I Malavoglia: ‘Ntoni e il viaggio dal pre-moderno al moderno

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Nel corso del Novecento l’opera verista di Verga ha ricevuto diverse interpretazioni. Alcuni critici hanno definito i suoi romanzi e novelle “studi sociali” intesi a rappresentare la realtà storica e sociale del Sud Italia. Altri hanno evidenziato, in particolare ne I Malavoglia, un atteggiamento nostalgico nei confronti del mondo di valori rappresentato dalla famiglia patriarcale, chiusa in sé stessa, attaccata “allo scoglio”, capace di resistere alle forze disgregatrici esterne. Questo atteggiamento è stato definito “religione della famiglia e della casa” e il romanzo è stato letto come la storia della contrapposizione tra la famiglia Malavoglia, depositaria dei valori buoni e autentici, e il paese di Aci Trezza dominato dalla logica dell’interesse e dell’egoismo.
Di recente altri critici hanno sottolineato i limiti di questa interpretazione e hanno proposto una lettura più articolata dell’opera verghiana.
Romano Luperini analizzando i personaggi di padron ‘Ntoni e ‘Ntoni ha scritto che I Malavoglia “non sono il libro della religione della famiglia, ma il libro che dà un addio amaro a questa religione”. Mentre il nonno è un personaggio immobile, incapace di capire il nuovo mondo, non più racchiuso e spiegato dai suoi proverbi, ‘Ntoni è un personaggio romanzesco, che cambia, si evolve, e nel romanzo cerca di compiere il viaggio dal pre-moderno al moderno. Secondo Luperini ne I Malavoglia si scontrano due mondi: il mondo pre-moderno rappresentato da Padron ‘Ntoni e il mondo moderno rappresentato da ‘Ntoni.  Il mondo moderno di ‘Ntoni è il mondo del progresso, dei cambiamenti continui, dei soldi e dei sogni;  “mangeremo carne tutti i giorni, andremo in carrozza” risponde ‘Ntoni, che vuole andare via, al nonno che gli chiede come immagina la nuova vita. Quello pre-moderno è il mondo statico, il mondo della vita ripetitiva, del tempo sempre uguale a se stesso, della fatica quotidiana che non muta mai.
Sia il vecchio che il giovane ‘Ntoni sono dei vinti, degli sconfitti. Per Verga vecchio e nuovo mondo non sono diversi, entrambi sono dominati dallo stesso meccanismo che, indifferente alle sorti del singolo individuo, stabilisce chi perde e chi vince, in un circuito perpetuo da cui nessuno si salva.

I due brani che seguono sono tratti dal capitolo 11 e 13 del romanzo e riportano due dialoghi tra il nonno e il nipote. Nei due dialoghi si contrappongono i due mondi del nonno e del nipote, nel primo è il giovane ‘Ntoni a uscire perdente “In conclusione ‘Ntoni si mise a piangere come un bambino”, nel secondo è il nonno a essere sconfitto “Il vecchio se ne andò desolato, scuotendo il capo, col dorso curvo, ché le parole amare del nipote l’avevano schiacciato peggio di un pezzo di scoglio piombatogli sulla schiena”.

Capitolo XI: il primo dialogo tra il nonno e il nipote
‘Ntoni dopo il militare fa fatica a riprendere la vita di sempre, non è più casa e lavoro come il nonno e passa il tempo “andando girelloni” per il paese. Sogna di diventare ricco e la vita del paese non gli piace più, vuole andare via a fare fortuna. Il nonno prova a prenderlo per il verso buono e gli parla.

