Il Principe di Niccolò Machiavelli

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Il Principe è un breve “opuscolo” di argomento politico dedicato a Lorenzo de’ Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico, scritto da Machiavelli durante il confino all’Albergaccio nel 1513, venne pubblicato a Roma nel 1532 dopo la morte dell’autore e nel 1559 inserito nell’Indice dei libri proibiti dove rimase fino alla soppressione dell’Indice nel 1966.
Nei primi capitoli sono presentati i diversi tipi di principati: ereditari, nuovi e misti e i modi con i quali essi sono acquistati, con virtù o fortuna, con le armi proprie o altrui. Machiavelli illustra i diversi principati con esempi tratti dalla storia antica e moderna, antichi re e capi popolo come Ciro, re dei persiani e Mosè, e re e signori del suo tempo come Luigi XII, re di Francia, Francesco Sforza, signore di Milano e Cesare Borgia, che nel capitolo VII è proposto come esempio di principe nuovo. Due capitoli il IX e l’XI sono dedicati a due tipologie particolari di principato, quello civile e quello ecclesiastico. Alcuni importanti capitoli, X, XII, XIII, XIV, sono dedicati alla milizia, ovvero all’esercito,  Machiavelli attribuiva una grande importanza alle armi nella conquista e nella conservazione del potere.
I capitoli dal XV al XXIII sono i più famosi del libro, in essi sono illustrate le qualità che un principe deve avere per poter mantenere lo stato. Nel capitolo XVIII Machiavelli dice che il principe deve “sapere bene usare la bestia e l’uomo” e essere “golpe e lione”, ovvero astuto come una volpe e forte come un leone.
Il capitolo XXIII è dedicato alla discussione delle ragioni che hanno portato i principi italiani a perdere i loro stati ; il capitolo XXV è dedicato alla forza della fortuna nelle vicende umane e a come l’uomo possa resisterle, nell’ultimo capitolo Machiavelli rivolge un’esortazione a Lorenzo de’ Medici a conquistare l’Italia e liberarla dagli invasori stranieri.
All’opera è premessa una breve dedica a Lorenzo di Piero de’ Medici. In essa Machiavelli presenta al principe Lorenzo la sua opera come “cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga sperienza delle cose moderne, ed una continua lezione delle antiche”, ovvero la conoscenza delle azioni dei principi e signori imparata con la lunga esperienza delle cose moderne, quando era stato segretario della II Cancelleria della Repubblica di Firenze, e la continua lettura delle cose antiche, cioè lo studio degli antichi testi di storia a cui si era dedicato. Machiavelli spera che il principe legga il suo libro, dal quale può imparare in poco tempo quello che lui ha imparato in tanti anni, e lo liberi dalla sfortuna in cui si trova.

NICCOLÒ MACHIAVELLI  AL MAGNIFICO LORENZO DI PIERO DE’ MEDICI (1).
Sogliono il più delle volte coloro che desiderano acquistare grazia appresso un Principe, farsegli innanzi con quelle cose, che tra le loro abbino più care, o delle quali vegghino lui più dilettarsi; donde si vede molte volte esser loro presentati cavalli, arme, drappi d’oro, pietre preziose e simili ornamenti, degni della grandezza di quelli. Desiderando io adunque offerirmi alla Vostra Magnificenza con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato, tra la mia suppellettile, cosa, quale io abbia più cara, o tanto stimi, quanto la cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga sperienza delle cose moderne, ed una continua lezione delle antiche, la quale avendo io con gran diligenza lungamente escogitata ed esaminata, ed ora in uno piccolo volume ridotta, mando alla Magnificenza Vostra. E benchè io giudichi questa opera indegna della presenza di quella; nondimeno confido assai, che per sua umanità gli debba essere accetta, considerato che da me non li possa essere fatto maggior dono, che darle facultà a poter in brevissimo tempo intendere tutto quello, che io in tanti anni, e con tanti miei disagi e pericoli ho cognosciuto ed inteso: la quale opera io non ho ornata nè ripiena di clausule ampie, o di parole ampollose o magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco, con li quali molti sogliono le lor cose discrivere ed ornare; perchè io ho voluto o che veruna cosa la onori, o che solamente la verità della materia, e la gravità del soggetto la faccia grata. Nè voglio sia riputata presunzione, se uno uomo di basso ed infimo stato ardisce discorrere e regolare i governi de’ Principi; perchè così come coloro che disegnano i paesi, si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongono alti sopra i monti; similmente, a cognoscer bene la natura de’ popoli bisogna esser Principe, ed a cognoscer bene quella de’ Principi conviene essere popolare. Pigli adunque Vostra Magnificenza questo piccolo dono con quello animo che io lo mando; il quale se da quella fia diligentemente considerato e letto, vi cognoscerà dentro uno estremo mio desiderio, che ella pervenga a quella grandezza che la fortuna, e le altre sue qualità le promettono. E se Vostra Magnificenza dallo apice della sua altezza qualche volta volgerà gli occhi in questi luoghi bassi, cognoscerà, quanto indegnamente io sopporti una grande e continova malignità di fortuna.
(1)
Nella lettera a Francesco Vettori del dicembre del 1513 Machiavelli scriveva di voler dedicare il Principe a Giuliano dei Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, Giuliamo morì nel 1516 e il Principe venne invece dedicato a Lorenzo dei Medici, figlio di Piero, che morì prematuramente anche lui nel 1519. Giuliano e Lorenzo medici vennero sepolti nella Sacrestia Nuova della Chiesa  di San Lorenzo di Firenze costruita da Michelangelo Buonarroti, che scolpì anche i monumenti funebri dei due Medici.

