I Malavoglia di Giovanni Verga

Print Friendly, PDF & Email

I Malavoglia sono un’opera sperimentale e innovativa. Alla fine del 1874, dopo Nedda, Verga inizia un bozzetto marinaresco “Padron ‘Ntoni” che nei sei anni successivi diventa I Malavoglia, il romanzo è pubblicato nel 1881. I Malavoglia non ebbero successo, subito dopo la pubblicazione Verga scriveva a Capuana “I Malavoglia hanno fatto fiasco”, ma Capuana riconobbe subito il valore e la novità dell’opera di Verga “I Malavoglia non sono un fiasco (…), il fiasco in questo caso lo fa il pubblico e la critica che si ricrederanno presto come accade coi lavori che escono dalla solita carreggiata e che hanno elementi di grandissima novità”, in particolare Capuana riconosceva la novità della lingua letteraria del romanzo “Verga colava la lingua comune e il dialetto isolano in un cavo straordinariamente lavorato (…) rompeva ad un tratto tutte le nostre tradizioni letterarie impastate di pedanteria, tenaci verso le utili e necessarie novità”.
Il romanzo è il primo del cosiddetto ciclo dei vinti. Verga aveva in mente un ciclo di cinque romanzi : I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso. Di questi cinque romanzi scrive solo i primi due e inizia il terzo senza portarlo a termine.
Nella prefazione de I Malavoglia il racconto è presentato come “lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere(…) l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio”. I Malavoglia sono dei vinti che il progresso “ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati”. Il cammino del progresso visto da lontano è “grandioso nel suo risultato”, ma restano i vinti, “deboli che restano per via, fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda”, l’autore è un osservatore che non giudica, ma vuole rappresentare la realtà senza passione e rendere la scena nettamente, coi colori adatti.
La storia della famiglia Toscano, conosciuta con il soprannome di Malavoglia è ambientata a Trezza, piccolo paese sul mare in provincia di Catania e ha luogo nell’ arco di una decina d’anni circa a partire dal 1863. La famiglia è composta dal nonno Padron ‘Ntoni, il figlio Bastianazzo e la moglie Maruzza La Longa e i loro cinque figli ‘Ntoni, il maggiore di vent’anni, Mena (Filomena) soprannominata “Sant’Agata” perché stava sempre al telaio, Luca, Alessi e Lia (Rosalia). I Malavoglia a Trezza possiedono una casa, la casa del nespolo e una barca la Provvidenza e sono “buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quello che sembrava dal nomignolo”. Il romanzo racconta le disgrazie dei Malavoglia e il loro vano tentativo di resistervi.
Il naufragio della Provvidenza e la morte di Bastianazzo, il debito per i lupini con lo zio Crocifisso Campana di legno, la morte di Luca nella battaglia di Lissa, la perdita della casa del nespolo, Maruzza che muore di colera, ‘Ntoni che non sopporta la vita di lavoro e fatica a cui è costretto e parte ma torna straccione, passa i giorni ubriaco all’osteria, si dà al contrabbando e finisce in galera, Mena che non può sposare l’uomo che ama, il carrettiere Alfio Mosca, e rimane zitella, Lia, la sorella più piccola, disonorata da don Michele, brigadiere delle guardie di finanza, che si perde in città, Padron ‘Ntoni che combatte strenuamente nel tentativo di ristabilire la famiglia, fa riparare la Provvidenza e la rimette in mare, lavora indefessamente insieme ai nipoti per cercare di racimolare i soldi necessari a riscattare la casa del nespolo, cerca di recuperare ‘Ntoni, ma alla fine è costretto a soccombere; le disgrazie si abbattono sulla casa dei Malavoglia e alla fine la distruggono. Solo Alessi, il più piccolo della famiglia, si salva, riacquista la casa del nespolo e torna ad abitarci con la Nunziata.
La vicenda dei protagonisti si intreccia a quella degli altri abitanti del paese: lo zio Crocifisso, l’usuraio, Menico della Locca, Don Michele il brigadiere, Mastro Croce Callà il sindaco, don Silvestro il segretario, don Franco lo speziale, don Giammaria il vicario e sua sorella donna Rosolina, suor Mariangela la Santuzza l’ostessa e il padre lo zio Santoro, Massaro Filippo, l’ortolano, padron Fortunato Cipolla, ricco possidente, e il figlio Brasi, Alfio Mosca il povero carrettiere, mastro Turi Zuppiddu, il calafato, compare Tino Piedipapera con le rispettive mogli e figlie, comare Venera la Zuppidda e la Barbara, comare Grazia Piedipapera, Vanni Pizzuto il barbiere, Rocco Spatu e Mariano Cinghialenta, contrabbandieri e ubriaconi, cugina Anna, la Nunziata, Sara di comare Tudda, la Mangiacarrubbe, la Vespa e altri personaggi minori. Nel paese si combatte una lotta di tutti contro tutti per garantirsi la miglior sopravvivenza possibile, fidanzamenti e matrimoni, soldi e malaffare si intrecciano nelle minute vicende di tutti i giorni.
Padron ‘Ntoni cerca di contrastare le difficoltà, esorta i nipoti a non demordere e a cercare in tutti i modi di risollevarsi dalle disgrazie che continuamente si abbattono sulla famiglia. La sua filosofia di vita è fatta di poche idee condensate nei proverbi che continuamente va ripetendo, “Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro”, “Senza pilota barca non cammina”, “Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai”, “Scirocco chiaro e tramontana scura mettiti in mare senza paura”, “’ntroi ‘ntroi ciascuno coi compari suoi”, “Beato quell’uccello che fa il nido al suo paesello”, alla fine il vecchio, spezzato dai mali e dalla rovina della casa, dovrà rassegnarsi al peggio, allora i suoi proverbi diventano “Ad albero caduto accetta! accetta!”, “Chi cade nell’acqua è forza che si bagni”, “A cavallo magro, mosche”.
La storia con la esse maiuscola passa lontana dal minuscolo paese, ma si fa sentire fin dall’inizio, quando l’appena nato Stato italiano si prende ‘Ntoni per la leva militare, che dura cinque anni, con la battaglia di Lissa del luglio del 1866 che si porta via Luca e l’epidemia di colera del 1867 che uccide la Longa, e con i dazi sul sale e sulla pece e il filo del telegrafo sulla strada di Trezza che “si tira tutta la pioggia e se la porta via”.
Nella vicenda i giovani nipoti di padron ‘Ntoni hanno un ruolo da protagonisti. Sono buoni , remissivi e ubbidienti come Luca che muore in guerra, Mena che per il bene della famiglia rinuncia senza fiatare al suo amore per Alfio Mosca, Alessi il più piccolo; oppure sfortunati come ‘Ntoni e Lia, la più piccola, che viene disonorata da don Michele il brigadiere, lascia il paese e di lei non si hanno più notizie. ‘Ntoni invece, insofferente e ribelle, ha conosciuto il mondo e non si rassegna alla vita di fatica e miseria alla fine della quale sa che lo aspetta solo “il vallone sotto il ponte per andare a creparvi”, fa parte a sé e lascia la famiglia; ma non avrà fortuna, finirà in galera e dopo un’ultima visita alla casa del nespolo abbandonerà per sempre il paese, è con la sua partenza dal paese che si chiude il romanzo.
