L’esclusa di Luigi Pirandello

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Composto nel 1893 e pubblicato nel 1901 L’esclusa è il primo romanzo di Pirandello. Racconta la storia di Marta Ayala e delle famiglie sua e del marito Rocco Pentàgora. Il romanzo ha inizio con il ritorno alle rispettive case di marito e moglie, dopo che Rocco ha scoperto Marta con la lettera di un uomo, Gregorio Alvignani, che si è invaghito, lui uomo già maturo, della giovane e bella donna. Per il marito la lettera è la prova inconfutabile del suo tradimento e non può che cacciare la moglie di casa. Marta torna a casa, la madre e la sorella Maria, la accolgono senza sospettare della sua innocenza, mentre il padre per il disonore e la vergogna si rinchiude nella propria camera. Rocco dopo avere sfidato a duello l’Alvignani, torna alla casa maritale con una prostituta che conduce in carrozza in giro per il paese con indosso i vestiti della moglie. Marta ha un parto difficile, il neonato muore e lei rimane per circa tre mesi tra la vita e la morte; durante il parto il padre ha un attacco apoplettico e muore.  La conceria del padre, affidata a un nipote, fallisce, la casa viene ipotecata e le tre donne vanno a vivere in una casetta in affitto. Dopo la convalescenza “per sottrarsi al vaneggiamento in cui ogni suo pensiero, ogni sentimento naufragava, provò se le riusciva di rimettersi allo studio, o almeno a leggere”  Marta riprende a studiare, si è preparata per gli esami di diploma di maestra elementare e le viene promesso il posto di maestra supplente. Il paese le è tutto contro e la accusa di avere ottenuto il posto grazie alla protezione dell’Alvignani, il suo vecchio corteggiatore, ora divenuto deputato. Il marito vede la decisione della moglie come un affronto e propone alle donne di mantenerle a patto che Marta rinunci a fare la maestra. Alla fine il posto non le viene assegnato. Dopo tre mesi però per il trasferimento di una vecchia maestra, Marta ottiene una supplenza, ma le colleghe, le alunne, i genitori, la ostacolano e alla fine è costretta a lasciare. Grazie all’interessamento del direttore e dell’Alvignani le viene assegnato un posto in un collegio di Palermo. Le tre donne si trasferiscono in un piccolo appartamento dietro la cattedrale della città e Marta è finalmente serena, al collegio è bene accolta, con il suo lavoro mantiene la famiglia, “Si ridestava in Marta il lucido e gaio senso che, da bambina, possedeva della vita. Era paga: aveva vinto, sentiva di far bene, e le piaceva di vivere”. Ma presto una sottile tristezza si insinua nel suo animo. Un giorno di pioggia mentre esce di scuola con un collega, un professore di disegno d’una bruttezza mostruosa che si è invaghito di lei, incontra l’ex-marito, venuto a perseguitarla anche lì. Marta arriva a casa abbattuta e sconvolta e sente di nuovo vicina quella vita “di sassi e spine ovunque, per quella via lontana dalla vita”. Il giorno seguente Marta riceve una lettera dell’Alvignani che l’informa di essere a Palermo e di volerla incontrare. La lettera e l’incontro provocano nella donna uno sconvolgimento totale, le sembra che quell’uomo possa salvarla per sempre. Subito al primo incontro lui la conduce nella sua casa, dove la donna si abbandona all’uomo in preda a uno stato angoscioso “Era finita. Dove tutti avevano voluto che arrivasse, era arrivata.” La relazione prosegue per un paio di mesi. Nel frattempo il marito manda un amico a cercare la moglie a Palermo perché ora la rivuole. La donna è incinta, Alvignani la spinge a ritornare dal marito, nella disperazione Marta pensa alla morte. A Palermo giunge intanto il marito richiamato per assistere in punto di morte la madre, che tanti anni prima era stata cacciata dal padre per lo stesso motivo di Marta. I due si ritrovano in preda al tormento e all’angoscia ai piedi del letto della madre morente e Marta al marito, che chiede perdono, confessa la sua colpa e la sua decisione di uccidersi pregandolo di aiutare la madre e la sorella. Dopo averle suggerito di andarsene a Roma con l’amante, il marito, scosso dalla morte della propria madre, abbracciando la donna pieno di paura, pronuncia queste ultime parole “Guarda … guarda mia madre … Perdono, perdono … Rimani qui. Vegliamola insieme …”, così termina il romanzo.