CAPITOLO I. Quante siano le specie de’ Principati e con quali modi si acquistino.
Nel I capitolo è presentato l’argomento dell’opera. Tutti gli stati e domini sono stati e sono repubbliche o principati. I principati sono ereditari, ovvero appartenuti a un principe da molto tempo, oppure nuovi, cioè appena conquistati da un principe. I nuovi sono completamente nuovi, come Milano di cui divenne signore Francesco Sforza impossessandosi del potere con la forza e l’astuzia, oppure sono domini nuovi aggiunti a regni ereditari, come il regno di Napoli che Ferdinando il Cattolico ha aggregato al regno di Spagna. I principati possono essere liberi oppure sottoposti a un principe e si conquistano con le armi di altri o con le proprie, grazie alla fortuna o alla propria virtù.
Tutti gli Stati, tutti i dominii che hanno avuto, e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o Repubbliche o Principati. I principati sono o ereditari, de’ quali il sangue del loro Signore ne sia stato lungo tempo Principe, o e’ sono nuovi. I nuovi o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del Principe che gli acquista, come è il Regno di Napoli al Re di Spagna. Sono questi dominii, così acquistati, o consueti a vivere sotto un Principe, o usi ad esser liberi; ed acquistansi o con le armi di altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.

CAPITOLO VII. De’ Principati nuovi, che con forze d’altri e per fortuna si acquistano.
Nel capitolo VII sono presi in considerazione i principati nuovi che si acquistano grazie alle armi e alla fortuna di altri. Nei primi tre paragrafi del capitolo Machiavelli svolge alcune considerazioni generali su coloro che diventano principi per fortuna. Questi per mantenere lo stato che hanno conquistato con la fortuna e le armi di altri devono essere dotati di grande virtù per poter conservare il principato. Invece coloro che diventano principi per virtù fanno molta fatica a conquistare il potere ma poi lo conservano con facilità come Francesco Sforza duca di Milano. Cesare Borgia viene proposto come il modello del principe che acquista lo stato grazie alle armi e alla fortuna di altri.
Negli undici paragrafi successivi del capitolo più lungo del Principe Machiavelli ripercorre la vicenda della creazione dello stato di Cesare Borgia, più noto come  duca Valentino. Tra il 1499 e il 1503 egli conquistò diverse città in Romagna e nelle Marche. Nella conquista del suo stato Cesare Borgia si servì dell’aiuto del padre Alessandro VI e delle truppe francesi di Luigi XII. Ma seppe poi, anche se per un periodo molto breve, mantenere e rendere più potente il suo stato grazie alla sua astuzia e crudeltà. Famosi sono gli episodi dell’uccisione del governatore della Romagna Ramiro de Lorqua, condannato a morte per le estorsioni e rapine commesse ai danni dei sudditi di Romagna, e l’inganno di Senigallia nel dicembre del 1502, con cui il Borgia si sbarazzò uccidendoli dei suoi nemici, Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, Paolo Orsini e il conte Gravina. Dopo la morte del padre nell’agosto del 1503, Cesare Borgia cadde rapidamente in disgrazia, perse i suoi possedimenti, si ammalò e fu imprigionato, riuscì a fuggire, si rifugiò presso il duca di Navarra e morì in battaglia nel marzo del 1507.
Famoso e da alcuni ammirato per la sua astuzia e crudeltà Cesare Borgia viene proposto da Machiavelli come modello di principe nuovo che ottenuto il principato per fortuna lo mantiene grazie alla propria virtù.
Coloro i quali solamente per fortuna diventano di privati Principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono: e non hanno difficultà alcuna tra via, perchè vi volano; ma tutte le difficultà nascono dappoi che vi sono posti. E questi tali sono quelli, a chi è concesso alcuno Stato o per danari, o per grazia di chi lo concede, come intervenne a molti in Grecia nelle città di Ionia, e dell’Ellesponto, dove furono fatti Principi da Dario, acciò le tenessero per sua sicurtà e gloria, come erano ancora fatti quelli Imperadori, che di privati per corruzione de’ soldati pervenivano allo Imperio. Questi stanno semplicemente in su la volontà e fortuna di chi gli ha fatti grandi, che sono due cose volubilissime e instabili, e non sanno e non possono tenere quel grado; non sanno, perchè se non è uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole, che, essendo sempre vissuto in privata fortuna, sappia comandare; non possono, perchè non hanno forze che gli possino essere amiche e fedeli. Dipoi gli Stati che vengono subito, come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e corrispondenzie loro in modo che il primo tempo avverso non le spenga;  se già quelli, come è detto, che sì in un subito sono diventati Principi, non sono di tanta virtù, che quello che la fortuna ha messo loro in grembo, sappino subito prepararsi a conservare, e quelli fondamenti, che gli altri hanno fatti avanti che diventino Principi, gli faccino poi.
Io voglio all’uno e all’altro di questi modi, circa il diventare Principe per virtù o per fortuna, addurre duoi esempi stati ne’ dì della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza, e Cesare Borgia. Francesco per li debiti mezzi, e con una sua gran virtù, di privato diventò Duca di Milano, e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall’altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo Duca Valentino, acquistò lo Stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdette, nonostante che per lui si usasse ogni opera, e facesse tutte quelle cose che per un prudente e virtuoso uomo si dovevano fare, per mettere le barbe sue in quelli Stati, che l’armi e fortuna di altri gli aveva concessi. Perchè, come di sopra si disse, chi non fa i fondamenti prima, gli potrebbe con una gran virtù fare dipoi, ancorchè si faccino con disagio dell’architettore, e pericolo dello edificio. Se adunque si considererà tutti i progressi del Duca, si vedrà quanto lui avesse fatto gran fondamenti alla futura potenzia, li quali non giudico superfluo discorrere, perchè io non saprei quali precetti mi dare migliori ad un Principe nuovo, che lo esempio delle azioni sue; e se gli ordini suoi non gli giovarono, non fu sua colpa, perchè nacque da una straordinaria ed estrema malignità di fortuna. (…)
Chi adunque giudica necessario nel suo Principato nuovo assicurarsi degl’inimici, guadagnarsi amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, seguire e riverire da’ soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, e innovare con nuovi modi gli ordini antichi, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenersi le amicizie de’ Re e delli Principi, in modo che ti abbino a beneficare con grazia, o ad offendere con rispetto, non può trovare più freschi esempi, che le azioni di costui.

