I capitoli IX e X de I promessi sposi: il personaggio della monaca di Monza

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Salomé, Henry Regnault, 1870

Salomé, Henri Regnault, 1870

Ne I promessi sposi Manzoni non parla di amore e tanto meno di sesso. Tuttavia è indubbio che l’amore e il sesso siano silenziosi protagonisti del romanzo. Renzo e Lucia si amano e desiderano sposarsi; Don Rodrigo vuole impossessarsi di Lucia e il suo scopo è sessuale. E’ noto che un potente signore del Seicento poteva di fatto avere a propria disposizione qualsiasi donna del popolo 1. Nel Fermo e Lucia, la prima versione del romanzo, lo scrittore dichiara che non è bene scrivere di amore. Manzoni infatti non ne parla a proposito dei due principali protagonisti del romanzo, i due giovani e ingenui contadinotti del lecchese, ma ne rappresenta il potere nei capitoli dedicati alla storia di Gertrude, la giovane nobile dalla psiche contorta e perversa, famosa come la monaca di Monza.
Nei capitoli IX e X Manzoni dedica a Gertrude un’analessi o  flash back più lungo di quello dedicato a padre Cristoforo per spiegare al lettore il comportamento “insolito e misterioso” della monaca con Lucia.
Nel racconto dell’infanzia, della giovinezza  e del breve periodo di vita monastica della monaca di Monza due episodi hanno una diretta implicazione sessuale.
Quando Gertrude, ancora bambina, entra in convento, ignara di tutto e convinta di quello che i genitori finora le hanno  detto, i racconti delle compagne del convento che le parlano di “nozze, di pranzi, di conversazioni e festini” provocano “nel cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichìo che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare” e nei suoi “sogni dell’avvenire” si insinua “un non so che di molle e d’affettuoso”. Gertrude decide di rifiutare il suo consenso alla monacazione e scrive una lettera al padre per informarlo della sua decisione. Ma quando la giovane donna ritorna a casa per trascorrere il mese fuori dal convento prima dell’esame della vocazione, il silenzio e la gelida accoglienza del padre e dei familiari la gettano in uno stato di ansia e umiliazione. Gertrude trova nel comportamento di un giovane servitore della casa un po’ di consolazione, un biglietto indirizzato al giovane viene requisito da una cameriera e consegnato al padre, che imprigiona la figlia nella camera sotto la guardia della donna che l’aveva scoperta. Manzoni non dice che tipo di relazione ci sia tra i due, ma non è inverosimile pensare che questa relazione abbia una valenza sessuale. Dopo alcuni giorni di prigionia la giovane scrive una lettera al padre e chiede di essere perdonata. Il padre acconsente a patto che la figlia sia capace di meritarsi il perdono, Gertrude atterrita comprende che deve accettare definitivamente, sebbene contro la propria volontà, la decisione del padre di chiuderla in convento. Il secondo episodio è quello famoso che riguarda la relazione tra Gertrude, ormai monaca, e il giovane Egidio. Il contenuto sessuale di questa relazione è, sebbene taciuto, innegabile. La storia è nota e non serve riassumerla, la relazione tra i due conduce al delitto di una conversa, che nel mezzo di un litigio aveva rivelato alla monaca di essere a conoscenza della relazione.
L’amore di cui parla Manzoni non è la passione potente e a volte distruttiva, protagonista di tanti romanzi romantici, ma la pulsione cieca e non controllabile che sarà indagata dai poeti e artisti del decadentismo e dagli psicoanalisti seguaci di Sigmund Freud.
Nei due episodi la pulsione sessuale è vista come pericolosa, generatrice di disordine e delitto.
La responsabilità della pericolosità del sesso viene attribuita alla donna. Sia nel primo che nel secondo episodio la responsabilità del personaggio femminile viene enfatizzata. Nel primo è la giovane Gertrude che scrive al servitore; nel secondo la celebre frase “La sventurata rispose.” circoscrive alla decisione della donna la responsabilità della vicenda.
Nella realtà storica le cose erano ben diverse; le donne erano sottoposte al controllo degli uomini, che spesso diveniva, e diviene, violento, anche la vicenda storica a cui Manzoni si ispira per la vicenda della monaca di Monza ne è testimonianza. Ma l’immaginario letterario maschile, dai tempi più antichi, da Eva ed Elena in giù, passando per Clitemnestra, Medea, Lesbia, Salomé, Alatiel e innumerevoli altre donne perverse e pervertitrici, folli e dannate, fino alla monaca di Monza e oltre, lega indissolubilmente la pericolosità sociale del sesso alla malvagità individuale della donna.

