I Canti di Giacomo Leopardi. Poesia d’immaginazione e poesia sentimentale. La poetica del vago e dell’indefinito.

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I Canti raccolgono quarantuno componimenti scritti in vent’anni.
La raccolta è stata pubblicata, in vita Leopardi, due volte nel 1831 e nel 1835.
Nel complesso la raccolta segue, con qualche eccezione, un ordine cronologico e metrico; troviamo prima le dieci canzoni più antiche scritte tra il 1818 e il 1822, tra queste All’Italia, Ultimo canto di Saffo, poi gli idilli del 1819-1821, sei componimenti, tra cui L’Infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, seguono tre poesie scritte in periodi diversi : Consalvo, scritta tra il 1832 e il 1835, appartiene al ciclo di Aspasia ispirato dall’amore per Fanny Targioni Tozzetti, è una novella in versi in cui si racconta del primo e ultimo bacio che Consalvo riceve dall’amata Elvira prima di morire. Alla sua donna, scritta nel 1823, dedicata a una donna ideale amata dal poeta, Al conte Carlo Pepoli, epistola in versi del 1826 intorno all’”acerbo vero” oggetto ora degli studi del poeta.
Seguono i canti pisano recanatesi, o grandi idilli,scritti tra il 1828 e il 1830, A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, sono canzoni leopardiane, ovvero componimenti di strofe libere di endecasillabi e settenari. Vengono poi i quattro componimenti del ciclo di Aspasia, scritti tra il 1833 – 35 (o 1831 – 34) , Il pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso, Aspasia, che hanno come tema l’ amore come unica passione capace di dare senso e felicità alla vita.
Quindi le due canzoni sepolcrali Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, scritte tra il 1831 e il 1835, riflessioni sulla morte e il misero destino degli uomini.
Infine gli ultimi testi scritti dopo il 1835 a Napoli, Palinodia al marchese Gino Capponi, una finta ritrattazione (palinodia) del proprio materialismo pessimista, il testo è in realtà un’amara satira del progressismo ottimista dei cattolici liberali fiorentini, Il tramonto della luna, che è metafora della fine della giovinezza, con la quale scompare ogni felicità, La ginestra o il fiore del deserto, dedicata all’umile fiore che vive sulle pendici del Vesuvio, metafora del poeta e dell’uomo consapevole che resiste alle avversità della vita. La raccolta si conclude con due brevi componimenti Imitazione e Scherzo e cinque frammenti.

Poesia d’immaginazione e poesia sentimentale. La poetica del vago e dell’indefinito.
La poesia d’immaginazione
Nel 1818 Leopardi scrive e invia alla “Biblioteca italiana” il “Discorso di un italiano sulla poesia romantica” intervenendo nella polemica tra romantici e classicisti che l’articolo della M.me de Stael sulla rivista aveva destato. Il Discorso non venne pubblicato dal giornale.
In esso Leopardi prendeva posizione contro la poesia dei romantici e a favore dei classici affermando che la poesia “deve illudere e illudendo imitare la natura e imitando la natura dilettare”.
La poesia dei classici è poesia di immaginazione capace di dare piacere. Questa è l’unica vera poesia, la poesia che illude e diletta, non la poesia utile che ha per oggetto il vero come sostenevano i romantici italiani, Manzoni per esempio. Il poeta deve liberare la sua immaginazione e quella del lettore, e produrre piacere. Il poeta moderno deve imparare dai poeti antichi a creare con l’immaginazione.
La poesia sentimentale.
Ma due anni dopo Leopardi nello Zibaldone scrive che la sua poesia è diventata sentimentale.
“Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d’immagini. (..) La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819 (…). Allora l’immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell’invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s’io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (…); bensì quei versi traboccavano di sentimento. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.”
Questa annotazione è del 1° Luglio 1820 Leopardi descrive come la sua poesia divenne, nel corso del 1819, sentimentale, ovvero malinconica, poesia che canta il dolore per la perdita delle illusioni (E.Gioanola, Psicanalisi e interpretazione letteraria, p.75, Link books.google). Esempi di poesia sentimentale sono La sera del dì di festa, L’infinito, Alla Luna, A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno di in pastore errante dell’Asia, A sé stesso.
In una annotazione dello Zibaldone del 29 agosto 1828, scrive “il sentimento che l’anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del vero poeta”.
La poetica dell’indefinito e del vago : il piacere delle parole, immagini e sensazioni indefinite. Il ricordo, la rimembranza, come piacere indefinito.
La poetica dell’indefinito e del vago fa riferimento a quella che Leopardi chiama la teoria del piacere esposta in una lunga annotazione nello Zibaldone pagine 165-183 del 12-23 luglio 1821.
Leopardi osserva che l’anima umana desidera sempre e unicamente il piacere, ossia la felicità. Questo desiderio è senza limiti, perché è una tendenza “ingenita o congenita con l’esistenza”, quindi nessuna cosa da noi desiderata può soddisfare questo desiderio illimitato perché tutte le cose sono limitate “per durata e per estensione” e per questo motivo ogni volta che un desiderio viene soddisfatto il piacere si mescola con il dispiacere. “L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. (…)E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perchè l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.” (Zib.165-167)
In seguito Leopardi osserva che nell’uomo esiste una facoltà di immaginazione capace di immaginare piaceri infiniti perciò grazie a essa il piacere infinito che non si trova nella realtà si trova nell’immaginazione, che produce speranza e illusioni.
“Veniamo alla inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni.” (Zib.167-168)
Questa facoltà opera nel poeta che crea poesie con parole e immagini indefinite e opera nel lettore che prova piacere in queste immagini e parole.
La poesia dà piacere con parole indefinite e vaghe.
“Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perchè destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse.” (Zibaldone 1789, 25 settembre 1821)
“Le parole notte notturno ec. le descrizioni della notte ec. sono poeticissime, perchè la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sì di essa, che quanto ella contiene. Così oscurità, profondo.” (Zibaldone 1798, 28. Sett. 1821)

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna.
(Canti, La sera del dì di festa vv.1-4)

La poesia dà piacere con immagini indefinite.
Sono indefiniti e quindi piacevoli gli “oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti, (…) la luce del sole o della luna, (…) dov’ella divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi.” (Zibaldone, 1476, 20 settembre 1821).

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani 5
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo;
(Canti, L’Infinito, vv.1-7)

Non solo le immagini ma anche i suoni indefiniti danno piacere.
“Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce, o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (…) udito da lungi, o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile; (…) un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro (…). Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti, perché né l’udito né gli altri sensi non arrivano a determinare né circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze. (…) A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà (quando non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime quand’è più sordo, quando è udito in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade. (…) Tutte queste immagini in poesia sono sempre bellissime.”(Zibaldone 1927-1929, 16 ottobre 1821)

Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta 10
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi
(Canti, A Silvia, vv.7-12)

Infine sono piacevoli i ricordi dell’infanzia.
In un’altra pagina dello Zibaldone Leopardi spiega che alcune immagini e sensazioni sono piacevoli e poetiche perché sono il ricordo di qualcosa che abbiamo visto o provato quando eravamo bambini e vedevamo e sentivamo tutto in modo indefinito e piacevole.
“Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono, un racconto, una descrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito (..). Da grandi, (…) proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all’infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, (…); vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze.” (Zibaldone 514-516, 16 gennaio 1821)

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo, 5
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l’aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! allora
Che, tacito, seduto in verde zolla, 10
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
(Canti, Le ricordanze,vv.1-13)