Pirandello nell’introduzione del 1908 al romanzo lo definisce “dal fondo essenzialmente umoristico” in quanto nasconde “sotto la rappresentazione oggettiva dei casi e delle persone” la realtà profonda di un’antitesi tra la “volontà” del personaggio e la “legge odiosa” che lo trascina. Dietro l’apparenza del romanzo passionale, di una storia di onore siciliano di cui ci sono tutti gli ingredienti, il tradimento, il duello, la donna sedotta, prima cacciata e poi abbandonata, sempre la stessa da due uomini diversi, L’esclusa racconta la storia di due famiglie quella di Marta e del marito Rocco. All’inizio quando Marta è cacciata di casa non chiede perdono al marito, ma al padre, è nei suoi confronti che si sente colpevole e il fatto che sia innocente non ha alcuna importanza. Alla fine è di fronte alla madre morente che Rocco riesce a perdonare la moglie e chiederle di tornare con lui. Per Pirandello, anche per diretta esperienza personale, è proprio la famiglia il luogo in cui si realizza la “legge odiosa” che trascina ciascun individuo contro la sua “volontà”. Ne L’esclusa la realtà appare assurda, la protagonista viene cacciata di casa dal marito quando non ha commesso l’adulterio e perdonata quando lo commette. I personaggi, spesso grotteschi e ridicoli fino alla deformità, si dibattono impotenti e privi di scampo, ogni minima ribellione è repressa e sconfitta, solo chi si adatta alla recita senza senso che la vita predispone non ne subisce le conseguenze.

“Antonio Pentàgora s’era già seduto a tavola tranqui llamente per cenare, come se non fosse accaduto nulla. Illuminato dalla lampada che pendeva dal soffitto basso, il suo volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante sulla nuca. Senza giacca, con la camicia floscia celeste, un po’ stinta, aperta sul petto irsuto, e le maniche rimboccate sulle braccia pelose, aspettava che lo servissero. Gli sedeva a destra la sorella Sidora, pallida e aggrottata, con gli occhi acuti adirati e sfuggenti sotto il fazzoletto di seta nera che teneva sempre in capo. A sinistra, il figlio Niccolino, spiritato, con la testa orecchiuta da pipistrello sul collo stralungo , gli occhi tondi tondi e il naso ritto. Dirimpetto era apparecchiato il posto per l’altro figlio, Rocco, che rientrava in casa, quella sera, dopo la disgrazia. Lo avevano aspettato finora, per la cena. Poiché tardava, s’erano messi a tavola. Stavano in silenzio tutt’e tre, nel tetro stanzone, dalle pareti basse, ingiallite, lungo le quali correvano due interminabili file di seggiole quasi tutte scompagne. Dal pavimento un po’ avvallato, di mattoni rosi, spirava un tanfo indefinibile, d’appassito. Finalmente, Rocco apparve sulla soglia, cupo, disfatto. Era uno stangone biondo, di pochi capelli, scuro in viso e con gli occhi biavi, quasi vani e smarriti, che però gli diventavano cattivi quando aggrottava le sopracciglia e stringeva la bocca larga, dalle labbra molli, violacee. Camminando sulle gambe aperte, si dimenava sul busto e seguiva con la testa e con le braccia l’andatura. Ogni tanto aveva un tic alle corde del collo che gli faceva protendere il mento e tirare in giù gli angoli della bocca. – Oh, bravo Roccuccio, eccolo qua! – esclamò il padre fregandosi le grosse mani ruvide, piene d’anelli massicci. Rocco stette un po’ a guardare i tre seduti a tavola , poi si buttò su la prima seggiola presso l’uscio, coi gomiti su le ginocchia, le