Per raccontare la storia dei Malavoglia Verga inventa un narratore definito corale perché il racconto è narrato assumendo il punto di vista dei diversi personaggi e non da un punto di vista unico, come accade con il narratore onnisciente o anche con il narratore esterno dei romanzi naturalisti francesi; questo narratore che muta continuamente il suo punto di vista è stato definito “camaleontico” (G.Baldi, L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista in “Il materiale e l’immaginario”, Remo Ceserani, Lidia De Federicis, vol.4 edizione rossa, pp.1150-1153). Verga elimina ogni presentazione di personaggi e descrizione di ambienti, pur consapevole della “confusione che dovevano produrvi in mente alle prime pagine tutti quei personaggi messivi faccia a faccia senza alcuna presentazione” (lettera a Luigi Capuana del 25 febbraio 1881 in Introduzione a I Malavoglia, Oscar Mondadori, 1984, p.XX). La  lingua del romanzo è lontana dalla lingua letteraria e colta dei romanzi scritti fino ad allora, è una lingua che vuole sembrare quella parlata dai contadini e pescatori di Aci Trezza, che in realtà parlavano il dialetto siciliano; utilizza proverbi, modi di dire, espressioni di quel mondo, una sintassi semplice che predilige la paratassi e il discorso diretto e indiretto libero per raggiungere il massimo risultato di mimesi possibile.
Per raccontare il mondo di Aci Trezza Verga si documenta leggendo libri di storia, l’inchiesta sulla Sicilia di Franchetti e Sonnino, le raccolte di proverbi siciliani e altri testi; il suo intento nello scrivere il romanzo è di mettersi in mezzo ai suoi personaggi e condurci anche il lettore come se conoscesse già i personaggi del romanzo e avesse vissuto da sempre con loro “bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte tra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori” dice Verga nella novella Fantasticheria a una elegante signora del nord in visita con lui ad Aci Trezza per spiegarle come quel mondo possa essere interessante anche per loro, colti e ricchi signori. L’interesse per quel mondo è un interesse tutto letterario e artistico, non c’è paternalismo  né populismo, proprio per questo Verga riesce a dare la “rappresentazione più convincente che del mondo popolare sia stata data in Italia durante tutto l’Ottocento”. (Asor Rosa, “Il rifiuto della tazza del consòlo” in “Il materiale e l’immaginario”, Remo Ceserani, Lidia De Federicis, vol.4 edizione rossa, pp.1159-1160).
Nel 1947 Luchino Visconti gira La terra trema, tratto da I Malavoglia. Il film, girato in una Aci Trezza per nulla diversa da quella del romanzo, con attori non protagonisti che recitano in dialetto siciliano stretto, viene proiettato alla Mostra del cinema di Venezia nel 1948 . La Terra trema, secondo film neo-realista di Visconti dopo Ossessione del 1943 (tratto dal romanzo di James M. Cain The postman always rings twice), riadatta il romanzo di Verga per raccontare una storia di oppressione e rivolta, protagonista è ‘Ntoni, giovane pescatore che cerca inutilmente di liberarsi dallo sfruttamento dei grossisti di pesce.
Di seguito sono riportati de I Malavoglia la prefazione, il capitolo I e II e la prima parte del capitolo X.

Prefazione
Nella prefazione Verga presenta l’argomento del romanzo, ovvero come nascano le prime irrequietudini per il benessere, queste generano la “fiumana del progresso” . Tutte le classi sociali vi partecipano ma a livelli diversi; i pescatori e contadini de I Malavoglia lottano per i bisogni materiali e la sopravvivenza, salendo nella scala sociale la lotta è per la ricchezza, come in Mastro don Gesualdo, per vanità e ambizione come ne La duchessa di Leyra, l’Onorevole Scipioni e l’Uomo di lusso.
La rappresentazione artistica di ciò che avviene deve essere tale che la forma sia “inerente al soggetto”, ciò è più semplice quando si rappresenta il mondo dei contadini e pescatori, “Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice”, più complicato quando si rappresentano le classi sociali più elevate che nascondono i propri sentimenti e pensieri dietro il formalismo della buona educazione.
Il progresso è grandioso nel suo risultato ma miete vittime, i cosiddetti vinti, a questi l’autore rivolge la sua attenzione ” ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani. I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l ’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati …”.

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra ; e ambizione nell’ Onorevole Scipioni , per arrivare all’ Uomo di lusso , il quale riunisce tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perché la riproduzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale.
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorio universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani. I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l ’Onorevole Scipioni, l ’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione – dall’umile pescatore al nuovo arricchito – alla intrusa nelle alte classi – all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di domi- nare gli altri uomini; di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge – all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.
Milano, 19 gennaio 1881

Capitolo I: l’inizio della storia
Nel primo capitolo del romanzo Verga conduce il lettore in mezzo ai suoi personaggi come se questi li conoscesse già e fosse vissuto con loro e in quell’ambiente da sempre (lettera a Felice Cameroni del 27 febbraio 1881, in Introduzione a I Malavoglia, Oscar Mondadori, 1984, p.XIX).
L’azione ha inizio nel dicembre del 1863 quando ‘Ntoni parte per la leva di mare. Padron ‘Ntoni per tirare avanti la casa del nespolo, ora che mancano le braccia del più grande dei nipoti, combina con lo zio Crocifisso Campana di legno, l’usuraio del paese, “un negozio di lupini”, ovvero acquista a credito un carico di lupini, che viene imbarcato sulla Provvidenza, per essere venduto a Riposto, porto poco più a nord di Aci Trezza. La sera di un sabato di settembre di un anno non specificato, forse lo stesso 1863, la Provvidenza parte con il suo carico di lupini.

Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla . Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ‘Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso – un pugno che sembrava fatto di legno di noce – Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro. Diceva pure: – Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo. E la famigliuola di padron ‘Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo , perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città; e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «soffiati il naso» tanto che s’era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pigliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ‘Ntoni il maggiore, un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant’Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. – Alla domenica, quando entravano in chiesa, l’uno dietro l’altro, pareva una processione. Padron ‘Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi : «Perché il motto degli antichi mai mentì»: – «Senza pilota barca non cammina» – «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» – oppure – «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» – «Contentati di quel che t’ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose. Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron ‘Ntoni passava per testa quadra, al punto che a Trezza l’avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello, onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria. Padron ‘Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e soleva dire: «Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole» perché «chi comanda ha da dar conto” .