CAPITOLO XV. Delle cose, mediante le quali gli uomini, e massimamente i Principi, sono lodati o vituperati.
I capitoli dal XV al XVIII sono i più famosi del Principe. Sono i capitoli che hanno suscitato più scandalo sia negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione che nei decenni e secoli successivi. In essi Machiavelli traccia un modello di comportamento del principe.
Questo modello non è un modello ideale basato sull’immaginazione, ma un modello costruito a partire dalla “verità effettuale”. Con l’espressione verità effettuale Machiavelli vuole indicare la realtà delle cose.
“La parola effettuale, come dire effettiva, positiva, basata sui fatti (effetto per fatto è comune nel ‘500) è creazione del Machiavelli.” (in Niccolò Machiavelli Il Principe, a cura di Luigi Russo, Sansoni editore Firenze, 1971, p.130 )
Machiavelli ritiene necessario “andare dietro alla verità effettuale della cosa” perché c’è una distanza incolmabile tra realtà immaginata e realtà effettuale, tra come si vive e come si dovrebbe vivere. Questa distanza è dovuta alla natura malvagia degli uomini « perchè un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene che rovini fra tanti che non sono buoni », è questa una delle numerose affermazioni del pessimismo machiavelliano. La conclusione di Machiavelli è che il principe deve necessariamente “imparare a potere essere non buono, ed usarlo e non usarlo secondo la necessità”. Per mantenere lo stato il principe deve fare i conti con la natura malvagia degli uomini e ciò si può fare solo opponendo alla malvagità degli uomini la malvagità del principe. Deriva da ciò l’ultima affermazione del capitolo: il principe deve comportarsi in modo malvagio, se è necessario comportarsi in modo malvagio per mantenere lo stato. L’azione che appare virtù è vizio se non consente di mantenere lo stato e quella che appare vizio è virtù se consente di mantenere lo stato.
1. Resta ora a vedere quali debbano essere i modi e governi di un Principe con li sudditi e con gli amici. E perchè io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancor io, non esser tenuto presuntuoso, partendomi, massime nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. Ma essendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa, che all’immaginazione di essa: e molti si sono immaginate Repubbliche e Principati, che non si sono mai visti nè conosciuti essere in vero; perchè egli è tanto discosto da come si vive, a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto la rovina, che la preservazione sua; perchè un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene che rovini fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario ad un Principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, ed usarlo e non usarlo secondo la necessità.
2. Lasciando adunque indietro le cose circa un Principe immaginate, e discorrendo quelle che son vere, dico, che tutti gli uomini, quando se ne parla, e massime i Principi, per esser posti più alto, sono notati di alcuna di queste qualità che arrecano loro o biasimo, o laude; e questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero, usando un termine Toscano, (perchè avaro in nostra lingua è ancor colui che per rapina desidera d’avere, e misero chiamiamo quello che troppo si astiene dall’usare il suo) alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l’uno fedífrago, l’altro fedele; l’uno effeminato e pusillanime, l’altro feroce ed animoso; l’uno umano, l’altro superbo; l’uno lascivo, l’altro casto; l’uno intero, l’altro astuto; l’uno duro, l’altro facile; l’uno grave, l’altro leggieri; l’uno religioso, l’altro incredulo, e simili.
3. Io so che ciascuno confesserà, che sarebbe laudabilissima cosa un Principe trovarsi di tutte le sopraddette qualità, quelle che sono tenute buone; ma perchè non si possono avere, nè interamente osservare per le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto prudente, che sappia fuggire l’infamia di quelli vizi che li torrebbono lo Stato, e da quelli che non gliene tolgano, guardarsi, se egli è possibile; ma non potendosi, si può con minor rispetto lasciare andare. Ed ancora non si curi d’incorrere nell’infamia di quelli vizi, senza i quali possa difficilmente salvare lo Stato; perchè, se si considera bene tutto, si troverà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la rovina sua; e qualcun altra che parrà vizio, e seguendola ne risulta la sicurtà, ed il ben essere suo.