pugna sotto il mento , il cappello su gli occhi. – Oh, e àlzati! – riprese il Pentàgora. – T’abbiamo aspettato, sai? Non mi credi? Parola d’onore, fino alle dieci… no, più, più… che ora è? Vieni qua: ecco il tuo posto: apparecchiato, qua, come prima. E chiamò, forte: – Signora Popònica! – Epponìna, – corresse Niccolino a bassa voce. – Zitto, bestia, lo so. Voglio chiamarla Popònica, come tua zia. Non è permesso? Rocco, incuriosito, alzò la testa e brontolò: – Chi è Popònica? – Ah! una signora caduta in bassa fortuna, – rispose allegramente il padre. – Vera signora, sai? Da jeri ci fa da serva. Tua zia la protegge. – Romagnola, – aggiunse Niccolino, sommessamente. Rocco ripiegò la testa su le mani; e il padre, soddisfatto, si recò pian piano alle labbra il bicchiere ricolmo; lo scoronò con un sorsellino cauto; poi strizzò un occhio a Niccolino e, facendo schioccare la lingua: – Buono! – disse. – Roccuccio, vino nuovo; fa stringer l’occhio… Assaggia, assaggia, ti rimetterà lo stomaco. Sciocchezze, figlio mio! E tracannò il resto in un fiato. – Non vuoi cenare? – domandò poi. – Non può cenare, – osservò piano Niccolino. Tacquero tutti, badando che le forchette non frugassero nei piatti, come per non offendere il silenzio ch’empiva penosamente lo stanzone. Ed ecco la signor a Popònica, coi capelli color tabacco di Spagna, unti non si sa di qual manteca, gli occhi ammaccati e la bocca grinzosa appuntita, entrare tentennante su le gambette, forbendosi le mani piccole , sconciate dal lavoro, in una giacca smessa del padrone, legata per le maniche intorno alla vita a mo’ di grembiule. La tintura dei capelli, l’aria mesta del volto davano a vedere chiaramente che quella povera signora caduta in bassa fortuna avrebbe forse desiderato qualcosa di più che il disperato amplesso di quelle maniche vuote. Subito Antonio Pentàgora con la mano le fe’ cenno d ‘andar via: non c’era più bisogno di lei, poiché Rocco non voleva cenare. Quella inarcò le ciglia, sbalzandole fin sotto i capelli, distese su gli occhi dolenti le pàlpebre cartilaginose, e andò via, dignitosa, sospirando. – Ricòrdati, oh! che te l’avevo predetto, – uscì a dire finalmente il Pentàgora. Sonò il suo vocione così urtante nel silenzio, che la sorella Sidora, quantunque sempre astratta, balzò da sedere, tolse dalla tavola il piatto dell’insalata, ghermì un tozzo di pane, e scappò via, a finir di cenare in un’altra stanza. Antonio Pentàgora la seguì con gli occhi fino all’uscio, poi guardò Niccolino e si stropicciò il capo con ambo le mani, aprendo le labbra a un ghigno frigido, muto. Ricordava. Tant’anni addietro, anche a lui, di ritorno alla casa paterna dopo il tradimento della moglie, la sorella Sidora, bisbetica fin da ragazza, aveva voluto che non si movesse alcun rimprovero. Zitta zitta, lo aveva condotto nell’antica sua camera da scapolo, come se con ciò avesse voluto dimostrargli che si aspettava di vederselo un giorno o l’altro ricomparire davanti, tradito e pentito. – Te lo avevo predetto! – ripeté, riscotendosi da quel ricordo lontano, con un sospiro. Rocco si alzò, smanioso, esclamando: – Non trovi altro da dirmi? Niccolino allora tirò, sotto sotto, la giacca al padre, come per dirgli: “Stia zitto!”