Mirra di Alfieri

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Le opere più importanti di Alfieri sono le Tragedie, tra il 1775 e il 1790 ne scrive venti, ma ne pubblica diciannove, la prima  Cleopatra non viene pubblicata.
Nel teatro europeo la tragedia  era un genere  legato al passato, gli scrittori tragici, italiani e francesi, scrivevano le loro tragedie riprendendo gli argomenti dalle antiche tragedie greche e latine. Alfieri si inserisce in questa tradizione, le sue tragedie hanno argomento greco (Polinice, Antigone, Agamennone, Oreste, Timoleone, Merope, Agide e Mirra), latino (Virginia, Ottavia, Sofonisba, Bruto primo e Bruto secondo), biblico (Saul) o tratto dalla storia medievale (Rosmunda) e rinascimentale (La congiura de’ pazzi, Don Garzia, Filippo, Maria Stuarda). Nel teatro tragico, fin dalle sue lontane origini greche, era centrale “il conflitto tra dovere e passione, tra pubblico e privato, tra la volontà del personaggio che rappresenta l’istituzione e le spinte sentimentali dell’individuo singolo” (Roberto Alonge, La tragedia e lo Stato in Roma oltre Roma. Il teatro). Alfieri riprende questo tema tradizionale del teatro tragico classico e lo estremizza, nei suoi drammi è messo in scena lo scontro, sempre mortale, tra il tiranno e l’uomo libero che gli si oppone e ribella.
Per dare forza e vigore al suo teatro Alfieri elimina i personaggi e le scene secondarie e concentra l’azione intorno ai personaggi principali. Secondo le sue stesse parole la tragedia deve essere “di cinque atti, pieni, per quanto il soggetto dà, del solo soggetto; dialogizzata dai soli personaggi attori, e non consultori o spettatori; (…) di un solo filo ordita; rapida per quanto si può servendo alle passioni (….) semplice per quanto uso d’arte il comporta; tetra e feroce per quanto la natura lo soffra, calda quanto era in lui” , la tragedia deve essere un’opera unitaria, rapida e serrata nel suo svolgimento, senza pause, digressioni che interrompano il ritmo teso dell’azione. Alfieri usa il verso tradizionale della tragedia ossia l’endecasillabo sciolto, ma privandolo di qualsiasi musicalità e armonia, i versi delle sue tragedie sono duri, aspri, spezzati, interrotti da pause, per esprimere i sentimenti concitati e  violenti, i contrasti e le passioni dei personaggi.   In questi versi anti-musicali molta importanza ha la “giacitura” delle parole, ovvero la disposizione delle stesse all’interno del verso. Nella Vita Alfieri distingue nella sua tecnica di scrittura delle tragedie tre momenti o “respiri”: l’ideazione, una breve stesura in prosa, talvolta in francese, dell’argomento della tragedia; la stesura, scritta “con impeto, senza rifiutare un pensiero, senza badare al come”  sempre in prosa della tragedia, suddivisa in atti e scene con i dialoghi; infine la verseggiatura, quando “assai tempo dopo” vengono scelti ” i migliori pensieri” e messi in versi.
Nelle tragedie Alfieri esprime compiutamente la sua visione pessimistica dell’esistenza umana; gli eroi dei suoi drammi, sia i tiranni che i loro virtuosi avversari,  sono tutti mossi da un destino di fallimento, solitudine e morte, che è l’unico modo in cui si realizza l’aspirazione alla libertà, impossibile nella realtà. Il teatro di Alfieri, classico nella forma, presenta temi e motivi che  anticipano  il Romanticismo.

