Poesie di Umberto Saba: Città vecchia, Quando nacqui, Mio padre, Il carretto del gelato, Goal, Neve, Fratellanza

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Città vecchia in Trieste e una donna
Nel 1909 terminata la leva militare Saba si sposa, l’anno successivo nasce la figlia Linuccia. Nel 1912 pubblica Coi miei occhi. Il mio secondo libro di versi, poi intitolato Trieste e una donna, che raccoglie le poesie scritte tra il 1910 e il 1912, dedicate alla città natale e alla moglie. Elio Gioanola, citando Jung “La città è un simbolo materno, che custodisce in sé gli abitanti come figli”, sostiene che per Saba Trieste è simbolo materno, “tanto più che dentro l’agglomerato urbano, aperto ad un’umanità multietnica e multilingue, era racchiuso l’antico cuore di Cittavecchia, inglobante a sua volta il vecchio ghetto”. Come simbolo materno Trieste è investita delle pulsioni ambivalenti dirette verso la madre reale e le altre donne che ne prendono il posto, prima tra tutte la moglie Lina. Per questo la città “accoglie ed esclude, (..) è terapeutica e nevrotizzante, sede elettiva della “calda vita” e dell’inabilitazione a vivere, casa e gabbia nello stesso tempo.” (Elio Gioanola, Saba: La “madre” e l’ombra di Oreste in Psicanalisi e interpretazione letteraria, Jaca Book, 2005 pp. 197-226)

Città vecchia è una poesia inattuale e controcorrente, in cui friggitore rima con amore, dolore e Signore, sono le “trite parole che non uno osava” e che Saba ama.
Per tornare a casa il poeta attraversa la città vecchia. La via è oscura, affollata di gente, uomini che tornano a casa o si rifugiano in un bordello; prostitute e marinai, vecchi che bestemmiano, donne che litigano, soldati sfaccendati, giovinette in preda all’amore, un mondo irriconoscibile, scomparso ormai da parecchi anni e che si fa fatica a credere che sia esistito. In mezzo a loro il poeta si mescola, si ritrova, si riconosce.

Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,1
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio

che bestemmia, la femmina che bega,2
il dragone 3 che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.

1bordello
2litiga
3soldato

Sonetto 2 in Autobiografia
Autobiografia raccoglie quindici sonetti, scritti in pochi giorni nell’ottobre 1922. Saba narra la sua vita dalla nascita agli anni in cui scrive, quando, dopo il matrimonio e gli anni passati a Bologna e a Milano, tornato a Trieste, ha pubblicato la prima edizione del Canzoniere e acquistato la libreria antiquaria dove trascorre il suo tempo e si guadagna da vivere. Dopo un primo sonetto proemiale di presentazione del poeta, i sonetti due e tre sono dedicati alla madre e al padre.

Nel sonetto Quando nacqui mia madre ne piangeva Saba ricorda la madre che piange per la sua nascita, sola, di notte, nel letto abbandonato. Per lei e il figlio appena nato i parenti trafficano nel ghetto, la madre e i suoi parenti  sono ebrei. Fuori di casa, quando usciva con la madre, la città era bella, verde, un grande mercato all’aria aperta, il poeta, come in sogno, la vede ancora. Ma non c’era felicità in quelle passeggiate, la madre gli diceva che era un figlio senza padre. La madre è stata la causa della nevrosi di Saba, gli ha negato l’amore, gli ha insegnato che la vita è dolore, non gli ha permesso di amare il padre, verso di lei Saba nutre sentimenti di odio e sensi di colpa. 

Quando nacqui mia madre ne piangeva,
sola, la notte, nel deserto letto.
Per me, per lei che il dolore struggeva,
trafficavano i suoi cari nel ghetto.

Da sé il più vecchio le spese faceva,
per risparmio, e più forse per diletto.
Con due fiorini un cappone metteva
nel suo grande turchino fazzoletto.

Come bella doveva essere allora
la mia città: tutta un mercato aperto!
Di molto verde, uscendo con mia madre

io, come in sogno, mi ricordo ancora.
Ma di malinconia fui tosto esperto;
unico figlio che ha lontano il padre.

Sonetto 3 in Autobiografia
Il padre è l’ ”assassino”, quello a cui il figlio non deve somigliare. Quando a vent’anni lo incontra gli sembra un bambino e lo vede simile a lui, gli stessi occhi azzurri, il sorriso dolce e furbo insieme. E’ stato un giramondo, con molte donne che l’hanno amato e nutrito, allegro e leggero, come un pallone, il contrario della madre per cui la vita è sempre stata pesante.

Mio padre è stato per me “l’assassino”;
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.

Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

“Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”:
ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.

Il carretto del gelato in Il piccolo Berto
Il carretto del gelato fa parte di Il piccolo Berto la raccolta scritta tra il 1929 e il 1931 dedicata a Edoardo Weiss, lo psicanalista che ebbe in cura Saba nel 1929. La cura fu interrotta dal trasferimento del dottore a Roma e non lo guarì dalla depressione di cui soffriva, ma gli consentì di conoscere la psicanalisi e di utilizzare le idee freudiane nella creazione della rappresentazione del suo mondo interiore.