CAPITOLO XVIII. In che modo i Principi debbino osservare la fede.
È questo il capitolo più noto del Principe. Quello in cui si trovano le frasi ed espressioni più citate.
Il principe deve “saper bene usare la bestia e l’uomo”, essere “volpe e leone” , e la formula “il fine giustifica i mezzi” derivata dall’affermazione “Facci adunque un Principe conto di vivere e mantenere lo Stato; i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati”.
In questo capitolo Machiavelli spiega perché e come il principe debba ingannare gli uomini per mantenere lo stato ed essere giudicato un buon principe. Gli uomini sono malvagi, e stupidi, perché guardano alle apparenze e non alla realtà, perciò il principe che voglia mantenere lo stato deve usare la forza e l’astuzia. Il principe deve fare in modo che i suoi malvagi mezzi siano nascosti, gli uomini non devono accorgersi di nulla, ma questo è facile perché la maggior parte degli uomini sono “vulgo”, così sono chiamati con disprezzo i molti che non sono capaci di capire e sono facili da ingannare. Se un principe riuscirà a vincere e mantenere lo stato nessuno si preoccuperà di criticare come sia riuscito a vincere e mantenerlo.
Seguiamo più da vicino il ragionamento di Machiavelli. Ci sono due modi di combattere: uno con le leggi , l’altro con la forza, il primo è proprio dell’uomo, il secondo delle bestie. Poiché spesso il primo non è sufficiente è opportuno saper utilizzare il secondo. Il principe deve pertanto « sapere bene usare la bestia e l’uomo ». Quando il principe è costretto a usare la bestia deve scegliere la volpe, simbolo dell’astuzia, e il leone, simbolo della forza. Il riferimento alla volpe e al leone come animali da imitare era già stato proposto da Cicerone nel De officis e da Dante nell’Inferno.
Pertanto un principe prudente non deve osservare la fede, ossia la parola data, quando osservandola ciò gli provocherebbe danno o quando siano venute meno le condizioni che avevano determinato la promessa di fede. Gli uomini sono « tristi », ovvero malvagi, inclini al male e non mantengono la parola data e quindi il principe non deve mantenerla a loro.
Machiavelli consiglia apertamente al principe di ingannare gli uomini. Il principe deve nascondere la sua malvagità, deve simulare e dissimulare, ovvero fingere, ingannare. Del resto gli uomini sono semplici, ovvero facili da ingannare, e così oppressi dalle necessità, che ingannarli è quanto di più facile ci sia per il principe, « colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà ingannare ». Per questo il principe non deve essere pietoso, fedele, umano, onesto, religioso, ma deve sembrare di esserlo. Gli uomini, rivela Machiavelli al principe, giudicano più con gli occhi che con le mani, tutti vedono quello che il principe appare, pochissimi si accorgono di come è realmente. E quei pochi non osano opporsi alla opinione dei più che sono difesi da principe. Anche perché ciò che più conta nelle azioni degli uomini, e in particolar modo in quelle del principe è il risultato finale, il fine. Se il principe vince e mantiene lo stato le sue azioni saranno sempre giudicate degne di onore e lode. Perché « il vulgo », ovvero i molti, sono sempre conquistati da ciò che pare e dal risultato e « nel mondo non è se non vulgo ». Amara osservazione di Machiavelli, che sottolinea come i molti hanno sempre la meglio contro i pochi che non hanno luogo, ovvero non hanno spazio, voce, credibilità, anche se hanno compreso come stanno veramente le cose.
1. Quanto sia laudabile in un Principe mantenere la fede, e vivere con integrità, e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimeno si vede per esperienzia, ne’ nostri tempi, quelli Principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà.
2. Dovete adunque sapere come sono due generazioni di combattere: l’una con le leggi, l’altra con le forze. Quel primo è degli uomini; quel secondo è delle bestie; ma perchè il primo spesse volte non basta, bisogna ricorrere al secondo. Pertanto ad un Principe è necessario saper ben usare la bestia e l’uomo. Questa parte è stata insegnata a’ Principi copertamente dagli antichi scrittori, i quali scrivono come Achille e molti altri di quelli Principi antichi furono dati a nutrire a Chirone Centauro, che sotto la sua disciplina gli custodisse; il che non vuol dire altro l’avere per precettore un mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a un Principe sapere usare l’una e l’altra natura, e l’una senza l’altra non è durabile.
3. Essendo adunque un Principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quella pigliare la volpe e il lione; perchè il lione non si defende da’ lacci, la volpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere volpe a cognoscere i lacci, e lione a sbigottire i lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono. Non può pertanto un Signore prudente, nè debbe osservare la fede, quando tale osservanzia gli torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se gli uomini fussero tutti buoni, questo precetto non saria buono; ma perchè sono tristi, e non l’osserverebbono a te, tu ancora non l’hai da osservare a loro. Nè mai a un Principe mancheranno cagioni legittime di colorare l’inosservanza.