Ma d’allora in poi non pensava ad altro che a quella vita senza pensieri e senza fatica che facevano gli altri; e la sera, per non sentire quelle chiacchiere senza sugo, si metteva sull’uscio colle spalle al muro, a guardare la gente che passava, e digerirsi la sua mala sorte; almeno così si riposava pel giorno dopo, che si tornava da capo a far la stessa cosa, al pari dell’asino di compare Mosca, il quale come vedeva prendere il basto gonfiava la schiena aspettando che lo bardassero! – Carne d’asino! borbottava; ecco cosa siamo! Carne da lavoro! E si vedeva chiaro che era stanco di quella vitaccia, e voleva andarsene a far fortuna, come gli altri; tanto che sua madre, poveretta, l’accarezzava sulle spalle, e l’accarezzava pure col tono della voce, e cogli occhi pieni di lagrime, guardandolo fisso per leggergli dentro e toccargli il cuore. Ma ei diceva di no, che sarebbe stato meglio per lui e per loro; e quando tornava poi sarebbero stati tutti allegri. La povera donna non chiudeva occhio in tutta la notte, e inzuppava di lagrime il guanciale. Infine il nonno se ne accorse, e chiamò il nipote fuori dell’uscio, accanto alla cappelletta, per domandargli cosa avesse.
– Orsù, che c’è di nuovo? dillo a tuo nonno, dillo!
‘Ntoni si stringeva nelle spalle; ma il vecchio seguitava ad accennare di sì col capo, e sputava, e si grattava il capo cercando le parole.
– Sì, sì, qualcosa ce l’hai in testa, ragazzo mio! Qual cosa che non c’era prima. «Chi va coi zoppi, all’anno zoppica».
– C’è che sono un povero diavolo! ecco cosa c’è!
– Bè! che novità! e non lo sapevi? Sei quel che è stato tuo padre, e quel ch’è stato tuo nonno! «Più ricco è in terra chi meno desidera». «Meglio contentarsi che lamentarsi».
– Bella consolazione!
Questa volta il vecchio trovò subito le parole, perché si sentiva il cuore sulle labbra: – Almeno non lo dire davanti a tua madre.
– Mia madre… Era meglio che non mi avesse partorito, mia madre!
– Sì, accennava padron ‘Ntoni, sì! meglio che non t’avesse partorito, se oggi dovevi parlare in tal modo.
‘Ntoni per un po’ non seppe che dire: – Ebbene! esclamò poi, lo faccio per lei, per voi, e per tutti. Voglio farla ricca, mia madre! ecco cosa voglio. Adesso ci arrabattiamo colla casa e colla dote di Mena; poi crescerà Lia, e un po’ che le annate andranno scarse staremo sempre nella miseria. Non voglio più farla questa vita. Voglio cambiar stato, io e tutti voi. Voglio che siamo ricchi, la mamma, voi, Mena, Alessi e tutti.
Padron ‘Ntoni spalancò tanto d’occhi, e andava ruminando quelle parole, come per poterle mandar giù. – Ricchi! diceva, ricchi! e che faremo quando saremo ricchi?
‘Ntoni si grattò il capo, e si mise a cercare anche lui cosa avrebbero fatto. – Faremo quel che fanno gli altri… Non faremo nulla, non faremo!… Andremo a stare in città, a non far nulla, e a mangiare pasta e carne tutti i giorni.
– Va, va a starci tu in città. Per me io voglio morire dove son nato; – e pensando alla casa dove era nato, e che non era più sua si lasciò cadere la testa sul petto. – Tu sei un ragazzo, e non lo sai!… non lo sai!… Vedrai cos’è quando non potrai più dormire nel tuo letto; e il sole non entrerà più dalla tua finestra!… Lo vedrai! te lo dico io che son vecchio! Il poveraccio tossiva che pareva soffocasse, col dorso curvo, e dimenava tristamente il capo: – «Ad ogni uccello, suo nido è bello». Vedi quelle passere? le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà, e torneranno a farcelo, e non vogliono andarsene. – Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro! rispondeva ‘Ntoni. Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girar la ruota; io non voglio morir di fame in un cantuccio, o finire in bocca ai pescicani.
– Ringrazia Dio piuttosto, che t’ha fatto nascer qui; e guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono. «Chi cambia la vecchia per la nuova, peggio trova». Tu hai paura del lavoro, hai paura della povertà; ed io che non ho più né le tue braccia né la tua salute non ho paura, vedi! «Il buon pilota si prova alle burrasche». Tu hai paura di dover guadagnare il pane che mangi; ecco cos’hai! Quando la buon’anima di tuo nonno mi lasciò la Provvidenza e cinque bocche da sfamare,
io ero più giovane di te, e non avevo paura; ed ho fatto il mio dovere senza brontolare; e lo faccio ancora; e prego Iddio di aiutarmi a farlo sempre sinché ci avrò gli occhi aperti, come l’ha fatto tuo padre, e tuo fratello Luca, benedetto! che non ha avuto paura di andare a fare il suo dovere. Tua madre l’ha fatto anche lei il suo dovere, povera femminuccia, nascosta fra quelle quattro mura; e tu non sai quante lagrime ha pianto, e quante ne piange ora che vuoi andartene; che la mattina tua sorella trova il lenzuolo tutto fradicio! E nondimeno sta zitta e non dice di queste cose che ti vengono in mente; e ha lavorato, e si è aiutata come una povera formica anche lei; non ha fatto altro, tutta la sua vita, prima che le toccasse di piangere tanto, fin da quando ti dava la poppa, e quan do non sapevi ancora abbottonarti le brache, che allora non ti era venuta in mente la tentazione di muovere le gambe, e andartene pel mondo come uno zingaro.
In conclusione ‘Ntoni si mise a piangere come un bambino, perché in fondo quel ragazzo il cuore ce l’aveva buono come il pane; ma il giorno dopo tornò da capo.