Ne Il carretto del gelato dall’infanzia riaffiora un’immagine: nel cortile arriva un carretto del gelato dipinto di bianco e rosso, un bambino lo vede dall’alto della finestra della camera in cui si trova con la madre. Prima ancora che il bambino abbia espresso il suo desiderio la madre gli dice che se lui quel giorno avesse fatto il suo dovere ora lei gli avrebbe potuto dire “vai a comprare il gelato, a divertirti con gli altri”; il bambino non risponde, non si giustifica, gli sembra di cadere giù dalla finestra lungo il muro della casa e mentre precipita pensa al dolore che la madre proverà per lui trovato morto laggiù. A un tratto si ritrova in piedi, lì vicino alla finestra da cui non si è mai allontanato, è felice per la mamma che non ha avuto il terribile dolore che si era immaginato. Come è buono il bambino, o piuttosto è un piccolo mostro crudele capace di vendicarsi abilmente?
La repressione del principio di piacere provoca odio, aggressività, immaginando di uccidersi il bambino soddisfa il proprio desiderio di punire la madre cattiva che gli impedisce la felicità, “Uccidersi per (non) uccidere”  (E.Gioanola,op.cit. p.213)  . La madre è stata la causa della nevrosi di Saba, gli ha negato l’amore, gli ha insegnato che la vita è dolore, non gli ha permesso di amare il padre. Saba nutre nei suoi confronti sentimenti di odio e sensi di colpa, è stato costretto a essere, al posto della vera madre, la madre di se stesso, non ha potuto amare come avrebbe voluto, questa è la nevrosi di Saba, quella senza la quale la sua poesia non sarebbe esistita “Una tragedia infantile adorabile mi si va disegnando” .

Una tragedia infantile adorabile
mi si va disegnando.

Ecco il cortile: nel cortile in bianco
dipinto e in rosso un carretto. Bambini
gli fanno ressa d’intorno: montato 5
uno è sul mozzo della ruota. Io guardo
dalla finestra: l’occhialino al punto
stesso ha rivolto anche mia madre. «Vedi
– mi dice – se tu fossi oggi restato,
non dico molto (due ore) a studiare, 10
beata adesso io ti direi: Va’, e prenditi
come gli altri uno svago». Io non rispondo;
né pur le dico: Ma è vacanza. Sento
che a capo in giú cado dalla finestra,
giú lungo il muro della casa. E penso, 15
cosí precipitando: Oh che dolore
avrà mia madre! Quando sarò giunto
al basso, e morto sarò là trovato!
Quanto per me dovrà piangere! E lieto
non fui per me, ma per lei, come in piedi 20
rinvenni, a un tratto, alla finestra.
Un buono
tra i buoni? Un figlio generoso verso
la sua colpevole madre? O tra i piccoli
mostri, un mostro crudele? La vendetta
in sé trovare, cosí atroce ed abile! 25

Una tragedia infantile adorabile
mi si va disegnando.

Goal e Neve in Parole
Goal è la quinta di Cinque poesie per il gioco del calcio in Parole una piccola raccolta del 1933-34. Diciotto versi endecasillabi, scritti con il lessico alto dell’antica tradizione lirica italiana e ricorrenti iperbati e inversioni, dedicati al momento culminante del gioco del calcio. Da una parte in lacrime il portiere che ha subito il goal, dall’altra in festa quello della squadra che ha segnato, tutti gli altri intorno al vincitore. Al centro della poesia la parola fratelli che rima con belli, i pochi momenti come questi riservati agli uomini, che sono definiti con una  perifrasi “quanti l’odio consuma e l’amore”.

Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla – unita ebrezza – par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere
– l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.

Sempre in Parole Neve, una fantasia distopica, un mondo sepolto dalla neve, tutto è ghiaccio, la terra spenta, morta, due amanti si risvegliano dopo un tempo non calcolabile, ricordi, nostalgie e l’amore che continua.

Neve che turbini in alto ed avvolgi
le cose in un tacito manto,
una creatura di pianto
vedo per te sorridere; un baleno
d’allegrezza che il mesto viso illumini,
e agli occhi miei come un tesoro scopri.

Neve che cadi dall’alto e noi copri,
coprici ancora, all’infinito. Imbianca
la città con le case e con le chiese,
il porto con le navi; le distese
dei prati, i mari agghiaccia; della terra
fa’ – tu augusta e pudica – un astro spento,
una gran pace di morte. E che tale
essa rimanga un tempo indeterminato,
un lungo volger d’evi.
                                           Il risveglio,
pensa il risveglio, noi due soli, in tanto
squallore.
                                               In cielo
gli angeli con le trombe, in cuore acute
dilaceranti nostalgie, ridesti
vaghi ricordi, e piangere d’amore.

 

Fratellanza In Quasi un racconto
Quasi un racconto è il penultimo libro di poesie di Umberto Saba, scritto nel 1951, quando per la seconda volta aveva già pensato, senza che ciò avvenisse, di non scrivere più. Fratellanza chiude la raccolta. Gli uccelli sono nell’immaginario sabiano animali totem, amuleti intorno ai quali si ricostruisce per magia lo spazio del desiderio, dell’amore, della felicità, per il poeta bambino e, come in questa poesia, per tutti gli uomini.

Ho fatto un sogno, e all’alba lo ritrovo.
Parlavano gli uccelli, o in un uccello
m’ero, io uomo, mutato. Dicevano:
NOI DI BECCO GENTILE AMIAMO I FRUTTI
SAPORITI DEGLI ORTI. E SIAMO TUTTI
NATI DA UN UOVO.

Proprio il sogno d’un bimbo e d’un uccello.