Nel dicembre 1863, ‘Ntoni, il maggiore dei nipoti, era stato chiamato per la leva di mare. Padron ‘Ntoni allora era corso dai pezzi grossi del paese, che son quelli che possono aiutarci. Ma don Giammaria, il vicario, gli avea risposto che gli stava bene, e questo era il frutto di quela rivoluzione di satanasso che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile. Invece don Franco lo speziale si metteva a ridere fra i peli della barbona, e gli giurava fregandosi le mani che se arrivavano a mettere assieme un po’ di repubblica, tutti quelli della leva e delle tasse li avrebbero presi a calci nel sedere, ché soldati non ce ne sarebbero stati più, e invece tutti sarebbero andati alla guerra, se bisognava. Allora padron ‘Ntoni lo pregava e lo strapregava per l’amor di Dio di fargliela presto la repubblica, prima che suo nipote ‘Ntoni andasse soldato, come se don Franco ce l’avesse in tasca; tanto che lo speziale finì coll’andare in collera. Allora don Silvestro il segretario si smascellava dalle risa a quei discorsi, e finalmente disse lui che con un certo gruzzoletto fatto scivolare in tasca a tale e tal altra persona che sapeva lui, avrebbero saputo trovare a suo nipote un difetto da riformarlo. Per disgrazia il ragazzo era fatto con coscienza, come se ne fabbricano ancora ad Aci Trezza, e il dottore della leva, quando si vide dinanzi quel pezzo di giovanotto, gli disse che aveva il difetto di esser piantato come un pilastro su quei piedacci che sembravano pale di ficodindia; ma i piedi fatti a pala di ficodindia ci stanno meglio degli stivalini stretti sul ponte di una corazzata, in certe giornataccie; e perciò si presero ‘Ntoni senza dire «permettete». La Longa, mentre i coscritti erano condotti in quartiere, trottando trafelata accanto al passo lungo del figliuolo, gli andava raccomandando di tenersi sempre sul petto l’abitino della Madonna, e di mandare le notizie ogni volta che tornava qualche conoscente dalla città, che poi gli avrebbero mandati i soldi per la carta. Il nonno, da uomo, non diceva nulla; ma si sentiva un gruppo nella gola anch’esso, ed evitava di guardare in faccia la nuora, quasi ce l’avesse con lei. Così se ne tornarono ad Aci Trezza zitti zitti e a capo chino. Bastianazzo, che si era sbrigato in fretta dal disarmare la Provvidenza , per andare ad aspettarli in capo alla via, come li vide comparire a quel modo, mogi mogi e colle scarpe in mano, non ebbe animo di aprir bocca, e se ne tornò a casa con loro. La Longa corse subito a cacciarsi in cucina, quasi avesse furia di trovarsi a quattr’occhi colle vecchie stoviglie, e padron ‘Ntoni disse al figliuolo: – Va a dirle qualche cosa, a quella poveretta; non ne può più. Il giorno dopo tornarono tutti alla stazione di Aci Castello per veder passare il convoglio dei coscritti che an- davano a Messina, e aspettarono più di un’ora, pigiati dalla folla, dietro lo stecconato. Finalmente giunse il treno, e si videro tutti quei ragazzi che annaspavano, col capo fuori dagli sportelli, come fanno i buoi quando sono condotti alla fiera. I canti, le risate e il baccano erano tali che sembrava la festa di Trecastagni, e nella ressa e nel frastuono ci si dimenticava perfino quello stringimento di cuore che si aveva prima. – Addio ‘Ntoni! – Addio mamma! – Addio! ricordati! ricordati! – Lì presso, sull’argine della via, c’era la Sara di comare Tudda, a mietere l’erba pel vitello; ma comare Venera la Zuppidda andava soffiando che c’era venuta per salutare ‘Ntoni di padron ‘Ntoni, col quale si parlavano dal muro dell’orto, li aveva visti lei, con quegli occhi che dovevano mangiarseli i vermi. Certo è che ‘Ntoni salutò la Sara colla mano, ed ella rimase colla falce in pugno a guardare finché il treno non si mosse. Alla Longa, l’era parso rubato a lei quel saluto; e molto tempo dopo, ogni volta che incontrava la Sara di comare Tudda, nella piazza o al lavatoio, le voltava le spalle. Poi il treno era partito fischiando e strepitando in modo da mangiarsi i canti e gli addii. E dopo che i curiosi si furono dileguati, non rimasero che alcune donnicciuole, e qualche povero diavolo, che si tenevano ancora stretti ai pali dello stecconato, senza saper perché. Quindi a poco a poco si sbrancarono anch’essi, e padron ‘Ntoni, indovinando che la nuora dovesse avere la bocca amara, le pagò due centesimi di acqua col limone. Comare Venera la Zuppidda, per confortare comare la Longa, le andava dicendo: – Ora mettetevi il cuore in pace, che per cinque anni bisogna fare come se vostro figlio fosse morto, e non pensarci più. Ma pure ci pensavano sempre, nella casa del nespolo, o per certa scodella che le veniva tutti i giorni sotto mano alla Longa nell’apparecchiare il deschetto, o a proposito di certa ganza che ‘Ntoni sapeva fare meglio di ogni altro alla funicella della vela, e quando si trattava di serrare una scotta tesa come una corda di violino, o di alare una parommella che ci sarebbe voluto l’argano. Il nonno ansimando cogli ohi! ooohi! intercalava – Qui ci vorrebbe ‘Ntoni – oppure – Vi pare che io abbia il polso di quel ragazzo? La madre, mentre ribatteva il pettine sul telaio – uno! due! tre! – pensava a quel bum bum della macchina che le aveva portato via il figliuolo, e le era rimasto sul cuore, in quel gran sbalordimento, e le picchiava ancora dentro il petto, – uno! due! tre! Il nonno poi aveva certi singolari argomenti per confortarsi, e per confortare gli altri: – Del resto volete che vel dica? Un po’ di soldato gli farà bene a quel ragazzo; ché il suo paio di braccia gli piaceva meglio di portarsele a spasso la domenica, anziché servirsene a buscarsi il pane. Oppure: – Quando avrà provato il pane salato che si mangia altrove, non si lagnerà più della minestra di casa sua. Finalmente arrivò da Napoli la prima lettera di ‘Ntoni, che mise in rivoluzione tutto il vicinato. Diceva che le donne, in quelle parti là, scopavano le strade colle gon- nelle di seta, e che sul molo c’era il teatro di Pulcinella, e si vendevano delle pizze, a due centesimi, di quelle che mangiano i signori, e senza soldi non ci si poteva stare, e non era come a Trezza, dove se non si andava all’osteria della Santuzza non si sapeva come spendere un baiocco. – Mandiamogli dei soldi per comperarsi le pizze, al goloso! brontolava padron ‘Ntoni; già lui non ci ha colpa, è fatto così; è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero un chiodo arrugginito. Se non l’avessi tenuto a battesimo su queste braccia, direi che don Giammaria gli ha messo in bocca dello zucchero invece di sale. La Mangiacarrubbe , quando al lavatoio c’era anche Sara di comare Tudda, tornava a dire: – Sicuro! le donne vestite di seta aspettavano apposta ‘Ntoni di padron ‘Ntoni per rubarselo; che non ne avevano visti mai dei cetriuoli laggiù! Le altre si tenevano i fianchi dal ridere, e d’allora in poi le ragazze inacidite lo chiamarono «cetriuolo». ‘Ntoni aveva mandato anche il suo ritratto, l’avevano visto tutte le ragazze del lavatoio, come la Sara di comare Tudda lo faceva passare di mano in mano, sotto il grembiule, e la Mangiacarrubbe schiattava dalla gelosia. Pareva San Michele Arcangelo in carne ed ossa, con quei piedi posati sul tappeto, e quella cortina sul capo, come quella della Madonna dell’Ognina, così bello, lisciato e ripulito che non l’avrebbe riconosciuto più la mamma che l’aveva fatto; e la povera Longa non si saziava di guardare il tappeto e la cortina e quella colonna contro cui il suo ragazzo stava ritto impalato, grattando colla mano la spalliera di una bella poltrona; e ringraziava Dio e i santi