Satira I di Ariosto

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Le sette satire di Ariosto, scritte tra il 1517 e il 1525, sono componimenti in terzine di endecasillabi. Nelle satire Ariosto racconta casi della propria vita e confida le proprie riflessioni ad amici e parenti. Il modello di Ariosto sono le satire di Orazio, poeta latino vissuto al tempo di Augusto.
Nella prima satira, indirizzata a un fratello e a un amico, Ariosto chiede se alla corte di Ippolito ad Agria in Ungheria, qualcuno ancora si ricorda di lui oppure se tutti lo accusano di non avere seguito il cardinale, non ci sarebbe da stupirsi dato che è difficile trovare qualcuno che ha il coraggio di contraddire il signore, anche se questi dice che di giorno ci sono le stelle e di notte il sole, del resto a corte la materia più studiata è l’adulazione. Il poeta racconta perché  non è partito per seguire il cardinale. Motivi di salute gli hanno impedito di lasciare Ferrara; in Ungheria fa freddo, il vino che si è obbligati a bere è fumoso e il cibo è troppo piccante. Certo potrebbe farsi cucinare a parte, ma il cuoco a lungo andare si stuferebbe, e lui  non ha soldi a sufficienza per comprare il cibo e farselo cucinare. Il cardinale non lo ha certo pagato per la sua poesia e l’opera a lui dedicata, il poema Orlando Furioso, non vale nulla, il cardinale gliel’ha detto chiaramente di “mandarla a quel paese”; l’unica cosa che importa al cardinale è che lo si serva a casa e in viaggio. Ma Ariosto piuttosto che divenire servo preferisce essere povero “ditegli che più tosto ch’esser servo torrò la povertade in pazïenza” (vv.245-246). La libertà ha un prezzo, ma il poeta non fa fatica a pagarlo, è un uomo che si accontenta di poco e non vuole perdere la sua quiete e lo studio, che non gli dà ricchezza, ma gli nutre la mente e lo rende libero. La favoletta che chiude la satira racconta di un asino che, entrato da un buco del muro in una stanza piena di grano e mangiatolo tutto, non riesce più a uscire perché ha la pancia troppo grossa, e un topolino gli dice che l’unico modo per uscire  è di vomitare tutto e ritornare magro come prima. E proprio questo Ariosto è determinato a fare: restituire al cardinale tutto ciò che gli è stato donato pur di conservare la propria libertà.

A Messer Alessandro Ariosto et a Messer Ludovico da Bagno.
Io desidero intendere da voi,
Alessandro fratel, compar mio Bagno,
s’in corte è ricordanza più di noi;

se più il signor me accusa; se compagno
5  per me si lieva e dice la cagione
per che, partendo gli altri, io qui rimagno;

o, tutti dotti ne la adulazione
(l’arte che più tra noi si studia e cole),
l’aiutate a biasmarme oltra ragione.

10 Pazzo chi al suo signor contradir vole,
se ben dicesse c’ha veduto il giorno
pieno di stelle e a mezzanotte il sole.

O ch’egli lodi, o voglia altrui far scorno,
di varie voci subito un concento
15 s’ode accordar di quanti n’ha dintorno;

e chi non ha per umiltà ardimento
la bocca aprir, con tutto il viso applaude
e par che voglia dir: «anch’io consento».

Ma se in altro biasmarme, almen dar laude
20 dovete che, volendo io rimanere,
lo dissi a viso aperto e non con fraude.

Dissi molte ragioni, e tutte vere,
de le quali per sé sola ciascuna
esser mi dovea degna di tenere.

25 Prima la vita, a cui poche o nessuna
cosa ho da preferir, che far più breve
non voglio che ’l ciel voglia o la Fortuna.

Ogni alterazione, ancor che leve,
ch’avesse il mal ch’io sento, o ne morei,
30 o il Valentino e il Postumo errar deve.

Oltra che ’l dicano essi, io meglio i miei
casi de ogni altro intendo; e quai compensi
mi siano utili so, so quai son rei.

So mia natura come mal conviensi
35 co’ freddi verni; e costà sotto il polo
gli avete voi più che in Italia intensi.

E non mi nocerebbe il freddo solo;
ma il caldo de le stuffe, c’ho sì infesto,
che più che da la peste me gli involo.

40 Né il verno altrove s’abita in cotesto
paese: vi si mangia, giuoca e bee,
e vi si dorme e vi si fa anco il resto.

Che quindi vien, come sorbir si dee
l’aria che tien sempre in travaglio il fiato
45  de le montagne prossime Rifee?

Dal vapor che, dal stomaco elevato,
fa catarro alla testa e cala al petto,
mi rimarei una notte soffocato.

E il vin fumoso, a me vie più interdetto
50  che ’l tòsco, costì a inviti si tracanna,
e sacrilegio è non ber molto e schietto.

Tutti li cibi sono con pepe e canna
di amomo e d’altri aròmati, che tutti
come nocivi il medico mi danna.
(…)
Se separatamente cucinarme
vorà mastro Pasino una o due volte,
quattro e sei mi farà il viso da l’arme.

(…)

85  Io, per la mala servitude mia,
non ho dal Cardinale ancora tanto
ch’io possa fare in corte l’osteria.

Apollo, tua mercé, tua mercé, santo
collegio de le Muse, io non possiedo
90  tanto per voi, ch’io possa farmi un manto.

«Oh! il signor t’ha dato…» io ve ’l conciedo,
tanto che fatto m’ho più d’un mantello;
ma che m’abbia per voi dato non credo.

Egli l’ha detto: io dirlo a questo e a quello
95  voglio anco, e i versi miei posso a mia posta
mandare al Culiseo per lo sugello.

Non vuol che laude sua da me composta
per opra degna di mercé si pona;
di mercé degno è l’ir correndo in posta.

(…)

160  più tosto che arricchir, voglio quïete:
più tosto che occuparmi in altra cura,
sì che inondar lasci il mio studio a Lete.

Il qual, se al corpo non può dar pastura,
lo dà alla mente con sì nobil ésca,
165  che merta di non star senza cultura.

Fa che la povertà meno m’incresca,
e fa che la ricchezza sì non ami
che di mia libertà per suo amor esca;

quel ch’io non spero aver, fa ch’io non brami,
170  che né sdegno né invidia me consumi
perché Marone o Celio il signor chiami;

ch’io non aspetto a mezza estade i lumi
per esser col signor veduto a cena,
ch’io non lascio accecarmi in questi fumi;

175  ch’io vado solo e a piedi ove mi mena
il mio bisogno, e quando io vo a cavallo,
le bisaccie gli attacco su la schiena.

(…)

245  ditegli che più tosto ch’esser servo
torrò la povertade in pazïenza.

Uno asino fu già, ch’ogni osso e nervo
mostrava di magrezza, e entrò, pel rotto
del muro, ove di grano era uno acervo;

250  e tanto ne mangiò, che l’epa sotto
si fece più d’una gran botte grossa
fin che fu sazio, e non però di botto.

Temendo poi che gli sien péste l’ossa,
si sforza di tornar dove entrato era,
255  ma par che ’l buco più capir nol possa.

Mentre s’affanna, e uscire indarno spera,
gli disse un topolino: «Se vuoi quinci
uscir, tràtti; compar, quella panciera:

a vomitar bisogna che cominci
260  ciò c’hai nel corpo, e che ritorni macro,
altrimenti quel buco mai non vinci».

Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro
Cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo et acro

265 renderli, e tòr la libertà mia prima.

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