Capitolo XIII: il secondo dialogo
Infine ‘Ntoni decide di partire, ma poi torna “lacero e pezzente”; non è riuscito “ad acchiappare la fortuna” ed è arrabbiato con un mondo a cui, come diceva lo speziale, “bisognava dare un calcio (…) e rifarlo da capo”. Dal viaggio aveva imparato qualcosa, “aveva aperto gli occhi, come i gattini dopo i quaranta giorni che son nati” e andava a raccontare quello che aveva imparato in piazza, dal barbiere, all’osteria. ‘Ntoni non ha più voglia di lavorare e la sera torna sempre più spesso a casa ubriaco. Il nonno continua a parlargli e la sorella ad accoglierlo in casa, finché ‘Ntoni decide di tornare a lavorare. E’ un miracolo ma dura poco. Ritorna a bere e stringe una relazione con la Santuzza, la padrona dell’osteria, che lo coinvolge nel contrabbando. Il nonno tenta un’ultima volta di parlargli per convincerlo a tornare a casa.

Ma ‘Ntoni il mestiere lo faceva dove era grasso, e ci mangiava e beveva, che era un piacere a vederlo. Ora portava la testa alta, e se la rideva se il nonno gli diceva qualche parola a bassa voce; adesso era il nonno che si faceva piccino, quasi il torto fosse suo. ‘Ntoni diceva che se non lo volevano in casa sapeva dove andare a dormire, nella stalla della Santuzza; e già non spendevano nulla a casa sua per dargli da mangiare. Padron ‘Ntoni, e Alessi, e Mena, tutto quello che buscavano colla pesca, col telaio, al lavatoio, e con tutti gli altri mestieri, potevano metterlo da parte, per quella famosa barca di san Pietro, colla quale si guadagnava di rompersi le braccia tutti i giorni per un rotolo di pesce, o per la casa del nespolo, nella quale si sarebbe andati a crepare allegramente di fame! tanto lui un soldo non l’avrebbe voluto; povero diavolo per povero diavolo, preferiva godersi un po’ di riposo, finché era giovane, e non abbaiava la notte come il nonno. Il sole c’era lì per tutti, e l’ombra degli ulivi per mettersi al fresco, e la piazza per passeggiare, e gli scalini della chiesa per stare a chiacchierare, e lo stradone per veder passare la gente e sentir le notizie, e l’osteria per mangiare e bere cogli amici. Poi quando gli sbadigli vi rompevano le mascelle, si giocava alla mora, o a briscola; e quando infine si aveva sonno, ci era lì la chiusa dove pascevano i montoni di compare Naso, per sdraiarsi a dormire il giorno, o la stalla di comare suor Mariangela quand’era notte.
– Che non ti vergogni di fare questa vita? gli disse alfine il nonno, il quale era venuto apposta a cercarlo colla testa bassa e tutto curvo; e piangeva come un fanciullo nel dir così, tirandolo per la manica dietro la stalla della Santuzza, perché nessuno li vedesse. – E alla tua casa non ci pensi? e ai tuoi fratelli non ci pensi? Oh, se fossero qui tuo padre e la Longa! ‘Ntoni! ‘Ntoni!…