Di questo se ne potriano dare infiniti esempi moderni, e mostrare quante paci, quante promesse siano state fatte irrite e vane per la infedeltà de’ Principi; e a quello che ha saputo meglio usare la volpe, è meglio successo. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore; e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà ingannare.
4. Io non voglio degli esempi freschi tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro che ingannare uomini, nè mai pensò ad altro, e trovò soggetto di poterlo fare; e non fu mai uomo che avesse maggiore efficacia in asseverare, e che con maggiori giuramenti affermasse una cosa, e che l’osservasse meno; nondimanco gli succederono sempre gl’inganni, perchè cognosceva bene questa parte del mondo. Ad un Principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è ben necessario parere d’averle. Anzi ardirò di dire questo, che avendole, ed osservandole sempre, sono dannose; e parendo d’averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, religioso, intero, ed essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che bisognando, tu possa e sappi mutare il contrario. E hassi ad intendere questo, che un Principe, e massime un Principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose, per le quali gli uomini sono tenuti buoni, essendo spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla umanità, contro alla carità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia un animo disposto a volgersi secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato.

5. Deve adunque avere un Principe gran cura, che non gli esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere d’avere, che quest’ultima qualità; perchè gli uomini in universale giudicano più agli occhi che alle mani, perchè tocca a vedere a ciascuno, a sentire a’ pochi. Ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei, e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione de’ molti, che abbiano la maesta dello stato che gli difende; e nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ Principi, dove non è giudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci adunque un Principe conto di vincere e mantenere lo Stato; i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati; perchè il vulgo ne va sempre preso con quello che pare, e con l’evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo; e gli pochi hanno luogo, quando gli assai non hanno dove appoggiarsi. Alcuno Principe di questi tempi, il quale non è bene nominare, non predica mai altro, che pace e fede; e l’una e l’altra, quando e’ l’avesse osservata, gli arebbe più volte tolto lo Stato, e la riputazione.

CAPITOLO XXV. Quanto possa nelle umane cose la fortuna, e in che modo se gli possa ostare.
Il Principe si conclude con due famosi capitoli, il XXV e il XXVI : nel primo Machiavelli discute della fortuna, nel secondo rivolge un’appassionata esortazione a Lorenzo de’ Medici perché crei un nuovo grande stato in Italia e la liberi dai barbari. Nel capitolo XXV Machiavelli discorre di « quanto possa la fortuna nelle cose umane e in che modo le si debba resistere ». Machiavelli sa che molti ritengono che la fortuna, intesa sia come sorte, caso, che come divina provvidenza, abbia pieno potere sulle vicende umane e per questo molti credono che non sia necessario « insudare molto nelle cose », cioè sforzarsi, impegnarsi nella vita. Questa opinione è molto diffusa nei tempi presenti per la continua variazione delle cose, che sembra escludere l’intervento umano. Machiavelli però afferma che, a suo giudizio, la fortuna sia padrona della metà delle azioni degli uomini, l’altra metà è nelle mani degli uomini. Per spiegare questo concetto viene utilizzata una similitudine. La fortuna è come un fiume in piena che quando straripa travolge e distrugge ogni cosa. Ciò non toglie però che, quando il fiume è quieto, gli uomini possano costruire ripari e argini, che limitino o impediscano i danni della piena del fiume. Fuori di metafora se il fiume è la fortuna, i ripari e gli argini sono le azioni degli uomini che possono regolare la fortuna, ovvero i ripari e gli argini sono la virtù che può resistere alla violenza della fortuna. L’Italia dei tempi di Machiavelli è « una campagna senza argini e senza alcuno riparo » e per questo, a differenza di ciò che avviene in Germania, Francia e Spagna, la fortuna esercita in Italia la sua potenza senza che alcuna virtù la ripari e protegga.  Machiavelli non si dilunga sull’analisi dei mali dell’Italia, sui quali si è soffermato nel capitolo precedente “Per qual cagione li principi di Italia hanno perso li Stati loro”, cap.XXIV. Nella restante parte del capitolo XXV Machiavelli passa in esame un aspetto particolare del rapporto tra Fortuna e azioni umane. Come mai, si chiede l’autore, un principe fortunato improvvisamente rovina e perde la sua fortuna. Semplice risponde Machiavelli se il principe ha fatto conto solo sulla fortuna, come questa varia, egli rovina. Il ragionamento di Machiavelli si fa più sottile e analitico. Perchè un principe abbia successo e vinca è necessario che il suo modo di agire sia in sintonia con i tempi, finché dura questa sintonia dura il successo, quando questa termina il principe cade. Ci sono principi con comportamenti molto diversi tra di loro che hanno successo. Per esempio un principe circospetto e prudente ha fortuna quando i tempi richiedono cautela e prudenza, mentre uno impetuoso e violento quando si richiede impeto e forza. Ma quando i tempi cambiano e richiedono virtù diverse da quelle avute fino ad allora, né il principe prudente né quello impetuoso è in grado di adattarsi ai nuovi tempi e così entrambi cadono. Infatti, dice Machiavelli, è difficile che un uomo di successo, muti il proprio modo di agire, tanto più quando questo gli ha, fino ad allora, garantito successo e fortuna. Il capitolo si conclude con una famosa metafora. Machiavelli dice che è meglio essere impetuosi che prudenti « perché la Fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. (…) E perciò, come donna è amica dei giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano. »