. – No! – gridò forte il Pentàgora su la faccia di Niccolino. – Vieni qua, Roccuccio! Lèvati codesto cappello dagli occhi… Ah, già: la ferita! Lasciami vedere… – Che m’importa della ferita? – gridò Rocco, quasi piangente dalla rabbia, sbertucciando e sbatacchiando il cappello sul pavimento. – Sì, guarda come ti sei conciato… Acqua e aceto, subito: un bagnolo. Rocco minacciò: – Ancora? Me ne vado! – E vàttene! Che vuoi da me? Parla, sfògati! Ti prendo con le buone, e spari calci… Mettiti il cuore in pace, figliuolo mio! La lettera, io dico, avresti potuto raccoglierla con più garbo, senza romperti così la fronte nello sportello dell’armadio. Ma basta: sciocchezze! Denari ne hai quanti ne vuoi; femmine, potrai averne quante ne vorrai. Sciocchezze! SCIOCCHEZZE! era il suo modo d’intercalare e accompagnava ogni volta l’esclamazione con un gesto espressivo della mano e una contrazione della guancia. Si levò di tavola e, recatosi presso il cassettone, su cui stava accoccolato un grosso gatto bigio, trasse una candela; staccò, per dare a vedere ciò che intendeva fare, i gocciolotti dal fusto; poi l’accese e sospirò: – E ora, con l’ajuto di Dio, andiamo a dormire! – Mi lasci così? – esclamò Rocco, esasperato. – E che vuoi che ti faccia? Se parlo ti secchi… Debbo stare qua? Ebbene, stiamo qua… Soffiò su la candela e sedé su una seggiola presso il canterano. Il gatto gli saltò sulle spalle. Rocco passeggiava per lo stanzone, mordendosi a quando a quando le mani o facendo con le pugna serrate gesti di rabbia impotente. Piangeva. Niccolino, seduto ancora a tavola, sotto la lampada, arrotondava con l’indice pallottoline di mollica. – Non hai voluto darmi ascolto, – riprese, dopo un lungo silenzio, il padre. – Hai… ehm…! sì, hai voluto fare come me… Mi viene quasi da ridere, che vuoi farci? Ti compatisco, bada! Ma è stata, Rocco mio, una riprova inutile. Noi Pentàgora… – quieto, FuFù, con la coda! noi Pentàgora con le mogli non abbiamo fortuna. Tacque un altro pezzo, poi ripigliò lentamente, sospirando: – Già lo sapevi… Ma tu credesti d’aver trovato l’araba fenice. E io? Tal quale! E mio padre, sant’anima? Tal quale! Fece con una mano le corna e le agitò in aria. – Caro mio, vedi queste? Per noi, stemma di famiglia! Non bisogna farsene. A questo punto, Niccolino, che seguitava ad arrotondare tranquillamente pallottoline, sghignò. – Sciocco, che c’è da ridere? – gli disse il padre, levando sù dal petto il testone raso, sanguigno. – E` destino! Ognuno ha la sua croce. La nostra, è qua! Calvario. E si picchiò sul capo. – Ma, alla fin fine, sciocchezze! – seguitò. – Croce che non pesa, è vero, FuFù? quando abbiamo cacciato via la moglie. Anzi, porta fortuna, dicono . La gente piglia moglie, come si piglia in mano la fisarmonica, che pare chiunque debba saperla sonare. Sì, a stendere e a stringere il màntice, non ci vuol molto; ma a muover le dita di quella maniera per pigiare su i tasti, lì ti voglio! Dicono che sono cattivo. Ma perché sono cattivo? Come sto in pace io, così vorrei che stésse in pace tutto il mondo. Ci sono però di questi tali, che quando possono dir male di uno, pare che ingrassino. Del resto a me mi fa più utile chi mi biasima. Sai che faccio? Prendo il biasimo e me l’applico qua. Si picchiò sulla natica. E poco dopo ripigliò: – Chi vuol morire, muoja. Io m’ingegno di campare. Salute, ne abbiamo da vendere e, per tutto il resto, la grazia di Dio non ci manca. Si sa, per altro, che le mogli è il loro mestiere d’ingannare i ma riti. Quand’io sposai, figlio mio, tuo nonno mi disse precisamente quel che poi io ripetei a te, parola