A mezzogiorno, davanti alla tavola imbandita, il precettore ricorda al Giovin Signore che egli non si ciba per bisogno, ma solamente per il piacere di mangiare. Da questa considerazione il poeta introduce la favola del piacere. Nella favola Parini immagina un’età remota in cui gli uomini vivevano senza distinzioni in classi sociali. Tutti gli uomini erano uguali e soggetti al bisogno che li portava a mangiare le stesse cose e a bere la stessa acqua. Questa uniformità non era gradita agli dei che mandarono tra loro il piacere e coloro che avevano organi più sensibili furono in grado di provare i suoi stimoli e di gustare le cose belle e piacevoli, dando origine alla nobiltà, quelli che avevano organi meno sensibili continuarono ad obbedire solo al bisogno, dando origine alla plebe.
Meriggio vv.298-328
Oh beati fra gli altri e cari al cielo Oh uomini beati tra tutti gli altri
Viventi a cui con miglior man Titàno e cari agli dei che Prometeo creò
Formò gli organi egregi, e meglio tese 300 con organi migliori,
E di fluido agilissimo inondolli! in cui scorre un sangue agilissimo!
Voi l’ignoto solletico sentiste Voi avete subito sentito lo sconosciuto
Del celeste motore. In voi ben tosto piacere divino. Subito in voi
La voglia s’infiammò, nacque il desio: è nata la voglia, il desiderio:
Voi primieri scopriste il buono il meglio: 305 Voi avete scoperto il buono e il meglio
Voi con foga dolcissima correste e con una dolce furia siete corsi
A possederli. Allor quel de i duo sessi, a possederli. Allora le donne che prima
Che necessario in prima era sol erano solo necessarie, divennero belle
D’amabile e di bello il nome ottenne. e amabili.
(…) allora (…) allora
Fu il vin preposto all’onda; e il vin si elesse 315 si preferì il vino all’acqua e si scelse
Figlio de’ tralci più riarsi, e posti il vino delle viti più assolate, delle
A più fervido sol ne’ più sublimi colline più alte e dei terreni più ricchi.
Colli dove più zolfo il suolo impingua.
Così l’uom si divise: e fu il signore Così gli uomini si divisero,
Da i mortali distinto, a cui nel seno 320 i nobili si distinsero da quelli,
Giacquero ancor l’èbeti fibre, inette che, incapaci di sentire i dolci piaceri,
A rimbalzar sotto a i soavi colpi curvi sulla terra come buoi,
De la nova cagione onde fur tocche; spinti dal bisogno,
E quasi bovi al suol curvati ancora condannati a vivere come servi vili,
Dinanzi al pungol del bisogno andàro; 325 nella fatica e nella povertà,
E tra la servitude e la viltade furono chiamati plebei.
E il travaglio e l’inopia a viver nati
Ebber nome di plebe.