1. Non mi è incognito, come molti hanno avuto e hanno opinione, che le cose del mondo siano in modo governate dalla fortuna, e da Dio, che gli uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino rimedio alcuno; e per questo potrebbono giudicare che non fusse da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per la variazione delle cose grandi che si sono viste, e veggonsi ogni dì fuori di ogni umana coniettura. A che pensando io qualche volta, sono in qualche parte inchinato nella opinione loro.
2. Nondimanco, perchè il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l’altra metà, o poco meno, a noi. Ed assomiglio quella ad uno di questi fiumi rovinosi, che quando s’adirano, allagano i piani, rovinano gli arbori e gli edifici, lievano da questa parte terreno, pongono da quell’altra; ciascuno gli fugge davanti, ognuno cede al suo furore, senza potervi ostare; e benchè sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi possino fare provvedimenti e con ripari, e con argini, immodochè crescendo poi, o egli andrebbano per un canale, o l’impeto loro non sarebbe sì licenzioso, nè sì dannoso.
3. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resistere, e quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini, nè i ripari a tenerla. E se voi considererete l’Italia, che è la sede di queste variazioni, e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini, e senza alcun riparo. Che se la fusse riparata da conveniente virtù, come è la Magna, la Spagna, e la Francia, questa inondazione non avrebbe fatto le variazioni grandi che l’ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti aver detto quanto all’opporsi alla fortuna in universale.
4. Ma restringendomi più al particulare, dico, come si vede oggi questo Principe felicitare, e domani rovinare, senza vederli aver mutato natura o qualità alcuna. Il che credo nasca prima dalle cagioni che si sono lungamente per lo addietro trascorse; cioè, che quel Principe che si appoggia tutto in sulla fortuna, rovina come quella varia. Credo ancora, che sia felice quello, il modo del cui procedere suo si riscontra con la qualità de’ tempi, e similmente sia infelice quello, dal cui procedere si discordano i tempi.
5. Perchè si vede gli uomini nelle cose che gl’inducono al fine, quale ciascuno ha innanzi, cioè gloria e ricchezze, procedervi variamente, l’uno con rispetto, l’altro con impeto; l’uno per violenza, l’altro per arte; l’uno con pazienza, l’altro col suo contrario; e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. E vedesi ancora due respettivi, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no; e similmente due equalmente felicitare con due diversi studi, essendo l’uno respettivo, l’altro impetuoso; il che non nasce da altro, se non da qualità di tempi che si conformino o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto che due, diversamente operando, sortiscano il medesimo effetto; e due equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine, l’altro no.

6. Da questo ancora dipende la variazione del bene; perchè se a uno, che si governa con rispetto e pazienza, i tempi e le cose girano in modo che il governo suo sia buono, esso viene felicitando; ma se li tempi e le cose si mutano, egli rovina, perchè non muta modo di procedere. Nè si trova uomo sì prudente, che si sappi accordare a questo, sì perchè non si può deviare da quello, a che la natura l’inclina; sì ancora perchè avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere, che sia bene partirsi da quella; e però l’uomo rispettivo, quando gli è tempo di venire all’impeto non lo sa fare; donde egli rovina; che se si mutasse natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna.
7. Papa Iulio II procedette in ogni sua cosa impetuosamente, e trovò tanto i tempi e le cose conformi a quel suo modo di procedere, che sempre sortì felice fine. Considerate la prima impresa che fece di Bologna, vivendo ancora Messer Giovanni Bentivogli. I Viniziani non se ne contentavano, il Re di Spagna similmente con Francia aveva ragionamento di tale impresa; e lui nondimanco con la sua ferocità ed impeto si mosse personalmente a quella espedizione, la qual mossa fece star sospesi e fermi e Spagna, e i Viniziani; quelli per paura, quell’altro per il desiderio di ricuperare tutto il Regno di Napoli; e dall’altra parte si tirò dietro il Re di Francia, perchè vedutolo quel Re mosso, e desiderando farselo amico per abbassare i Viniziani, giudicò non poterli negare le sue genti senza ingiuriarlo manifestamente.