Mirra
La Mirra,  dedicata alla contessa d’Albany, fu ideata nel 1784, stesa in prosa nel 1785 e verseggiata nel 1786.
Alfieri prende spunto dalle Metamorfosi di Ovidio (Libro X) dove viene narrata la passione di Mirra per il padre Ciniro. Nelle Metamorfosi la giovane, aiutata dalla nutrice, inganna il padre, consuma l’incesto e  viene trasformata nell’albero della mirra, dal quale nasce Adone. Nel mito la passione incestuosa è suscitata da Venere che vuole punire la madre di Mirra per avere giudicato la bellezza della figlia superiore a quella della dea. Nella tragedia di Alfieri Mirra non consuma l’incesto e  per tutta la tragedia non si conosce la ragione dell’angoscia della giovane. In questo espediente narrativo  va ravvisato l’intento di Alfieri “di confrontarsi con dei modelli considerati eccellenti” ma allo stesso tempo di lanciare “una sfida”. La Mirra si presenta come una variante più trasgressiva del mito di Fedra, innamorata del  figliastro Ippolito, Alfieri si propone come “un giocatore di poker di rilanciare la posta in gioco assumendo una situazione più trasgressiva (l’incesto figlia-padre è più grave, ovviamente, dell’incesto matrigna-figliastro). La scommessa da vincere consiste nel dimostrare che si può scegliere anche un argomento moralmente pericoloso riuscendo a creare un testo moralmente accettabile”. E Alfieri vince la scommessa creando “una paradossale figura di vergine dell’incesto (…) perchè per cinque atti il personaggio non confessa mai la sua passione tremenda. Per cinque atti parla e parla, parla e piange, ma nessuno ( e tanto meno lo spettatore) riesce a capire il motivo della sua sofferenza, tanto più inesplicabile perché tutto avviene alla vigilia delle nozze con un giovane principe scelto da lei” (Roberto Alonge, La Mirra di Alfieri in Roma oltre Roma. Il teatro). Nella Mirra   Alfieri, che si definiva uno studioso della “scienza dell’uomo”, indaga l’oscuro potere dell’irrazionale che muove gli uomini aldilà e nonostante la ragione.
La tragedia inizia con Euriclea, nutrice di Mirra, che confida a Cecri, regina di Cipro e madre della giovane, di essere preoccupata per la figlia, la quale appare mortalmente triste.  La madre pensa che la figlia non ami Pereo, il suo sposo promesso, ma qualcun altro. Ma Euriclea è convinta che la sua tristezza non sia dovuta ad amore e non sa dare alcuna spiegazione della sua angoscia. I due genitori, desiderosi di rivedere felice la  figlia, cercano di scoprire la ragione di tanto sconforto, pronti anche a sospendere le nozze se fosse necessario. Il dolore di Mirra non si placa e la giovane giunge perfino a chiedere alla sua nutrice di ucciderla per porre fine alla sua sofferenza. Mirra  insiste per concludere  le nozze con Pereo, convinta che una volta lontana da Cipro potrà guarire e dimenticare il suo male, ma il rito nuziale viene interrotto dalla giovane stessa in preda a un’angoscia incontrollata. Pereo straziato dal dolore si uccide. La tragedia termina con un lungo colloquio tra padre e figlia. Ciniro comunica alla figlia che gli importa solo la sua felicità e, convinto che sia innamorata di qualcun altro, le fa capire che acconsentirà all’unione, chiunque egli sia. Mirra cerca di nascondere il segreto che la tormenta, alla fine, disperata e sconvolta, dopo aver pronunciato il nome del padre, afferra la sua spada e si trafigge mortalmente. Giungono la madre ed Euriclèa ma non possono far altro che ascoltare la triste storia da Ciniro. Mirra rivolge le sue ultime parole alla nutrice, dicendo che sarebbe stato meglio se l’avesse uccisa quando glielo aveva chiesto, almeno sarebbe morta innocente, mentre ora muore colpevole.

Riportiamo gli ultimi versi della tragedia dalla scena seconda, terza e quarta  dell’atto V .

