’ultimo dei cinque componimenti del cosiddetto “ciclo di Aspasia”, scritti tra il 1833 e il 1835 e dedicati all’amore per la nobildonna fiorentina Fanny Targioni Tozzetti. Tutte le volte che Leopardi parla di amore, per una donna o per un amico, nelle lettere, nelle poesie, nelle Operette morali, nello Zibaldone ne parla come dell’esperienza fondamentale della vita. Solo l’amore permette di vivere, solo l’amore dà senso alla vita: “Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? e se la felicità non esiste, che cos’è dunque la vita? Io non ne so nulla; vi amo, vi amerò sempre così teneramente, così fortemente” (Lettera a André Jacopssen). Nelle poesie del ciclo di Aspasia il sentimento per la donna è cantato come pensiero dolcissimo e possente, “dolce pensiero … stupendo incanto”, l’amore è “sola infinita felicità” senza la quale la terra sembra all’uomo un “deserto”. (Il pensiero dominante v.88 e v.102; Amore e Morte v. 35 e v.38). Tale è il mondo in A se stesso dopo la disillusione amorosa. La disperazione per la fine della speranza e del desiderio è affermata con tono perentorio, il disprezzo per la vita, “amaro e noia”, e il mondo, “fango”, è dichiarato con fredda lucidità, non c’è rimpianto, né commiserazione, ma protesta per l’ennesima evidenza dell’infelicità a cui l’uomo è assegnato. Nel secolo scorso questo componimento è stato giudicato da alcuni critici negativamente non come poesia, ma come trascrizione di “sentimenti e propositi, che non vanno oltre la cerchia dell’individuo” (B.Croce, Leopardi, in La critica, 20 luglio 1922, in R.Luperini, La scrittura e l’interpretazione, vol.2 tomo III, p.570) . La poesia è un breve componimento di sedici versi endecasillabi e settenari sciolti. Dodici brevi, a volte brevissime, frasi, che spezzano i versi, o con i punti fermi all’interno del singolo verso o con gli enjambements, ne risulta un ritmo frantumato, accentuato dalle parole ossitone, “perì, è, né, donò, vanità”, che interrompono con forza la lettura della poesia. Le parole hanno suoni aspri e duri, lontani da quelli dolci e musicali del lessico indefinito e vago degli idilli; ci sono alcune rime: sento, spento, dispera, impera, brutto, tutto; assonanze: estremo, sento, spento, nessuna, nulla, degna, terra, dispera, impera, e allitterazioni: “Or poserai per sempre stanco mio cor”, “non che la speme il desiderio è spento”, “Posa per sempre. Assai palpitasti”, “Amaro e noia la vita, altro mai nulla; e fango il mondo”, “e l’infinita vanità del tutto”. Il lessico è tutto metaforico, tranne poche parole, tutte hanno un significato altro rispetto al loro proprio: cor, inganno, estremo, palpitasti, amaro, noia, fango, morire, brutto poter, comun danno, infinita vanità del tutto.

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento. 5
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. 10
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera, 15
E l’infinita vanità del tutto.

Sedici versi endecasillabi e settenari in cui Leopardi riversa tutto il suo dolore, la sua disperazione per la fine dell’ultima illusione, quella più potente, l’amore.
Il poeta parla al proprio cuore:
fermati, per sempre,
mio stanco cuore. È finito l’ultimo inganno
quello che avevo creduto eterno. È finito. Lo so,
non solo non spero più, non desidero più.
Fermati per sempre. Hai sofferto
molto. Ma non ne vale la pena, le cose del mondo
non sono degne di noi. La vita è noia e amarezza
niente altro, il mondo fango.
Fermati, disperati per l’ultima volta.
Il nostro unico dono è la morte. Non ti resta che disprezzare
te stesso, il mondo, la forza malvagia e nascosta che genera mali per tutti
e l’infinito nulla di tutte le cose.

PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI (vv.1-54)

Il componimento scritto a Napoli nel 1835, è rivolto al marchese Gino Capponi, intellettuale del circolo della rivista fiorentina Antologia diretta da Vieusseux. E’ una palinodia, in greco ritrattazione, perché Leopardi ritratta le proprie idee. In realtà polemizza ironicamente con le idee dell’amico ispirate all’ottimismo dello spiritualismo cattolico liberale che proclamavano “le magnifiche sorti e progressive” a cui erano destinati gli uomini. Nei versi riportati Leopardi si prende gioco delle credenze degli intellettuali del suo tempo, annuncia l’arrivo di una nuova età dell’oro: amore universale, ferrovie, macchine a vapore, giornali e malattie stringeranno insieme popoli e paesi del mondo, la stirpe degli uomini vola e volerà sempre “di meglio in meglio”. Il modello stilistico della Palinodia è il Giorno di Parini, di cui sono ripresi gli artifici retorici: l’ironia “Riconobbi e vidi la pubblica letizia e le dolcezze del destino mortal.”, l’iperbole “Fra meraviglia e sdegno, dall’Eden odorato, in cui soggiorna, rise l’alta progenie”, la mescolanza di espressioni auliche e termini moderni “Aureo secolo, ferrate vie, molteplici commerci”, la rappresentazione solenne di eventi banali “Alfin per entro il fumo dei sigari onorato, al romorio de’ crepitanti pasticcini, al grido militar, di gelati e di bevande ordinator, fra le percosse tazze e i branditi cucchiaini, viva rifulse agli occhi miei la giornaliera luce delle gazzette”.

Il sempre sospirar nulla rileva.
Petrarca

Errai, candido Gino; assai gran tempo,
E di gran lunga errai. Misera e vana
Stimai la vita, e sovra l’altre insulsa
La stagion ch’or si volge. Intolleranda
Parve, e fu, la mia lingua alla beata 5
Prole mortal, se dir si dee mortale
L’uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno,
Dall’Eden odorato in cui soggiorna,
Rise l’alta progenie, e me negletto
Disse, o mal venturoso, e di piaceri 10
O incapace o inesperto, il proprio fato
Creder comune, e del mio mal consorte
L’umana specie. Alfin per entro il fumo
De’ sigari onorato, al romorio
De’ crepitanti pasticcini, al grido 15
Militar, di gelati e di bevande
Ordinator, fra le percosse tazze
E i branditi cucchiai, viva rifulse
Agli occhi miei la giornaliera luce
Delle gazzette. Riconobbi e vidi 20
La pubblica letizia, e le dolcezze
Del destino mortal. Vidi l’eccelso
Stato e il valor delle terrene cose,
E tutto fiori il corso umano, e vidi
Come nulla quaggiù dispiace e dura. 25
Né men conobbi ancor gli studi e l’opre
Stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto
Saver del secol mio. Né vidi meno
Da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo,
E da Boston a Goa, correr dell’alma 30
Felicità su l’orme a gara ansando
Regni, imperi e ducati; e già tenerla
O per le chiome fluttuanti, o certo
Per l’estremo del boa. Così vedendo,
E meditando sovra i larghi fogli 35
Profondamente, del mio grave, antico
Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.
Auro secolo omai volgono, o Gino,
I fusi delle Parche. Ogni giornale,
Gener vario di lingue e di colonne, 40
Da tutti i lidi lo promette al mondo
Concordemente. Universale amore,
Ferrate vie, moltiplici commerci,
Vapor, tipi e choléra i più divisi
Popoli e climi stringeranno insieme: 45
Né maraviglia fia se pino o quercia
Suderà latte e mele, o s’anco al suono
D’un walser danzerà. Tanto la possa
Infin qui de’ lambicchi e delle storte,
E le macchine al cielo emulatrici 50
Crebbero, e tanto cresceranno al tempo
Che seguirà; poiché di meglio in meglio
Senza fin vola e volerà mai sempre
Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.