8. Condusse adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro Pontefice con tutta l’umana prudenza non avria condutto; perchè se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusione ferme, e tutte le cose ordinate, come qualunque altro Pontefice arebbe fatto, mai non gli riusciva. Perchè il Re di Francia avria trovate mille scuse, e gli altri gli arebbero messo mille paure. Io voglio lasciare stare le altre sue azioni, che tutte sono state simili, e tutte gli sono successe bene, e la brevità della vita non gli ha lasciato sentire il contrario; perchè se fussero sopravvenuti tempi che fosse bisognato procedere con rispetti, ne seguiva la sua rovina; perchè mai non arebbe deviato da quelli modi, a’ quali la natura lo inchinava.
9. Conchiudo adunque, che, variando la fortuna, e gli uomini stando nei loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e come discordano sono infelici. Io giudico ben questo, che sia meglio essere impetuoso, che rispettivo, perchè la Fortuna è donna; ed è necessario, volendola tener sotto, batterla, ed urtarla; e si vede che la si lascia più vincere da questi che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perchè sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano.

CAPITOLO XXVI. Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani de’ barbari.
Al giovane Lorenzo de’ Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico, Machiavelli rivolge nell’ultimo capitolo del Principe, l’ « Esortazione a pigliare l’Italia e liberarla dalle mani dei barbari ».
L’Italia è più schiava degli Ebrei, più serva dei Persiani, più dispersa degli Ateniesi, i popoli a cui Machiavelli aveva fatto riferimento nel capitolo VI, in aiuto dei quali erano andati Mosè, Ciro e Teseo. Ora l’Italia è « senza capo, senza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa » e ha sopportato ogni sorta di rovina. In questo stato l ‘Italia aspetta un salvatore, un principe che la guarisca e ponga fine alle sue disgrazie. Nessun principe meglio di Lorenzo della illustre casa dei Medici, può con la fortuna e virtù di questa, adempiere a questo compito, che non sarà difficile se prenderà come modelli i soprannominati re e principi. L’Italia è pronta : « Qui è virtù grande nelle membra quando la non mancassi ne’ capi ». Gli Italiani sono superiori per forza, ingegno e destrezza quando combattono da soli, gli eserciti italiani risultano invece perdenti, ma la debolezza degli eserciti italiani dipende dai capi. È dunque necessario che il nuovo principe provveda a creare un esercito proprio, forte e fidato con cui difendersi dai nemici esterni e non esiti a proporsi come salvatore, ogni italiano lo sosterrà, nessuno negherà il suo sostegno perché « a ognuno puzza questo barbaro dominio ». Alla fine del capitolo Machiavelli pone quattro famosi versi della canzone  Ai signori d’Italia di Petrarca.

1. Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare un Principe nuovo, e se ci era materia che desse occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi nuova forma, che facesse onore a lui, e bene alla università degli uomini di quella, mi pare concorrino tante cose in beneficio d’un Principe nuovo, che non so qual mai tempo fusse più atto a questo. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il popolo d’Istrael fusse schiavo in Egitto, ed a conoscere la grandezza e l’animo di Ciro, che i Persi fussero oppressi da’ Medi, e ad illustrare l’eccellenza di Teseo, che gli Ateniesi fussero dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito Italiano, era necessario che l’Italia si conducesse ne’ termini presenti, e che la fusse più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi, senza capo, senz’ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, ed avesse sopportato di ogni sorta rovine.
2. E benchè infino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno da poter giudicare che fusse ordinato da Dio per sua redenzione; nientedimanco si è visto come dipoi nel più alto corso delle azioni è stato dalla fortuna reprobato in modo, che, rimasa come senza vita, aspetta qual possa esser quello che sani le sue ferite, e ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio che gli mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà ed insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, purchè ci sia alcuno che la pigli.
3. Nè si vede al presente in quale la possa più sperare che nella illustre Casa Vostra, la quale con la sua virtù e fortuna, favorita da Dio e dalla Chiesa, della quale è ora Principe, possa farsi capo di questa redenzione. E questo non vi sarà molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vite de’ soprannominati. E benchè quelli uomini siano rari e maravigliosi; nondimeno furono uomini, ed ebbe ciascuno di loro minore occasione, che la presente; perchè l’impresa loro non fu più giusta di questa, nè più facile; nè fu Dio più a loro amico, che a voi. Qui è giustizia grande, perchè quella guerra è giusta, che gli è necessaria; e quelle armi sono pietose, dove non si spera in altro, che in elle. Qui è disposizione grandissima; nè può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà; purchè quella pigli delli ordini di coloro che io vi ho proposto per mira. Oltre a questo, qui si veggono straordinari senza esempio, condutti da Dio: il mare s’è aperto, una nube vi ha scorto il cammino, la pietra ha versato l’acqua; qui è piovuto la manna, ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza; il rimanente dovete far voi. Dio non vuole far ogni cosa, per non ci torre il libero arbitrio, e parte di quella gloria che tocca a noi.
4. E non è maraviglia, se alcuno de’ prenominati Italiani non ha possuto far quello che si può sperare facci la illustre Casa Vostra, e se in tante revoluzioni d’Italia, e in tanti maneggi di guerra, e’ pare sempre che in quella la virtù militare sia spenta; perchè questo nasce che gli ordini antichi di quella non erano buoni, e non ci è suto alcuno che abbia saputo trovare de’ nuovi. Nessuna cosa fa tanto onore ad uno uomo che di nuovo surga, quanto fanno le nuove leggi e nuovi ordini trovati da lui. Queste cose quando sono ben fondate, ed abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabile, e in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma. Qui è virtù grande nelle membra, quando ella non mancasse ne’ capi. Specchiatevi nelli duelli, e nei congressi de’ pochi, quanto gl’Italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con l’ingegno. Ma come si viene agli eserciti, non compariscono; e tutto procede dalla debolezza de’ capi (…).