ATTO QUINTO
SCENA SECONDA
[…]
MIRRA – O Morte, Morte,
cui tanto invoco, al mio dolor tu sorda
sempre sarai?…
CINIRO – Deh! figlia, acqueta alquanto,
l’animo acqueta: se non vuoi sdegnato
contra te piú vedermi, io giá nol sono
piú quasi omai; purché tu a me favelli.
Parlami deh! come a fratello. Anch’io
conobbi amor per prova: il nome….
MIRRA – Oh cielo!…
Amo, sí; poiché a dirtelo mi sforzi;
io disperatamente amo, ed indarno.
Ma, qual ne sia l’oggetto, né tu mai,
né persona il saprá: lo ignora ei stesso…
ed a me quasi io ‘l niego.
CINIRO – Ed io saperlo
e deggio, e voglio. Né a te stessa cruda
esser tu puoi, che a un tempo assai nol sii
piú ai genitori che ti adoran sola.
Deh! parla; deh! – Giá, di crucciato padre,
vedi ch’io torno e supplice e piangente:
morir non puoi, senza pur trarci in tomba. –
Qual ch’ei sia colui ch’ami, io ‘l vo’ far tuo.
Stolto orgoglio di re strappar non puote
il vero amor di padre dal mio petto.
Il tuo amor, la tua destra, il regno mio,
cangiar ben ponno ogni persona umíle
in alta e grande: e, ancor che umíl, son certo,
che indegno al tutto esser non può l’uom ch’ami.
Te ne scongiuro, parla: io ti vo’ salva,
ad ogni costo mio.
MIRRA – Salva?… Che pensi?…
Questo stesso tuo dir mia morte affretta…
Lascia, deh! lascia, per pietá, ch’io tosto
da te… per sempre… il piè… ritragga…
CINIRO – O figlia
unica amata; oh! che di’ tu? Deh! vieni
fra le paterne braccia. – Oh cielo! in atto
di forsennata or mi respingi? Il padre
dunque abborrisci? e di sí vile fiamma
ardi, che temi…
MIRRA – Ah! non è vile;… è iniqua
la mia fiamma; né mai…
CINIRO – Che parli? iniqua,
ove primiero il genitor tuo stesso
non la condanna, ella non fia: la svela.
MIRRA- Raccapricciar d’orror vedresti il padre,
se la sapesse… Ciniro…
CINIRO – Che ascolto!
MIRRA – Che dico?… ahi lassa!… non so quel ch’io dica…
Non provo amor… Non creder, no… Deh! lascia,
te ne scongiuro per l’ultima volta,
lasciami il piè ritrarre.
CINIRO – Ingrata: omai
col disperarmi co’ tuoi modi, e farti
del mio dolore gioco, omai per sempre
perduto hai tu l’amor del padre.
MIRRA – Oh dura,
fera orribil minaccia!… Or, nel mio estremo
sospir, che giá si appressa,… alle tante altre
furie mie l’odio crudo aggiungerassi
del genitor?… Da te morire io lungi?…
Oh madre mia felice!… almen concesso
a lei sará… di morire… al tuo fianco…
CINIRO – Che vuoi tu dirmi?… Oh! qual terribil lampo,
da questi accenti!… Empia, tu forse?…
MIRRA – Oh cielo!
che dissi io mai?… Me misera!… Ove sono?
Ove mi ascondo?… Ove morir? – Ma il brando tuo mi varrá…
CINIRO – Figlia… Oh! che festi? il ferro…
MIRRA – Ecco,… or… tel rendo… Almen la destra io ratta
ebbi al par che la lingua.
CINIRO – … Io… di spavento,…
e d’orror pieno, e d’ira,… e di pietade,
immobil resto.
MIRRA – Oh Ciniro!… Mi vedi…
presso al morire… Io vendicarti… seppi,…
e punir me… Tu stesso, a viva forza,
l’orrido arcano… dal cor… mi strappasti…
ma, poiché sol colla mia vita… egli esce…
dal labro mio,… men rea… mi moro…
CINIRO – Oh giorno!
Oh delitto!… Oh dolore! – A chi il mio pianto?…
MIRRA – Deh! piú non pianger;… ch’io nol merto…
Ah! sfuggi
mia vista infame;… e a Cecri… ognor… nascondi…
CINIRO – Padre infelice!… E ad ingojarmi il suolo
non si spalanca?… Alla morente iniqua
donna appressarmi io non ardisco;… eppure,
abbandonar la svenata mia figlia
non posso…

SCENA TERZA
CECRI, EURICLÉA, CINIRO, MIRRA.
CECRI – Al suon d’un mortal pianto…
CINIRO – Oh cielo!
Non t’inoltrar…
CECRI – Presso alla figlia…
MIRRA – Oh voce!
EURICLÉA – Ahi vista! nel suo sangue a terra giace
Mirra ?…
CECRI – La figlia?…
CINIRO – Arretrati…
CECRI – Svenata!…
Come? da chi?… Vederla vo’…
CINIRO – Ti arretra…
Inorridisci… Vieni… Ella… trafitta,
di propria man, s’è col mio brando…
CECRI – E lasci
cosí tua figlia?… Ah! la vogl’io…
CINIRO – Piú figlia
non c’è costei. D’infame orrendo amore
ardeva ella per… Ciniro…
CECRI – Che ascolto? –
Oh delitto!…
CINIRO – Deh! vieni: andiam, ten priego,
a morir d’onta e di dolore altrove.
CECRI – Empia… – Oh mia figlia!…
CINIRO – Ah! vieni…
CECRI – Ahi sventurata!…
Né piú abbracciarla io mai?…

SCENA QUARTA
MIRRA, EURICLÉA.
MIRRA – Quand’io… tel… chiesi,…
darmi… allora,… Euricléa, dovevi il ferro…
io moriva… innocente;… empia… ora… muojo.