Lamentarsi sempre non porta a nulla
Petrarca
Ho sbagliato, candido Gino; per lungo tempo
e molto ho sbagliato. Ho ritenuto che la vita
fosse misera e vana e che il nostro tempo
fosse il più insulso di tutti i tempi. Agli
uomini felici che non so se si possa dire che sono mortali,
è sembrato di non dover tollerare le mie parole. Con un misto
di meraviglia e disprezzo nel profumato Paradiso terrestre in cui vivono,
hanno riso di me dicendo
che era segno di sfortuna e di incapacità e inesperienza di piaceri
pensare che il proprio destino fosse comune a tutti
e che il mio male fosse quello di tutti gli uomini.
Ma alla fine nel fumo dei nobili sigari,
tra i pasticcini crepitanti, le grida per i
gelati e le bevande, il rumore di tazze e cucchiaini,
ho visto viva e splendente la luce delle gazzette e dei quotidiani.
Ho riconosciuta e vista la pubblica felicità, e la dolcezza
del destino degli uomini. Ho visto l’ottimo stato e il valore delle cose terrene,
come tutto sia rose e fiori e come tutto sulla terra dia piacere e abbia lunga durata.
Ho conosciuto gli studi e le opere meravigliose, la saggezza, la virtù,
la profonda sapienza del mio secolo. Ho visto
dal Marocco alla Cina, dall’Orse al Nilo,
da Boston a Goa, regni, imperi, ducati inseguire
ansimando la viva e beata felicità e tenerla per i capelli
o per la punta del boa. Così vedendo
e meditando sulle grandi pagine dei giornali,
ho provato profonda vergogna del mio grave, antico
errore e di me stesso.
Gino sta per giungere una nuova età dell’oro.
Tutti i giornali, nei diversi articoli e colonne,
da ogni parte del mondo lo promettono al mondo.
Amore universale, ferrovie, commerci,
navi a vapore, giornali e malattie riuniranno insieme
i più diversi popoli e paesi:
e non sarà motivo di stupore se il pino o la quercia
stilleranno latte e miele, o danzeranno al suono del valzer.
Infatti la potenza degli alambicchi e delle macchine
che sfidano il cielo è così cresciuta e tanto più crescerà in futuro; perché
di meglio in meglio senza fine vola e volerà per sempre
l’intera umanità.

LA GINESTRA
O IL FIORE DEL DESERTO

Elio Germano in Il giovane favoloso di Mario Martone, 2014

La Ginestra o Il fiore del deserto chiude il libro dei Canti, come testamento spirituale e sintesi del pensiero di Leopardi. Venne scritta nel 1836 a Torre del Greco in una villa alle falde del Vesuvio, dove il poeta era ospite, è con l’immagine del Vesuvio, monte che suscita spavento e distrugge che si apre la lunga poesia. La Ginestra è un testo polemico, Leopardi rovescia il significato della frase del Vangelo di Giovanni posta in epigrafe alla poesia “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”  e chiama “luce” il pensiero, definito al verso 55 “risorto pensiero”, che afferma il materialismo e la negatività della condizione umana e “tenebre” lo spiritualismo cattolico, le “magnifiche sorti e progressive” e gli “inganni dell’intelletto”.  Per Leopardi la luce non è quella della rivelazione di Gesù, ma quella dell’Illuminismo che rifiutando ogni rivelazione si affida alla ragione per determinare la conoscenza delle cose umane. Nei versi 53-63 si rivolge agli uomini del suo tempo, che chiama “secol suberbo e sciocco”, come a bambini che hanno perso la strada e credono di procedere mentre in realtà stanno tornando indietro. Alla polemica segue l’affermazione delle proprie idee, l’uomo è un essere fragile in balia della potenza della natura. La comunità civile non può fondarsi sulle superbe convinzioni degli spiritualisti, che credono l’uomo al centro del mondo e destinato alla felicità, solo la consapevolezza della propria debolezza e fragilità può salvare gli uomini. La terra è un granello di sabbia e gli uomini sono come formiche che in un attimo vedono distrutto il loro formicaio. Pompei distrutta dal Vesuvio è il segno della forza della natura e dell’impotenza degli uomini. L’immagine della ginestra, il fiore solitario che vive sulle pendici pietrificate del vulcano, apre e chiude la poesia, ed è il simbolo dell’uomo umile e saggio che sa affrontare il “deserto” della vita senza inganni e paure. Il componimento di 317 versi endecasillabi e settenari liberamente alternati e rimati è diviso in sette strofe di diversa lunghezza. Il lessico è alto e letterario con numerosi latinismi, le figure retoriche sono quelle della tradizione classica: anastrofi, iperbati, metafore, similitudini, etc..