– Ma voi altri ve la passate forse meglio di me a lavorare, e ad affannarvi per nulla? È la nostra mala sorte infame! ecco cos’è! Vedete come siete ridotto, che sembrate un arco di violino, e sino a vecchio avete fatto sempre la stessa vita! Ora che ne avete? Voi altri non conoscete il mondo, e siete come i gattini cogli occhi chiusi. E il pesce che pescate ve lo mangiate voi? Sapete per chi lavorate, dal lunedì al sabato, e vi siete ridotto a quel modo che non vi vorrebbero neanche all’ospedale? per quelli che non fanno nulla, e che hanno denari a palate lavorate!
– Ma tu non ne hai denari, né io ne ho! Non ne abbiamo avuti mai, e ci siamo guadagnato il pane come vuol Dio; è per questo che bisogna darsi le mani attorno, a guadagnarli, se no si muore di fame.
– Come vuole il diavolo, volete dire! Che è tutta opera di Satanasso la nostra disgrazia! Ora sapete quel che ci aspetta, quando non potrete più darvele attorno le mani, perché i reumatismi le avranno ridotte come una radica di vite? Vi aspetta il vallone sotto il ponte per andare a creparvi.
– No! no! esclamò il vecchio tutto giulivo, e gettandogli al collo le braccia rattratte come radiche di vite. I denari per la casa ci son già, e se tu ci aiuti…
– Ah! la casa del nespolo! Credete che sia il più bel palazzo del mondo, voi che non avete visto altro?
– Lo so che non è il più bel palazzo del mondo. Ma non dovresti dirlo tu che ci sei nato, tanto più che tua madre non ci è morta.
– Nemmeno mio padre non ci è morto. Il nostro mestiere è di lasciare la pelle laggiù, in bocca ai pescicani. Almeno, finché non ce la lascio, voglio godermi quel po’ di bene che posso trovare, giacché è inutile logorarmi la pelle per niente! E poi? quando avrete la casa? e quando avrete la barca? E poi? e la dote di Mena? e la dote di Lia?… Ah! sangue di Giuda ladro! che malasorte è la nostra!
Il vecchio se ne andò desolato, scuotendo il capo, col dorso curvo, ché le parole amare del nipote l’avevano schiacciato peggio di un pezzo di scoglio piombatogli sulla schiena. Adesso non aveva più coraggio per nulla, gli cascavano le braccia, e aveva voglia di piangere. Non poteva pensare ad altro, se non che Bastianazzo e Luca non ci avevano mai avuto pel capo quelle cose che ci aveva ‘Ntoni, e avevano sempre fatto senza lamentarsi quello che dovevano fare; e mulinava pure che era inutile pensare alla dote di Mena, e di Lia, giacché non ci sarebbero arrivati mai.

(Fonte: La religione della famiglia: la posizione di Luperini in Romano Luperini, Pietro Cataldi, La scrittura e l’interpretazione, vol.3, pp.283-284)