Orlando furioso: Astolfo sulla Luna, canto XXXIV ottave 71-83 (testo e parafrasi)

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Astolfo l’enigmatico cavaliere inglese con un libro di incantesimi e un corno dal suono terribile donatigli dalla maga buona Logistilla riesce a cavarsela nelle situazioni più strane e difficili.
Entrato in scena sotto forma di mirto, arbusto nel quale è stato imprigionato dalla maga Alcina, che lo ha così scaricato dopo esserne stata innamorata per un po’, Astolfo è una specie di deus ex machina che interviene in situazioni drammatiche e le risolve; cattura e uccide mostri e ladroni ed è lui a dissolvere l’incantesimo del mago Atlante che teneva molti cavalieri prigionieri nel suo castello incantato.
In groppa all’ippogrifo, l’alato cavallo del mago, Astolfo scorazza per mezzo mondo, compreso l’inferno, finché giunge al paradiso terrestre. Qui il vecchio San Giovanni Evangelista gli racconta della pazzia di Orlando e lo conduce sulla Luna a recuperare il senno del cavaliere pazzo.
In un grande avvallamento della luna si trova tutto quello che si perde sulla terra :qui tra enormi mucchi di cose perse e inutili Astolfo trova un ammasso di ampolle di varie misure contenenti il senno degli uomini, ce n’è una più grande di tutte, è quella di Orlando, come dice la scritta che ha sopra “Senno d’Orlando”. Astolfo la prende, insieme all’ampolla del proprio senno che subito inala per diventare saggio. Ritornato sulla terra dopo altre avventure, viaggi e magie Astolfo incontra in Africa un ossesso nudo che prende tutti a bastonate, è il cavaliere Orlando. Astolfo con l’aiuto di alcuni cavalieri lo cattura, lo lega e gli fa fiutare l’ampolla con il senno. Orlando rinsavisce, il romanzo può riprendere il suo corso normale di battaglie e duelli e avviarsi alla fine.

testo parafrasi
71 Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.
72 Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
73 Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
(…)
75 Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.
76 Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone antiche
e degli Assiri e de la terra lida,
e de’ Persi e de’ Greci, che già furo
incliti, ed or n’è quasi il nome oscuro.
(…)
80 Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
– L’elemosina è (dice) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. –
Di vari fiori ad un gran monte passa,
ch’ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Costantino al buon Silvestro fece.
81 Vide gran copia di panie con visco,
ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenze nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.
82 (…)
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n’era quivi un monte,
solo assai più che l’altre cose conte.
83 Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell’uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.
Qui Astolfo ebbe una doppia meraviglia:
da vicino la luna, che a noi
che la guardiamo dalla terra
sembra un piccolo tondo era molto grande,
per vedere la terra dalla luna
deve strizzare tutte e due gli occhi
perché la terra con il mare intorno
non avendo luce da lassù non si vedono.
Là sulla luna ci sono fiumi e laghi e campi
diversi da quelli della terra ;
pianure, valli e montagne diverse
hanno le città e i castelli di lassù,
con case così grandi
che il cavaliere non aveva mai visto
e ci sono boschi grandi e solitari
dove le ninfe vanno a caccia di belve.
Astolfo non perse tempo a vedere tutto ;
che non era salito lassù per questo.
Il santo apostolo lo condusse
in un vallone tra due montagne
dove era miracolosamente raccolto
ciò che perdiamo sulla terra per la nostra incapacità
o per colpa del tempo o della Fortuna :
quello che perdiamo qui si raduna lì.
(….)
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
il tempo che si perde al gioco,
l’ozio che non finisce mai degli uomini ignoranti,
i progetti inutili che non si realizzano mai ;
i desideri vani sono così tanti
che occupano la maggior parte di quel luogo :
ciò che quaggiù hai perduto
se sali lassù lo potrai trovare.
Passando in mezzo ai mucchi il cavaliere
chiede ora di questo ora di quello alla guida.
Vide un mucchio di vesciche gonfie,
che dentro sembrava che avessero tumulti e grida,
e seppe che erano le antiche corone
degli Assiri, dei Lidi, dei Persiani e dei Greci,
che una volta erano famosi
ed ora sono sconosciuti.
(…)
Vede una gran massa di minestre versate
e chiede al suo dottore che cosa sia
e quello gli dice che è l’elemosina
che si lascia dopo la morte.
Passa poi oltre una montagna di fiori,
che prima aveva un buon odore, ma ora puzzava molto.
Questo era il dono, se si può chiamarlo così,
che Costantino fece a papa Silvestro.
Vide molte trappole con il vischio
che erano, donne, le vostre bellezze.
Sarebbe troppo lungo enumerare nei miei versi
tutte le cose che gli furono mostrate,
che dopo mille e mille anni non finirei,
e ci sono tutte le nostre cose :
solo la pazzia non c’è, né poca né molta
che sta tutta qua giù e non se ne va mai via.
(…)
Poi arrivò a quello che a noi pare di avere
così ché non ne chiediamo mai a Dio ;
voglio dire il senno : e ce n’era una montagna,
più grande di tutte le altre cose viste.
Era come un liquore sottile e molle,
pronto a evaporare se non si tiene ben chiuso ;
e si vedeva raccolto in varie ampolle ;
adatte a quell’uso, alcune più e altre meno grandi.
Più grande di tutte e quella in cui si trovava
il grante senno del signore d’Aglante
e fu riconosciuta in mezzo alle altre
perché aveva scritto di fuori : Senno d’Orlando.

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