che avevano messo il suo figliuolo in mezzo a tutte quelle galanterie. Ella teneva il ritratto sul canterano, sotto la campana del Buon Pastore – che gli diceva le avemarie – andava dicendo la Zuppidda, e si credeva di averci un tesoro sul canterano, mentre suor Mariangela la Santuzza ce ne aveva un altro, tal quale chi voleva vederlo, che glielo aveva regalato compare Mariano Cinghialenta , e lo teneva inchiodato sul banco dell’osteria, dietro i bicchieri. Ma dopo un po’ di tempo ‘Ntoni aveva pescato un camerata che sapeva di lettere, e si sfogava a lagnarsi della vitaccia di bordo, della disciplina, dei superiori, del riso lungo e delle scarpe strette. – Una lettera che non valeva i venti centesimi della posta! borbottava padron ‘Ntoni. La Longa se la prendeva con quegli sgorbj, che sembravano ami di pesceluna, e non potevano dir nulla di buono. Bastianazzo dimenava il capo e faceva segno di no, che così non andava bene, e se fosse stato in lui ci avrebbe messo sempre delle cose allegre, da far ridere il cuore agli altri, lì sulla carta, – e vi appuntava un dito grosso come un regolo da forcola – se non altro per compassione della Longa, la quale, poveretta, non si dava pace, e sembrava una gatta che avesse perso i gattini. Padron ‘Ntoni andava di nascosto a farsi leggere la lettera dallo speziale, e poi da don Giammaria, che era del partito contrario, affine di sentire le due campane, e quando si persuadeva che era scritto proprio così, ripeteva con Bastianazzo, e con la moglie di lui: – Non ve lo dico io che quel ragazzo avrebbe dovuto nascer ricco, come il figlio di padron Cipolla, per stare a grattarsi la pancia senza far nulla! Intanto l’annata era scarsa e il pesce bisognava darlo per l’anima dei morti, ora che i cristiani avevano imparato a mangiar carne anche il venerdì come tanti turchi. Per giunta le braccia rimaste a casa non bastavano più al governo della barca, e alle volte bisognava prendere a giornata Menico della Locca , o qualchedun altro. Il re faceva così, che i ragazzi se li pigliava per la leva quando erano atti a buscarsi il pane; ma sinché erano di peso alla famiglia, avevano a tirarli su per soldati; e bisognava pensare ancora che la Mena entrava nei diciassett’anni, e cominciava a far voltare i giovanotti quando andava a messa. «L’uomo è il fuoco, e la donna è la stoppa: viene il diavolo e soffia». Perciò si doveva aiutarsi colle mani e coi piedi per mandare avanti quella barca della casa del nespolo. Padron ‘Ntoni adunque, per menare avanti la barca, aveva combinato con lo zio Crocifisso Campana di legno un negozio di certi lupini da comprare a credenza per venderli a Riposto, dove compare Cinghialenta aveva detto che c’era un bastimento di Trieste a pigliar carico. Veramente i lupini erano un po’ avariati; ma non ce n’erano altri a Trezza, e quel furbaccio di Campana di legno sapea pure che la Provvidenza se la mangiava inutilmente il sole e l’acqua, dov’era ammarrata sotto il lavatoio, senza far nulla; perciò si ostinava a fare il minchione. – Eh? non vi conviene? lasciateli! Ma un centesimo di meno non posso, in coscienza! che l’anima ho da darla a Dio! – e dimenava il capo che pareva una campana senza batacchio davvero. Questo discorso avveniva sulla porta della chiesa dell’Ognina, la prima domenica di settembre, che era stata la festa della Madonna, con gran concorso di tutti i paesi vicini; e c’era anche compare Agostino Piedipapera , il quale colle sue barzellette riuscì a farli mettere d’accordo sulle due onze e dieci a salma, da pagarsi «col violino» a tanto il mese. Allo zio Crocifisso gli finiva sempre così, che gli facevano chinare il capo per forza, come Peppinino, perché aveva il maledetto vizio di non sapere dir di no. – Già! voi non sapete dir di no, quando vi conviene, sghignazzava Piedipapera. Voi siete come le… e disse come. Allorché la Longa seppe del negozio dei lupini, dopo cena, mentre si chiacchierava coi gomiti sulla tovaglia, rimase a bocca aperta; come se quella grossa somma di quarant’onze se la sentisse sullo stomaco. Ma le donne hanno il cuore piccino, e padron ‘Ntoni dovette spiegarle che se il negozio andava bene c’era del pane per l’inverno, e gli orecchini per Mena, e Bastiano avrebbe potuto andare e venire in una settimana da Riposto, con Menico della Locca. Bastiano intanto smoccolava la candela senza dir nulla. Così fu risoluto il negozio dei lupini, e il viaggio della Provvidenza che era la più vecchia delle barche del villaggio, ma aveva il nome di buon augurio. Maruzza se ne sentiva sempre il cuore nero, ma non apriva bocca, perché non era affar suo, e si affaccendava zitta zitta a mettere in ordine la barca e ogni cosa pel viaggio, il pane fresco, l’orciolino coll’olio, le cipolle, il cappotto foderato di pelle, sotto la pedagna e nella scaffetta. Gli uomini avevano avuto un gran da fare tutto il giorno, con quell’usuraio dello zio Crocifisso, il quale aveva venduto la gatta nel sacco, e i lupini erano avariati. Campana di legno diceva che lui non ne sapeva nulla, come è vero Iddio! «Quel ch’è di patto non è d’inganno»; che l’anima lui non doveva darla ai porci! e Piedipapera schiamazzava e bestemmiava come un ossesso per metterli d’accordo, giurando e spergiurando che un caso simile non gli era capitato da che era vivo; e cacciava le mani nel mucchio dei lupini e li mostrava a Dio e alla Madonna, chiamandoli a testimoni. Infine, rosso, scalmanato, fuori di sé, fece una proposta disperata, e la piantò in faccia allo zio Crocifisso rimminchionito, e ai Malavoglia coi sacchi in mano: – Là! pagateli a Natale, invece di pagarli a tanto al mese, e ci avrete un risparmio di un tarì a salma! La finite ora, santo diavolone? – E cominciò ad insaccare: – In nome di Dio, e uno! La Provvidenza partì il sabato verso sera, e doveva esser suonata l’avemaria, sebbene la campana non si fosse udita, perché mastro Cirino il sagrestano era andato a portare un paio di stivaletti nuovi a don Silvestro il segretario; in quell’ora le ragazze facevano come uno stormo di passere attorno alla fontana, e la stella della sera era già bella e lucente, che pareva una lanterna appesa all’antenna della Provvidenza . Maruzza colla bambina in collo se ne stava sulla riva, senza dir nulla, intanto che suo marito sbrogliava la vela, e la Provvidenza si dondolava sulle onde rotte dai fariglioni come un’anitroccola. – «Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare senza paura», diceva padron ‘Ntoni dalla riva, guardando verso la montagna tutta nera di nubi. Menico della Locca, il quale era nella Provvidenza con Bastianazzo, gridava qualche cosa che il mare si mangiò. – Dice che i denari potete mandarli a sua madre, la Locca, perché suo fratello è senza lavoro; aggiunse Bastianazzo, e questa fu l’ultima sua parola che si udì.

Capitolo III: il naufragio della Provvidenza
Nel terzo capitolo, il più breve del romanzo, viene raccontato l’evento generatore di tutta la vicenda: il naufragio della Provvidenza. È domenica “una brutta domenica di settembre, di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come una schioppettata fra i fichidindia”, tutte le barche del villaggio sono tirate sulla spiaggia, solo la Provvidenza è in mare. La giornata trascorre come al solito, tutto il paese si ritrova in chiesa, solo i Malavoglia non ci sono, padron ‘Ntoni è sulla riva a guardare il mare in tempesta, Maruzza la Longa è rimasta a casa. A sera con i figli va ad ad “aspettare sulla sciara , d’onde si scopriva un bel pezzo di mare”, e resta lì  finché un paesano non la riporta a casa.