A volte il seduttore è il padrone della donna, a volte le offre un lavoro, dei soldi o del cibo in cambio dei suoi favori. Le donne dei ceti più bassi erano particolarmente soggette a questo tipo di sfruttamento, non solo perché guadagnavano di meno degli uomini, qualunque fosse la loro attività, ma anche perché i padroni avevano un diritto di antica tradizione sui corpi delle donne a cui davano lavoro. Duby e Perrot, Storia delle donne. Dal Rinascimento all’età moderna, Editori Laterza, 1991, p.89

Dovette però accorgersi che un paggio, ben diverso da coloro, le portava un rispetto, e sentiva per lei una compassione d’un genere particolare. Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più somigliante a quell’ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoprì un non so che di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e un’inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che vorrebbe guardare ogni momento, e non lasciar vedere agli altri. Le furon tenuti gli occhi addosso più che mai: che è che non è, una mattina, fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira, la carta rimase nelle mani della cameriera, e da queste passò in quelle del principe.
Il terrore di Gertrude, al rumor de’ passi di lui, non si può descrivere nè immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si sentiva colpevole. Ma quando lo vide comparire, con quel cipiglio, con quella carta in mano, avrebbe voluto esser cento braccia sotto terra, non che in un chiostro. Le parole non furon molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d’esser rinchiusa in quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma questo non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso.
Il paggio fu subito sfrattato, com’era naturale; e fu minacciato anche a lui qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato fiatar nulla dell’avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quell’avventura un ricordo, che togliesse al ragazzaccio ogni tentazion di vantarsene. Un pretesto qualunque, per coonestare la licenza data a un paggio, non era difficile a trovarsi; in quanto alla figlia, si disse ch’era incomodata.
Rimase essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell’avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza saper per quanto tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d’un segreto pericoloso.
Il primo confuso tumulto di que’ sentimenti s’acquietò a poco a poco; ma tornando essi poi a uno per volta nell’animo, vi s’ingrandivano, e si fermavano a tormentarlo più distintamente e a bell’agio. Che poteva mai esser quella punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente e inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile, era di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta piena di dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l’apprensione della vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello, o di chi sa altri: e, al paragon di ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla. L’immagine di colui ch’era stato la prima origine di tutto lo scandolo, non lasciava di venire spesso anch’essa ad infestar la povera rinchiusa: e pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perchè non poteva separarlo da essi, nè tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza che subito non le s’affacciassero i dolori presenti che n’erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarci più di rado, a rispingerne la rimembranza, a divezzarsene. Nè più a lungo, o più volentieri, si fermava in quelle liete e brillanti fantasie d’una volta: eran troppo opposte alle circostanze reali, a ogni probabilità dell’avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando si risolvesse d’entrarci per sempre. Una tal risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano, è vero, i pensieri di tutta la sua vita: ma i tempi eran mutati; e, nell’abisso in cui Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno zuccherino. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivan pure a intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una tenerezza fantastica di divozione; talvolta l’orgoglio amareggiato e irritato dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da lei) si vendicava, ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono di protezione, più odioso ancora dell’insulto. In tali diverse occasioni, il desiderio che Gertrude sentiva d’uscir dall’unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarlo.
In capo a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata ed invelenita all’eccesso, per un di que’ dispetti della sua guardiana, andò a cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra le mani, stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d’esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli amici; e provò una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d’espiarlo. Non già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non c’era entrata con tanto ardore. S’alzò di lì, andò a un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo.

La monaca di Monza da I promessi sposi alla prova di Giovanni Testori