Italo Calvino racconta L’Orlando Furioso: La pazzia di Orlando, canto XXIII ottave 103-104, 129-136

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Il duello tra Orlando e Mandricardo era rimasto in sospeso. Dopo che il cavallo del re di Tartaria aveva preso la mano al padrone e l’aveva portato via a corsa sfrenata, Orlando per un po’ aveva aspettato a piè dell’albero da cui pendeva la spada Durindana, oggetto della contesa.
Ma, visto che l’avversario non tornava, Orlando aveva cinto di nuovo la spada invincibile e aveva lasciato detto che si sarebbe aggirato in quei paraggi per tre giorni e tre notti. Se Mandricardo voleva riprendere il duello, lui era a sua disposizione. Così, già da due giorni, il paladino stava cavalcando in su e in giù. Ma di Mandricardo, neanche l’ombra.
Orlando passeggiava in riva a un rivo. Vede che i tronchi degli alberi sono pieni di scritte e incisioni. «Però io questa scrittura la conosco», pensa Orlando, e come fa chi s’annoia, prende distrattamente a decifrare le parole. Legge: Angelica. Ma certo: è la sua firma! Angelica era passata di lì!
Intorno alla firma di Angelica, cuori trafitti, nodi che s’allacciano, colombe. Angelica innamorata? E di chi mai? Orlando non ha dubbi: «Se s’innamora non può innamorarsi che di me!»
Ma su quei cuori, su quei nodi, c’è un altro nome accoppiato a quello d’Angelica, un nome sconosciuto: Medoro. Perché Angelica ha scritto quel nome? Perché ha scritto il nome di qualcuno che non si sa chi sia, di qualcuno che non esiste? «Forse, – pensa Orlando, – nelle sue fantasticherie amorose, Angelica mi ha soprannominato Medoro, e scrive Medoro dappertutto perché non osa scrivere Orlando» .

103 Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.

104 Poi dice: – Conosco io pur queste note:
di tal’ io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch’a me questo cognome mette. –
Con tali opinïon dal ver remote
usando fraude a se medesmo, stette
ne la speranza il mal contento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.
(canto XXIII ottave 103-104)

Entra in una grotta. Le pareti di roccia erano tutte istoriate di graffiti e frasi tracciate col carbone o coi gessetti colorati o incise col temperino. Tutte in alfabeto arabo, si capisce. Orlando, esperto in quella lingua, tante volte s’era tratto d’impaccio nelle sue spedizioni oltre le linee nemiche. Quel che c’è scritto, dunque, per lui è chiaro: eppure vorrebbe dubitare di quel che sta leggendo. C’è scritto, in una calligrafia diversa da quella d’Angelica: «Oh star qui con la principessa Angelica abbracciato mattina e sera oh com’è bello». Firmato: «Medoro». Orlando riflette: «Dunque se Medoro sono io, e non sono stato io a scrivere questo, allora Angelica, fantasticando di star qui abbracciata con me, dev’essersi messa a scrivere queste cose con una calligrafia maschile per rappresentarsi quel che io avrei provato». La spiegazione era ingegnosa, però non stava in piedi. Ormai l’ipotesi che Medoro fosse un suo rivale, Orlando non riusciva più a scartarla. Un rivale sfortunato, naturalmente, che per dar sfogo alle sue fantasie, e per calunniare la donna che l’aveva respinto, aggiungeva il proprio nome là dove Angelica aveva firmato i suoi messaggi d’amore per Orlando. Di nuovo andava troppo lontano: qualsiasi spiegazione tentasse, a un certo punto il ragionamento d’Orlando si rifiutava di seguire la via più semplice, e il pianto che già gli faceva groppo in gola si fermava lì.
Orlando cavalca assorto: è l’imbrunire; vede in fondo alla valle un fumo che si leva d’in cima a un tetto; i cani prendono ad abbaiare; risponde il mugghio d’un armento. C’è una malga di pastori, laggiù. Orlando, macchinalmente, s’avvicina, chiede asilo per la notte .
I pastori si fanno in quattro per accogliere degnamente il paladino: chi gli svita l’armatura di dosso, chi gli toglie gli speroni, chi gli lustra la corazza, chi governa il cavallo. Orlando lascia fare, come un sonnambulo; poi si corica, e resta a occhi sbarrati. Sarà un’allucinazione? Quelle scritte continuano a perseguitarlo. Intorno al letto, sui muri, perfino sul soffitto, egli vede le scritte, dovunque posi gli occhi. Alza la mano per scacciarle: no, sono proprio là, tutta la casa ne è coperta.
– Non puoi dormire, cavaliere? – e il pastore, udendolo smaniare, venne a sedersi al suo capezzale. – Se vuoi ti racconto una storia che più bella non si potrebbe immaginare. Ed è una storia vera. Pensa che in questa povera casa s’era venuta a rifugiare una principessa dell’Oriente…
Orlando è tutt’orecchi.
– E questa principessa aveva raccolto sul campo di battaglia un povero fante ferito, un ragazzotto biondo…
E il pastore racconta a Orlando esterrefatto tutta la storia degli amori d’Angelica e Medoro, e delle loro nozze.
– Proprio in quel letto dove stai sdraiato tu, cavaliere, la principessa e il fantaccino passarono la prima notte di nozze! Orlando salta su come punto da una vespa.
– Non mi credi, cavaliere? Guarda cosa ci ha regalato a noi poveretti, la principessa, partendo per il Catai con il suo sposo! – e mostra un braccialetto tempestato di gemme. Era il braccialetto che Orlando aveva regalato ad Angelica in pegno d’amore. – Ehi, fermati, cavaliere, dove vai! Orlando era montato in sella e cavalcava nella notte urlando. Pianse tanto che si disse: «Queste non possono essere più lacrime perché ormai devo averle versate tutte: quello che mi scende giù dagli occhi è l’essenza vitale che mi sta abbandonando». Sospirò tanto che si disse: «Questi non possono essere sospiri perché non si fermano mai: è certamente il mio cuore che sta bruciando ed esala questo vento come per la cappa d’un camino».
Soffrì tanto che si disse: «Questo non posso più essere io perché Orlando è morto, ucciso da Angelica. Io sono il fantasma di me stesso che non potrà più trovare pace».
All’alba si ritrovò alla grotta dove Medoro aveva inciso la sua confessione: a colpi di Durindana sbriciolò la roccia nelle acque della fonte che s’intorbidarono per sempre. Poi si coricò sull’erba, spalancò gli occhi al cielo e restò immobile tre giorni e tre notti senza mangiare né dormire.
Al quarto giorno s’alzò, prese a spogliarsi e a gettare i pezzi d’armatura ai quattro punti cardinali. Restò nudo e senz’armi. Cominciò a svellere un pino, poi una rovere, poi un olmo. Da quel momento la pazzia d’Orlando prese a crescere, a scatenarsi, a infuriare sui campi e sui villaggi.

129 Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar della dïurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro insculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sì, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.

130 Tagliò lo scritto e ’l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe’ le minute schegge.
Infelice quell’antro, et ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restâr quel dì, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già sì chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;

131 che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle,
che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.

132 Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
che ’l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.

133 Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ’l petto e ’l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.

134 In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:

135 e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.

136 I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il quals’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
et io la vo’ più tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.
(canto XXIII ottave 129-136)

Italo Calvino racconta l’Orlando Furioso, Einaudi Scuola, pp.73-78