Dopo la mezzanotte il vento s’era messo a fare il diavolo, come se sul tetto ci fossero tutti i gatti del paese, e a scuotere le imposte. Il mare si udiva muggire attorno ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di sant’Alfio, e il giorno era apparso nero peggio dell’anima di Giuda. Insomma una brutta domenica di settembre, di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come una schioppettata fra i fichidindia. Le barche del villaggio erano tirate sulla spiaggia, e bene ammarrate alle grosse pietre sotto il lavatoio; perciò i monelli si divertivano a vociare e fischiare quando si vedeva passare in lontananza qualche vela sbrindellata, in mezzo al vento e alla nebbia, che pareva ci avesse il diavolo in poppa; le donne invece si facevano la croce, quasi vedessero cogli occhi la povera gente che vi era dentro. Maruzza la Longa non diceva nulla, com’era giusto, ma non poteva star ferma un momento, e andava sempre di qua e di là, per la casa e pel cortile, che pareva una gallina quando sta per far l’uovo. Gli uomini erano all’osteria, e nella bottega di Pizzuto, o sotto la tettoia del beccaio, a veder piovere, col naso in aria. Sulla riva c’era soltanto padron ‘Ntoni, per quel carico di lupini che vi aveva in mare colla Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta, e il figlio della Locca, il quale non aveva nulla da perdere lui, e in mare non ci aveva altro che suo fratello Menico, nella barca dei lupini. Padron Fortunato Cipolla, mentre gli facevano la barba, nella bottega di Pizzuto, diceva che non avrebbe dato due baiocchi di Bastianazzo e di Menico della Locca, colla Provvidenza e il carico dei lupini. – Adesso tutti vogliono fare i negozianti, per arricchire! diceva stringendosi nelle spalle; e poi quando hanno perso la mula vanno cercando la cavezza. Nella bottega di suor Mariangela la Santuzza c’era folla: quell’ubbriacone di Rocco Spatu, il quale vociava e sputava per dieci; compare Tino Piedipapera, mastro Turi Zuppiddu, compare Mangiacarrubbe, don Michele il brigadiere delle guardie doganali, coi calzoni dentro gli stivali, e la pistola appesa sul ventre, quasi dovesse andare a caccia di contrabbandieri con quel tempaccio, e compare Mariano Cinghialenta. Quell’elefante di mastro Turi Zuppiddu andava distribuendo per ischerzo agli amici dei pugni che avrebbero accoppato un bue, come se ci avesse ancora in mano la malabestia di calafato, e allora compare Cinghialenta si metteva a gridare e bestemmiare, per far vedere che era uomo di fegato e carrettiere. Lo zio Santoro, raggomitolato sotto quel po’ di tettoia, davanti all’uscio, aspettava colla mano stesa che passasse qualcheduno per chiedere la carità. – Tra tutte e due, padre e figlia, disse compare Turi Zuppiddu, devono buscarne dei bei soldi, con una giornata come questa, e tanta gente che viene all’osteria. – Bastianazzo Malavoglia sta peggio di lui, a quest’ora, rispose Piedipapera, e mastro Cirino ha un bel suonare la messa; ma i Malavoglia non ci vanno oggi in chiesa; sono in collera con Domeneddio, per quel carico di lupini che ci hanno in mare. Il vento faceva volare le gonnelle e le foglie secche, sicché Vanni Pizzuto col rasoio in aria, teneva pel naso quelli a cui faceva la barba, per voltarsi a guardare chi passava, e si metteva il pugno sul fianco, coi capelli arricciati e lustri come la seta; e lo speziale se ne stava sull’uscio della sua bottega, sotto quel cappellaccio che sembrava avesse il paracqua in testa, fingendo aver discorsi grossi con don Silvestro il segretario, perché sua moglie non lo mandasse in chiesa per forza; e rideva del sotterfugio, fra i peli della barbona, ammiccando alle ragazze che sgambettavano nelle pozzanghere. – Oggi, andava dicendo Piedipapera, padron ‘Ntoni vuol fare il protestante come don Franco lo speziale. – Se fai di voltarti per guardare quello sfacciato di don Silvestro, ti dò un ceffone qui dove siamo; borbottava la Zuppidda colla figliuola, mentre attraversavano la piazza. – Quello lì non mi piace. La Santuzza, all’ultimo tocco di campana, aveva affidata l’osteria a suo padre, e se n’era andata in chiesa, tirandosi dietro gli avventori. Lo zio Santoro, poveretto, era cieco, e non faceva peccato se non andava a messa; così non perdevano tempo all’osteria, e dall’uscio poteva tener d’occhio il banco, sebbene non ci vedesse, ché gli avventori li conosceva tutti ad uno ad uno soltanto al sentirli camminare, quando venivano a bere un bicchiere. – Le calze della Santuzza, osservava Piedipapera, mentre ella camminava sulla punta delle scarpette, come una gattina – le calze della Santuzza, acqua o vento, non le ha viste altri che massaro Filippo l’ortolano; questa è la verità. – Ci sono i diavoli per aria! diceva la Santuzza facendosi la croce coll’acqua santa. – Una giornata da far pec- cati! La Zuppidda, lì vicino, abburattava avemarie, seduta sulle calcagna, e saettava occhiatacce di qua e di là, che pareva ce l’avesse con tutto il paese, e a quelli che volevano sentirla ripeteva: – Comare la Longa non ci viene in chiesa, eppure ci ha il marito in mare con questo tempaccio! Poi non bisogna stare a cercare perché il Signore ci castiga! – Persino la madre di Menico stava in chiesa, sebbene non sapesse far altro che veder volare le mosche! – Bisogna pregare anche pei peccatori; rispondeva la Santuzza; le anime buone ci sono per questo. – Sì, come se ne sta pregando la Mangiacarrubbe, col naso dentro la mantellina, e Dio sa che peccatacci fa fare ai giovanotti! La Santuzza scuoteva il capo, e diceva che mentre si è in chiesa non bisogna sparlare del prossimo – «Chi fa l’oste deve far buon viso a tutti», rispose la Zuppidda, e poi all’orecchio della Vespa: – La Santuzza non vorrebbe si dicesse che vende l’acqua per vino; ma farebbe meglio a non tenere in peccato mortale massaro Filippo l’ortolano, che ha moglie e figliuoli. – Per me, rispose la Vespa, gliel’ho detto a don Giammaria, che non voglio più starci fra le Figlie di Maria se ci lasciano la Santuzza per superiora. – Allora vuol dire che l’avete trovato il marito? rispose la Zuppidda. – Io non l’ho trovato il marito, saltò su la Vespa con tanto di pungiglione. Io non sono come quelle che si tirano dietro gli uomini anche in chiesa, colle scarpe verniciate, e quelli altri colla pancia grossa. Quello della pancia grossa era Brasi, il figlio di padron Cipolla, il quale era il cucco delle mamme e delle ragazze, perché possedeva vigne ed oliveti. – Va a vedere se la paranza è bene ammarrata; gli disse suo padre facendosi la croce. Ciascuno non poteva a meno di pensare che quell’acqua e quel vento erano tutt’oro per i Cipolla; così vanno le cose di questo mondo, che i Cipolla, adesso che avevano la paranza bene ammarrata, si fregavano le mani vedendo la burrasca; mentre i Malavoglia diventavano bianchi e si strappavano i capelli, per quel carico di lupini che avevano preso a credenza dallo zio Crocifisso Campana di legno. – Volete che ve la dica? saltò su la Vespa; la vera disgrazia è toccata allo zio Crocifisso che ha dato i lupini a credenza. «Chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno». Lo