5. Volendo dunque la illustre Casa Vostra seguitare quelli eccellenti uomini, che redimerono le provincie loro, è necessario innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento d’ogni impresa, provvedersi d’armi proprie; perchè non si può avere nè più fidi, nè più veri, nè migliori soldati. E benchè ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori, quando si vedranno comandare dal loro Principe, e da quello onorare ed intrattenere. È necessario pertanto prepararsi a queste armi, per potersi con virtù Italiana difendere dagli esterni.
6. (…)
7. Non si deve adunque lasciar passare questa occasione, acciocchè la Italia vegga dopo tanto tempo apparire un suo redentore. Nè posso esprimere con quale amore ei fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne, con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli serrerebbono? Quali popoli li negherebbono la obbidienza? Quale invidia se gli opporrebbe? Quale Italiano gli negherebbe l’ossequio? Ad ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre Casa Vostra questo assunto con quello animo, e con quelle speranze che si pigliano l’imprese giuste, acciocchè sotto la sua insegna questa patria ne sia nobilitata, e sotto i suoi auspicii si verifichi quel detto del Petrarca:
Virtù contro al furore

Prenderà l’armi, e fia il combatter corto;
Chè l’antico valore
Negli Italici cuor non è ancor morto.

Ascolta in podcast gli incontri dedicati al Principe di Machiavelli (Maurizio Viroli, Massimo Cacciari, Remo Bodei e altri) radio3 Il Principe

Un pensiero su “Il Principe di Niccolò Machiavelli

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    Rispondi alle domande: leggi con attenzione i capitoli, formula le risposte e scrivile, quando ti sembra opportuno utilizza le frasi di Machiavelli dopo aver eseguito la parafrasi con l’aiuto del vocabolario.

    Capitolo I
    1. Quanti sono i principati e come si acquistano?
    Capitolo VII
    2. Come diventano principi coloro che diventano principi per fortuna?
    3. Perché M. dice che quelli che sono diventati principi per fortuna non sanno e non possono restare principi?
    4. Qual è la condizione che permette a chi è divenuto principe grazie alla fortuna di restare principe? Chi sono i due principi ricordati da M.?
    5. Qual è la differenza tra i due? A chi Cesare Borgia è proposto come modello?
    6. Elenca tutto quello che un principe può imparare da Cesare Borgia.

    Capitolo XV
    Primo paragrafo
    1. Qual è l’argomento del cap. XV
    2. Qual è lo scopo di M.. Come pensa di raggiungere questo scopo
    3. Perché M. afferma che un uomo che vuole comportarsi sempre bene va incontro alla propria rovina
    4. Come conclude M. il paragrafo 1 del XV capitolo
    5. Qual è la convinzione che conduce M. a concludere in questo modo. Come definiresti questa convinzione
    Secondo paragrafo
    6. Compila l’elenco delle qualità che meritano lode e di quelle che meritano riprovazione riportate nel paragrafo da M., quando non conosci il significato dei termini, cercalo e scrivilo accanto alla parola di cui non conosci il significato.
    Terzo paragrafo
    7. Perché M. afferma che un principe non può possedere tutte le qualità buone elencate prima
    8. M. che cosa suggerisce di fare al principe riguardo ai vizi che ha elencato prima
    9. Con quale criterio il principe deve considerare ciò che è virtù e ciò che è vizio, riporta le parole di M. che portano a questa deduzione.

    Capitolo XVIII
    Primo paragrafo
    1. Che cosa afferma M. a proposito dei principi che non hanno tenuto conto della lealtà e che hanno ingannato gli uomini
    Secondo paragrafo
    2. M. afferma che ci sono due modi di combattere, quali sono e a chi appartengono
    3. M. che cosa consiglia al principe
    Terzo paragrafo
    4. Quali bestie deve prendere come propri modelli il principe e perché
    5. Perchè un principe non deve “osservare la fede”
    6. Come deve essere il principe che inganna
    Quarto paragrafo
    7. Chi sceglie M. come esempio di principe ingannatore
    8. M. che cosa suggerisce al principe riguardo alle virtù e ai vizi che ha elencato nel capitolo XV
    9. Quale deve essere il principio guida del principe nel decidere come comportarsi. Riporta e spiega la frase con cui M. sintentizza il suo consiglio al principe
    Quinto paragrafo
    10. Perché il principe non deve preoccuparsi dei pochi che si accorgono di come effettivamente egli è
    11. E’ dalla parte finale di questo capitolo che è stata estrapolata la formula “il fine giustifica i mezzi”, prova a trovare la frase di M. da cui è stata estrapolata, riscrivila spiegandola.

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