La poesia si compone di sette strofe libere di endecasillabi e settenari.
Nella prima strofa il poeta si rivolge alla ginestra che sparge i suoi cespugli solitari e profumati sulle pendici deserte del terribile Vesuvio. Un tempo i campi che ora sono aridi e ricoperti di dura lava, erano fertili e popolati. La Natura, simboleggiata dal Vesuvio, può con un lieve moto distruggere gli uomini e le loro opere. Negli ultimi versi della strofa il poeta rivolge agli ottimisti convinti che gli uomini siano destinati alla felicità e al progresso indefinito la sua amara ironia
“Dipinte in queste rive son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive”.
Nella seconda strofa il poeta dichiara la propria estraneità dagli uomini del suo tempo, stupidi bambini, che si sono allontanati dall’Illuminismo e dal suo pessimismo e si sono rifugiati nella favola della superiorità del genere umano.
Alla terza strofa il poeta affida il suo messaggio di cambiamento. Solo dalla consapevolezza della fragilità e debolezza dell’uomo può nascere una società civile giusta, in cui gli uomini vivono sicuri, aiutandosi reciprocamente nelle comuni difficoltà. Quando questa consapevolezza sarà comune a tutti, gli uomini smetteranno di combattersi tra loro e si uniranno in una “social catena”, una unione civile per combattere l’”empia natura”, ovvero le forze che sovrastano l’uomo e lo rendono impotente (vv.145-157). Sono i versi centrali del lungo componimento.
Nella quarta strofa, la più lirica, il poeta ricorda le notti trascorse a meditare nell’immensità del cielo: quanto piccolo è l’uomo, quanto piccola la terra, e dunque come ha potuto l’uomo pensare di essere al centro di tutto, signore e fine dell’universo? A pensarci il poeta non sa se prova più scherno o pietà per l’infinita superbia degli uomini.
Nella quinta strofa gli uomini vengono paragonati alle formiche. Come un frutto maturo cadendo distrugge il formicaio costruito con grande fatica, così l’eruzione del Vesuvio ha distrutto le città del lido di Napoli; per la Natura non vi è nessuna differenza tra le formiche e gli uomini.
Nella sesta strofa il poeta ricorda l’eruzione che distrusse Pompei nel primo secolo dell’era volgare, ancora gli abitanti delle falde del Vesuvio, sebbene siano passati mille e ottocento anni dall’eruzione, ne haano paura e guardano sospettosi la vetta del vulcano, pronti a fuggire al primo segnale di pericolo. Pompei, come uno scheletro dissepolto, è il simbolo funereo delle sorti umane, alle quali la “natura ognor verde” è del tutto indifferente.
Nell’ultima strofa il poeta si rivolge di nuovo alla “lenta ginestra”. Lenta perché pieghevole, flessibile, non rigida e suberba, ma umile e saggia perché consapevole del proprio destino, a differenza dell’uomo malato di superbia e arroganza convinto della propria immortalità e potenza.

καὶ ηγάπησαν οι άνθρωποι μαλλον τὸ σκότος η̉̀ φω̃ς.
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19

Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi, 5
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo, 10
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante, 15
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona; 20
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro 25
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte 30
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo 35
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura 40
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla 45
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente 50
Le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti 55
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece, 60
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra 65
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco 70
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo 75
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo 80
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, 85
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d’or né gagliardo, 90
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma 95
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene, 100
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra 105
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza. 110
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo, 115
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi 120
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna. 125
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima 130
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese 135
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti, 140
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri 145
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte 150
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo 155
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.

Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, 160
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro 165
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare 170
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti 175
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle 180
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando 185
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro 190
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta 195
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale? 200
Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi, 205
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo, 210
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi 215
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi 220
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse 225
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta. 230
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde 235
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento 240
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite 245
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante 250
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Su l’arenoso dorso, a cui riluce 255
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, 260
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo, 265
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta 270
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file 275
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte 280
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s’aggiri, 285
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno 290
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede: 295
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza 300
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente 305
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle, 310
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali 315
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

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