zio Crocifisso se ne stava ginocchioni a piè dell’altare dell’Addolorata, con tanto di rosario in mano, e intuonava le strofette con una voce di naso che avrebbe toccato il cuore a satanasso in persona. Fra un’avemaria e l’altra si parlava del negozio dei lupini, e della Provvidenza che era in mare, e della Longa che rimaneva con cinque figliuoli. – Al giorno d’oggi, disse padron Cipolla, stringendosi nelle spalle, nessuno è contento del suo stato e vuol pigliare il cielo a pugni. – Il fatto è, conchiuse compare Zuppiddu, che sarà una brutta giornata pei Malavoglia. – Per me, aggiunse Piedipapera, non vorrei trovarmi nella camicia di compare Bastianazzo. La sera scese triste e fredda; di tanto in tanto soffiava un buffo di tramontana, e faceva piovere una spruzzatina d’acqua fina e cheta: una di quelle sere in cui, quando si ha la barca al sicuro, colla pancia all’asciutto sulla sabbia, si gode a vedersi fumare la pentola dinanzi, col marmocchio fra le gambe, e sentire le ciabatte della donna per la casa, dietro le spalle. I fannulloni preferivano godersi all’osteria quella domenica che prometteva di durare anche il lunedì, e fin gli stipiti erano allegri della fiamma del focolare, tanto che lo zio Santoro, messo lì fuori colla mano stesa e il mento sui ginocchi, s’era tirato un po’ in qua, per scaldarsi la schiena anche lui. – E’ sta meglio di compare Bastianazzo, a quest’ora! ripeteva Rocco Spatu, accendendo la pipa sull’uscio. E senza pensarci altro mise mano al taschino, e si lasciò andare a fare due centesimi di limosina. – Tu ci perdi la tua limosina a ringraziare Dio che sei al sicuro, gli disse Piedipapera; per te non c’è pericolo che abbi a fare la fine di compare Bastianazzo. Tutti si misero a ridere della barzelletta, e poi stettero a guardare dall’uscio il mare nero come la sciara , senza dir altro. – Padron ‘Ntoni è andato tutto il giorno di qua e di là, come avesse il male della tarantola, e lo speziale gli domandava se faceva la cura del ferro, o andasse a spasso con quel tempaccio, e gli diceva pure: – Bella Provvidenza , eh! padron ‘Ntoni! Ma lo speziale è protestante ed ebreo, ognuno lo sapeva. Il figlio della Locca, che era lì fuori colle mani in tasca perché non ci aveva un soldo, disse anche lui: – Lo zio Crocifisso è andato a cercare padron ‘Ntoni con Piedipapera, per fargli confessare davanti a testimoni che i lupini glieli aveva dati a credenza. – Vuol dire che anche lui li vede in pericolo colla Provvidenza. – Colla Provvidenza c’è andato anche mio fratello Menico, insieme a compare Bastianazzo. – Bravo! questo dicevamo, che se non torna tuo fratello Menico tu resti il barone della casa. – C’è andato perché lo zio Crocifisso voleva pagargli la mezza giornata anche a lui, quando lo mandava colla paranza, e i Malavoglia invece gliela pagavano intiera; rispose il figlio della Locca senza capir nulla; e come gli altri sghignazzavano rimase a bocca aperta. Sull’imbrunire comare Maruzza coi suoi figlioletti era andata ad aspettare sulla sciara , d’onde si scopriva un bel pezzo di mare, e udendolo urlare a quel modo trasaliva e si grattava il capo senza dir nulla. La piccina piangeva, e quei poveretti, dimenticati sulla sciara , a quell’ora, parevano le anime del purgatorio. Il piangere della bambina le faceva male allo stomaco, alla povera donna, le sembrava quasi un malaugurio; non sapeva che inventare per tranquillarla, e le cantava le canzonet- te colla voce tremola che sapeva di lagrime anche essa. Le comari, mentre tornavano dall’osteria coll’orciolino dell’olio, o col fiaschetto del vino, si fermavano a barattare qualche parola con la Longa senza aver l’aria di nulla, e qualche amico di suo marito Bastianazzo, compar Cipolla, per esempio, o compare Mangiacarrubbe, passando dalla sciara per dare un’occhiata verso il mare, e vedere di che umore si addormentasse il vecchio brontolone, andavano a domandare a comare la Longa di suo marito, e stavano un tantino a farle compagnia, fumandole in silenzio la pipa sotto il naso, o parlando sottovoce fra di loro. La poveretta, sgomenta da quelle attenzioni insolite, li guardava in faccia sbigottita, e si stringeva al petto la bimba, come se volessero rubargliela. Finalmente il più duro o il più compassionevole la prese per un braccio e la condusse a casa. Ella si lasciava condurre, e badava a ripetere: – Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria! – I figliuoli la seguivano aggrappandosi alla gonnella, quasi avessero paura che rubassero qualcosa anche a loro. Mentre passavano dinanzi all’osteria, tutti gli avventori si affacciarono sulla porta, in mezzo al gran fumo, e tacquero per vederla passare come fosse già una cosa curiosa. – Requiem eternam, biascicava sottovoce lo zio Santoro, quel povero Bastianazzo mi faceva sempre la carità, quando padron ‘Ntoni gli lasciava qualche soldo in tasca. La poveretta che non sapeva di essere vedova, balbettava: – Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria! Dinanzi al ballatoio della sua casa c’era un gruppo di vicine che l’aspettavano, e cicalavano a voce bassa fra di loro. Come la videro da lontano, comare Piedipapera e la cugina Anna le vennero incontro, colle mani sul ventre, senza dir nulla. Allora ella si cacciò le unghie nei capelli con uno strido disperato e corse a rintanarsi in casa. – Che disgrazia! dicevano sulla via. E la barca era carica! Più di quarant’onze di lupini!

Capitolo X: il secondo naufragio della Provvidenza
Il dieci, il più lungo e intricato del romanzo, è il capitolo di svolta del romanzo. I Malavoglia si danno da fare per tirare avanti e nonostante la perdita della casa del nespolo e la morte di Luca in guerra, le cose volgono al meglio.
Il capitolo si apre con un nuovo naufragio della Provvidenza, questa volta a bordo ci sono il nonno, ‘Ntoni e Alessi. Padron ‘Ntoni rimane ferito e sembra che debba morire, invece si salva e la famiglia piano piano si riprende. La Longa “aveva messo sulla porta un panchettino” dove vendeva arance, noci, uova sode, olive, così avevano potuto rattoppare un’altra volta la Provvidenza, comprare i barili e il sale per le acciughe e mettere da parte il denaro per ricomprare la casa del nespolo, “Facciamo come le formiche” diceva padron ‘Ntoni. A San Francesco, ossia agli inizi di ottobre, c’era stata “una passata di acciughe come mai se n’erano viste; una ricchezza per tutto il paese” e specialmente per i Malavoglia. Ma dopo questo capitolo tutto precipita, le disgrazie si accumulano l’una sull’altra e la rovina dei Malavoglia è inarrestabile. A Catania si diffonde un’epidemia di colera, le acciughe non si vendono più, la Longa muore di colera, ‘Ntoni se ne va e torna lacero e pezzente, senza neanche le scarpe, i Malavoglia devono vendere la Provvidenza “per un pezzo di pane” e sono costretti ad andare a lavorare a giornata, da padroni che erano, i matrimoni di Mena e ‘Ntoni saltano, Lia si perde e ‘Ntoni va in galera, alla fine i Malavoglia non avranno “più niente da perdere”.
Di seguito è riportata la prima parte del capitolo con il naufragio della Provvidenza.