per parola. Non volli ascoltarlo, come tu non hai voluto ascoltarmi. E si capisce! Ognuno vuol farne esperienza da sé. Che cosa credevo io che fosse Fana, mia moglie? Precisamente ciò che tu, Roc- cuccio mio, credevi che fosse la tua: una santa! Non ne dico male, né gliene voglio: ne siete testi- monii. Do a vostra madre tanto che possa vivere, e permetto che voi andiate a visitarla una volta l’anno, a Palermo. M’ha reso in fin dei conti un gran servizio: m’ha insegnato che si deve obbedire ai genitori. Dico perciò a Niccolino: “Tu almeno, figliuolo mio, sàlvati!”. Quest’uscita non piacque a Niccolino, che già faceva all’amore: – Ma pensate a vojaltri, voi, che a me ci penso io! – A lui, oibò! a lui… ah, figlio mio! – esclamò sogghignando il Pentàgora. – Ma San Silvestro… Ma San Martino… – Va bene, va bene, – rispose Niccolino irritatissimo. – Ma a noi la mamma, poveretta, che male ha fatto, se pur è vero che…? Niccoli’, ora mi secchi! – lo interruppe il padre, levandosi in piedi. – E` destino, sciocconaccio! E io parlo per il tuo bene. Prendi, prendi moglie, se tre esperienze non ti bastano, e – se sei davvero dei Pentàgora – vedrai! Si liberò del gatto con una scrollata, tolse dal canterano la candela e, senza neanche accenderla, scappò via. Rocco aprì la finestra e si mise a guardar fuori a lungo. La notte era umida. In basso, dopo il ripido degradare delle ultime case giù per la collina, la pianura immensa, solitaria, si stendeva sotto un velo triste di nebbia, fino al mare laggiù, rischiarato pallidamente dalla luna. Quant’aria, quanto spazio fuori di quell’alta finestra angusta! Guardò la facciata della casa, esposta lassù ai venti, alle piogge, malinconica nell’umidore lunare; guardò in basso la viuzza nera, deserta, vegliata da un solo fanale piagnucoloso; i tetti delle povere case raccolte nel sonno; e si sentì crescere l’angoscia. Rimase attonito, quasi con l’anima sospesa, a mirare; e come, dopo un violento uragano, lievi nuvole vagano indecise, pensieri alieni, memorie smarrite, impressioni lontane gli s’affacciarono allo spirito, senza precisarsi tuttavia. Pensò che lì, in quella straducola angusta, quand’egli era bambino, proprio sotto a quel fanale dal fioco lume vacillante, una notte, era stato ucciso un uomo a tradimento; che poi una serva gli aveva detto che lo spirito di quell’ucciso era stato veduto da tanti; e lui ne aveva avuto una gran paura e per parecchio tempo non aveva più potuto affacciarsi di sera a guardare in quella via… Ora la casa paterna, lasciata da circa due anni, lo riprendeva, con tutte le reminiscenze, con l’oppressione antica. Egli era libero di nuovo , come ritornato scapolo. Avrebbe dormito solo, quella notte, nella cameretta nuda, nel lettuccio di prima: solo! La sua casa maritale, coi ricchi mobili nuovi, era rimasta vuota, buja… le finestre erano rimaste aperte… e quella luna, calante tra le brume sul mare lontano, doveva vedersi certo anche dalla sua camera da letto… Il suo letto a due… tra i cortinaggi di seta rosea… ah! Strizzò gli occhi e serrò le pugna. E domani? che sarebbe stato domani, quando tutto il paese avrebbe saputo ch’egli aveva scacciato di casa la moglie infedele? Là, col capo immerso nel vasto silenzio malinconico della notte punto qua e là e vibrante da stridi rapidi di pipistrelli invisibili, con le pugna ancora serrate, Rocco gemette, esasperato: – Che debbo fare? che debbo fare?”