‘Ntoni andava a spasso sul mare tutti i santi giorni, e gli toccava camminare coi remi, logorandosi la schiena. Però quando il mare era cattivo, e voleva inghiottirseli in un boccone, loro, la Provvidenza e ogni cosa, quel ragazzo aveva il cuore più grande del mare. Il sangue dei Malavoglia! diceva il nonno; e bisognava vederlo alla manovra, coi capelli che gli fischiavano al vento, mentre la barca saltava sui marosi come un cefalo in amore. La Provvidenza si avventurava spesso al largo, così vecchia e rattoppata com’era, per amore di quel po’ di pesca, ora che nel paese c’erano tante barche che spazzavano il mare colla scopa. Anche in quei giorni in cui le nuvole erano basse, verso Agnone, e l’orizzonte tutto irto di punte nere al levante, si vedeva sempre la vela della Provvidenza come un fazzoletto da naso, lontano lontano nel mare color di piombo, e ognuno diceva che quelli di padron ‘Ntoni andavano a cercarsi i guai col candeliere. Padron ‘Ntoni rispondeva che andava a cercarsi il pane, e quando i sugheri scomparivano ad uno ad uno, nel mare largo che era verde come l’erba, e le casucce di Trezza sembravano una macchia bianca, tanto erano lontane, e intorno a loro non c’era che acqua, si metteva a chiacchierare coi nipoti dalla contentezza, che poi alla sera la Longa e tutti gli altri li avrebbero aspettati sulla riva, quando vedevano la vela far capolino tra i fariglioni , e sarebbero stati a guardare anche loro la pesca che saltellava nelle nasse e riempiva il fondo della barca come fosse d’argento; e padron ‘Ntoni soleva rispondere prima che nessuno avesse aperto bocca – Un quintale, o un quintale e venticinque – che non si sarebbe sbagliato di un rotolo; e poi se ne parlava tutta la sera, mentre le donne pestavano il sale fra i ciottoli, e quando contavano i barilotti ad uno ad uno, e lo zio Crocifisso veniva a vedere quel che avevano fatto, per gettare la sua offerta a occhi chiusi, e Piedipapera gridava e bestemmiava per dire il prezzo giusto, ché allora facevano piacere le grida di Piedipapera, già a questo mondo non bisogna restare in collera colla gente, e la Longa poi si contava a soldo a soldo davanti al suocero i denari che portava Piedipapera nel fazzoletto, e diceva: – Questi sono per la casa! Questi altri sono per la spesa. La Mena aiutava anch’essa a pestare il sale, e a mettere in ordine i barilotti, e ci aveva un’altra volta la veste turchina e la collana di corallo che avevano dovuto dare in pegno allo zio Crocifisso; ora le donne potevano tornare ad andare alla messa del paese, ché se qualche giovinotto gettava gli occhi sulla Mena, gliela stavano facendo, la sua dote. – Per me, diceva ‘Ntoni, menando il remo adagio adagio perché la corrente non li facesse derivare dal cerchio delle reti, mentre il nonno pensava a tutte quelle cose: – per me desidero questo soltanto, che quella carogna della Barbara s’abbia a mangiare i gomiti quando ci avremo il fatto nostro anche noi, e s’abbia a pentire d’avermi chiusa la porta in faccia. – «Il buon pilota si conosce alle burrasche»; rispondeva il vecchio. Quando saremo un’altra volta quel che siamo sempre stati, ognuno ci farà buon viso, e torneranno ad aprirci la porta. – Chi non ce l’ha chiusa in faccia, aggiunse Alessi, è stata la Nunziata, ed anche la cugina Anna. – «Carcere, malattie e necessità, si conosce l’amistà». Per questo il Signore le aiuta, costoro, con tutte quelle bocche che hanno in casa. – Quando la Nunziata va a far la legna nella sciara , o il fagotto della tela è troppo pesante per lei, l’aiuto anch’io, poveretta, disse Alessi. – Adesso aiuta a tirare da questa parte, ché san Francesco stavolta ha mandata la grazia di Dio! Il ragazzo tirava e puntava i piedi, e sbuffava che pareva facesse tutto lui. Intanto ‘Ntoni cantava, sdraiato sulla pedagna e colle braccia sotto il capo, a veder volare i gabbiani bianchi sul cielo turchino che non finiva mai, e la Provvidenza si dondolava sulle onde verdi, che venivano da lontano fin dove arrivava la vista. – Che vuol dire che il mare ora è verde, ora è turchino, e un’altra volta è bianco, e poi nero come la sciara , e non è sempre di un colore come dell’acqua che è? chiese Alessi. – È la volontà di Dio, rispose il nonno, così il marinaio sa quando può mettersi in mare senza timore, e quando è meglio non andarci. – Quei gabbiani hanno una bella sorte, che volano sempre in alto, e non hanno paura delle ondate se il mare è in tempesta. – Allora non hanno da mangiare nemmeno loro, povere bestiole. – Dunque tutti hanno bisogno del bel tempo, tale e quale come la Nunziata che non può andare alla fontana se piove, conchiuse Alessi – «Buon tempo e mal tempo non dura tutto il tempo», osservò il vecchio! Ma quando era mal tempo, o che soffiava il maestrale, e i sugheri ballavano sull’acqua tutto il giorno, come se ci fosse chi suonava il violino, o il mare era bianco al pari del latte, o crespo che sembrava che bollisse, e la pioggia si rovesciava sino a sera sulle loro spalle che non ci erano cappotti che bastassero, e il mare friggeva tutto intorno come il pesce nella padella, allora era un altro par di maniche, e ‘Ntoni non aveva voglia di cantare, col cappuccio sul naso, e gli toccava vuotare dall’acqua la Provvidenza che non si finiva più, e il nonno badava a ripetere «Mare bianco, scirocco in campo» o «mare crespo, vento fresco» come se fossero là per imparare i proverbi; e con quei benedetti proverbi; e con quei benedetti proverbi, mentre la sera stava a guardare il tempo dalla finestra col naso in aria, diceva pure «Quando la luna è rossa fa vento, quando è chiara vuol dire sereno; quando è pallida, pioverà». – Se lo sapete che pioverà perché torniamo ad andare in mare oggi? gli diceva ‘Ntoni. Non era meglio restarci in letto un altro par d’ore? – «Acqua di cielo, e sardelle alle reti!» rispondeva il vecchio. ‘Ntoni si dava l’anima al diavolo, coll’acqua a mezza gamba. – Stasera, gli diceva il nonno, la Maruzza ci farà trovare una bella fiammata e ci asciugheremo tutti. E la sera, sull’imbrunire, come la Provvidenza , colla pancia piena di grazia di Dio, tornava a casa, che la vela si gonfiava come la gonnella di donna Rosolina, e i lumi delle case ammiccavano ad uno ad uno dietro i fariglioni neri, e pareva che si chiamassero l’un l’altro, padron ‘Ntoni mostrava ai suoi ragazzi il bel fuoco che fiammeggiava nella cucina della Longa, in fondo al cortiletto della straduccia del Nero, che c’era il muro basso e dal mare si vedeva tutta la casa, colle quattro tegole sotto cui si appollaiavano le galline, e il forno dall’altro lato della porta. – Lo vedete che la Longa ce l’ha fatta trova- re la fiammata! – diceva tutto giulivo; e la Longa li aspettava sulla riva colle ceste pronte, che quando dovevano riportarsele indietro vuote non avevano voglia di ciarlare, ma invece se le ceste non bastavano, e Alessi doveva correre a casa a prenderne delle altre, il nonno si metteva le mani alla bocca per chiamare – Mena! oh Mena! – E Mena sapeva cosa voleva dire, e venivano tutti in processione, lei, la Lia, ed anche la Nunziata, con tutti i suoi pulcini dietro; allora era una festa, né si badava più al freddo, o alla pioggia, e davanti alla fiammata stavano a chiacchierare sino a tardi della grazia di Dio che aveva mandato san Francesco, e quel che si sarebbe fatto dei denari. Ma a quel giuoco da disperati si arrischiava la vita per qualche rotolo di pesce, e una volta i Malavoglia furono a un pelo di rimettercela tutti la pelle, per amor del guadagno, come Bastianazzo, mentre erano all’altezza dell’Agnone, verso sera, e il cielo era tanto fosco che non si vedeva più neppure l’Etna, e il vento soffiava a ondate che pareva avesse la parola. – Brutto tempo! diceva padron ‘Ntoni. Il vento oggi gira peggio della testa di una fraschetta, e il mare ha la faccia come quella di Piedipapera quando vuol farvi qualche brutto tiro. Il mare era del color della sciara , sebbene il sole non fosse ancora tramontato, e di tratto in tratto bolliva tutt’intorno come una pentola. – Adesso i gabbiani devono essere tutti a dormire; osservò Alessi. – A quest’ora avrebbero dovuto accendere il faro di Catania, disse ‘Ntoni, ma non si vede niente. – Tieni sempre la sbarra a greco, Alessi, ordinò il nonno, fra mezz’ora non ci si vedrà più peggio di essere in un forno. – Con questa brutta sera e’ sarebbe meglio trovarsi all’osteria della Santuzza. – O coricato nel tuo letto a dormire, non è vero? rispose il nonno; allora dovevi fare il segretario, come don Silvestro. Il povero vecchio aveva abbaiato tutto il giorno pei suoi dolori. – È il tempo che muta! diceva lui, lo sento nelle ossa io. Tutt’a un tratto si era fatto oscuro che non ci si vedeva più neanche a bestemmiare. Soltanto le onde, quando passavano vicino alla Provvidenza , luccicavano come avessero gli occhi e volessero mangiarsela; e nessuno osava dire più una parola, in mezzo al mare che muggiva fin dove c’era acqua. – Ho in testa, disse a un tratto ‘Ntoni, che stasera dovremmo dare al diavolo la pesca che abbiamo fatta. – Taci! gli disse il nonno, e la sua voce in quel buio li fece diventare tutti piccini piccini sul banco dov’erano. Si udiva il vento sibilare nella vela della Provvidenza e la fune che suonava come una corda di chitarra. All’improvviso il vento si mise a fischiare al pari della macchina della ferrovia, quando esce dal buco del monte, sopra Trezza, e arrivò un’ondata che non si era vista da dove fosse venuta, la quale
fece scricchiolare la Provvidenza come un sacco di noci, e la buttò in aria. – Giù la vela! giù la vela! gridò padron ‘Ntoni. Taglia! taglia subito! ‘Ntoni, col coltello fra i denti, s’era abbrancato come un gatto all’antenna, e ritto sulla sponda per far di contrappeso, si lasciò spenzolare sul mare che gli urlava sotto e se lo voleva mangiare. – Tienti forte! tienti forte! gli gridava il nonno in quel fracasso delle onde che lo volevano strappare di là, e buttavano in aria la Provvidenza e ogni cosa, e facevano piegare la barca tutta di un lato, che dentro ci avevano l’acqua sino ai ginocchi. Taglia! taglia! ripeteva il nonno. – Sacramento! esclamò ‘Ntoni. Se taglio, come faremo poi quando avremo bisogno della vela? – Non dire sacramento! che ora siamo nelle mani di Dio! Alessi s’era aggrappato al timone, e all’udire quelle parole del nonno cominciò a strillare – Mamma! mamma mia! – Taci! gli gridò il fratello col coltello fra i denti. Taci o ti assesto una pedata! – Fatti la croce, e taci! ripeté il nonno. Sicché il ragazzo non osò fiatare più. Ad un tratto la vela cadde tutta di un pezzo, tanto era tesa, e ‘Ntoni la raccolse in un lampo e l’ammainò stretta. – Il mestiere lo sai come tuo padre, gli disse il nonno, e sei Malavoglia anche tu. La barca si raddrizzò e fece prima un gran salto; poi seguitò a far capriole sulle onde. – Da’ qua il timone; ora ci vuole la mano ferma! disse padron ‘Ntoni; e malgrado che il ragazzo ci si fosse aggrappato come un gatto anche lui, arrivavano certe ondate che facevano sbattere il petto contro la manovella a tutt’e due. – Il remo! gridò ‘Ntoni, forza nel tuo remo, Alessi! che a mangiare sei buono anche tu. Adesso i remi valgono meglio del timone. La barca scricchiolava sotto lo sforzo poderoso di quel paio di braccia. E Alessi ritto contro la pedagna, ci dava l’anima sui remi come poteva anche lui. – Tienti fermo! gli gridò il nonno che appena si sentiva da un capo all’altro della barca, nel fischiare del vento – Tienti fermo, Alessi! – Sì, nonno, sì! rispose il ragazzo. – Che hai paura? gli disse ‘Ntoni. – No, rispose il nonno per lui. Soltanto raccomandiamoci a Dio. – Santo diavolone! esclamò ‘Ntoni col petto ansante, qui ci vorrebbero le braccia di ferro come la macchina del vapore. Il mare ci vince. Il nonno si tacque e stettero ad ascoltare la burrasca. – La mamma adesso dev’essere sulla riva a vedere se torniamo; disse poi Alessi. – Ora lascia stare la mamma, aggiunse il nonno, è meglio non ci pensare. – Adesso dove siamo? domandò ‘Ntoni dopo un altro bel pezzo, col fiato ai denti dalla stanchezza. – Nelle mani di Dio, rispose il nonno. – Allora lasciatemi piangere, esclamò Alessi che non ne poteva più. E si mise a strillare e a chiamare la mam- ma ad alta voce, in mezzo al rumore del vento e del ma- re; né alcuno osò sgridarlo più. – Hai un bel cantare, ma nessuno ti sente, ed è meglio starti cheto, gli disse infine il fratello con la voce mutata che non si conosceva più nemmen lui. Sta zitto che adesso non è bene far così, né per te, né per gli altri. – La vela! ordinò padron ‘Ntoni; il timone al vento verso greco, e poi alla volontà di Dio. Il vento contrastava forte alla manovra, ma in cinque minuti la vela fu spiegata, e la Provvidenza cominciò a balzare sulla cima delle onde, piegata da un lato come un uccello ferito. I Malavoglia si tenevano tutti da un lato, afferrati alla sponda; in quel momento nessuno fiatava, perché quando il mare parla in quel modo non si ha coraggio di aprir bocca. Padron ‘Ntoni disse soltanto: – A quest’ora laggiù dicono il rosario per noi. E non aggiunsero altro, correndo col vento e colle onde, nella notte che era venuta tutt’a un tratto nera come la pece. – Il fanale del molo, – gridò ‘Ntoni, – lo vedete? – A dritta! gridò padron ‘Ntoni, a dritta! Non è il fanale del molo. Andiamo sugli scogli. Serra! serra! – Non posso serrare! rispose ‘Ntoni colla voce soffocata dalla tempesta e dallo sforzo, la scotta è bagnata. Il coltello, Alessi, il coltello. – Taglia, taglia, presto. In questo momento s’udì uno schianto: la Provvidenza , che prima si era curvata su di un fianco, si rilevò come una molla, e per poco non sbalzò tutti in mare; l’antenna insieme alla vela cadde sulla barca rotta come un filo di paglia. Allora si udì una voce che gridava: – Ahi! come di uno che stesse per morire. – Chi è? chi è che grida? domandava ‘Ntoni aiutandosi coi denti e col coltello a tagliare le rilinghe della vela, la quale era caduta coll’antenna sulla barca e copriva ogni cosa. Ad un tratto un colpo di vento la strappò netta e se la portò via sibilando. Allora i due fratelli poterono sbrogliare del tutto il troncone dell’antenna e buttarlo in mare. La barca si raddrizzò, ma padron ‘Ntoni non si raddrizzò, lui, e non rispondeva più a ‘Ntoni che lo chiamava. Ora, quando il mare e il vento gridano insieme, non c’è cosa che faccia più paura del non udirsi rispondere alla voce che chiama. – Nonno, nonno! gridava anche Alessi, e al non udir più nulla, i capelli si rizzarono in capo, come fossero vivi, ai due fratelli. La notte era così nera che non si vedeva da un capo all’altro della Provvidenza , tanto che Alessi non piangeva più dal terrore. Il nonno era disteso in fondo alla barca, colla testa rotta. ‘Ntoni finalmente lo trovò tastoni e gli parve che fosse morto, perché non fiatava e non si moveva affatto. La stanga del timone urtava di qua e di là, mentre la barca saltava in aria e si inabissava. – Ah! san Francesco di Paola! Ah! san Francesco benedetto! strillavano i due ragazzi, ora che non sapevano più che fare. San Francesco misericordioso li udì, mentre andava per la burrasca in soccorso dei suoi devoti, e stese il suo mantello sotto la Provvidenza , giusto quando stava per spaccarsi come un guscio di noce sullo scoglio dei colombi , sotto la guardiola della dogana. La barca saltò come un puledro sullo scoglio, e venne e cadere in secco, col naso in giù. – Coraggio, coraggio! gridavano loro le guardie dalla riva, e correvano qua e là colle lanterne a gettare delle corde. – Siam qui noi! fatevi animo! – Finalmente una delle corde venne a cadere a traverso della Provvidenza , la quale tremava come una foglia, e batté giusto sulla faccia a ‘Ntoni peggio di un colpo di frusta, ma in quel momento gli parve meglio di una carezza. – A me! a me! gridò afferrando la fune che scorreva rapidamente e gli voleva scivolare dalle mani. Alessi vi si aggrappò anche lui con tutte le sue forze, e così riescirono ad avvolgerla due o tre volte alla sbarra del timone, e le guardie doganali li tirarono a riva. Padron ‘Ntoni però non dava più segno di vita, e allorché accostarono la lanterna si vide che aveva la faccia sporca di sangue, sicché tutti lo credettero morto, e i nipoti si strappavano i capelli.