Canzone al Metauro di Torquato Tasso

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La Canzone al Metauro venne scritta nel 1578 e rimase interrotta alla terza strofa. Tasso la scrive nell’anno di peregrinazioni che segue alla fuga dal convento di San Francesco di Ferrara, dove era stato rinchiuso in seguito ai dissapori con la corte estense.
Nelle tre strofe della canzone Tasso ripercorre gli eventi più significativi della sua vita. La canzone si apre con l’invocazione al fiume Metauro e ai Della Rovere, signori di Urbino, perché lo accolgano e proteggano. I Della Rovere sono rappresentati dall’immagine della quercia, lo stemma della famiglia. Alla corte di Urbino Tasso si augura di poter trovare protezione dai colpi della fortuna crudele, che lo perseguita nonostante lui cerchi di sfuggirle (vv.1-20). La persecuzione ha avuto inizio fin dai primi giorni di vita: Tasso, nato a Napoli, evocata attraverso la figura della sirena Partenope sepolta nella città secondo il mito, venne da bambino tolto alla madre, che non poté mai più riabbracciare. Tasso, ancora piccolo e incerto nei suoi passi, seguì il padre che viaggiava di corte in corte (vv.21-40). Cresciuto lontano da casa e in povertà il poeta divenne ben presto esperto del dolore, l’asprezza della vita lo rese maturo, nonostante la giovane età. Il padre povero e vecchio lo affiancava nel dolore e nella sventura. Il poeta lo ha assistito vecchio e malato e pianto da morto. Il padre, ora in cielo, è degno di essere ricordato con onore, Tasso rimane solo con il proprio dolore (vv.41-60).
In questo testo autobiografico, scritto in un periodo di smarrimento e tristezza, il poeta commisera sé stesso e la propria cattiva sorte ed esprime il desiderio di essere protetto e accolto, come un bambino che ha bisogno dei suoi genitori, senza i quali si sente perduto. Tasso ricorda i primi anni della propria vita e i suoi genitori, entrambi morti. La giovane madre piangente, dalle cui braccia il piccolo Tasso è stato strappato, il vecchio padre ammalato e poi morto su cui il poeta, troppo presto maturo, veglia e piange, sono le immagini simboliche delle ferite che la sorte ha inflitto al poeta e che continuano a dolere. Lo stile è alto e solenne, Tasso utilizza la forma metrica della canzone petrarchesca, tradizionalmente destinata a testi seri di argomento impegnato. Il testo è intessuto di riferimenti letterari a Dante (v.27), Petrarca (v.34), Virgilio (v.40).

1 O del grand’Apennino
figlio picciolo sì ma glorioso,
e di nome, più chiaro assai che d’onde;
fugace peregrino
a queste tue cortesi amiche sponde
per sicurezza vengo e per riposo.
L ‘alta Quercia che tu bagni e feconde
con dolcissimi umori, ond’ella spiega
i rami sì ch’i monti e i mari ingombra,
mi ricopra con l’ombra.
L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega
al suo fresco gentil riposo e sede,
entro al piú denso mi raccoglia e chiuda,
sì ch’io celato sia da quella cruda
e cieca dèa, ch’è cieca e pur mi vede,
ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ‘n valle
e per solingo calle
notturno io mova e sconosciuto il piede;
e mi saetta sì che ne’ miei mali
mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali.

Il poeta si rivolge al fiume Metauro e lo chiama figlio piccolo ma glorioso del grande Appennino, famoso per il suo nome più che per le sue onde (presso il piccolo fiume Metauro si era combattuta una famosa battaglia dei romani contro i cartaginesi).
Alle sue sponde cortesi e amiche il poeta pellegrino giunge in fuga per cercare protezione e riposo. Egli invoca l’alta Quercia, stemma dei signori di Urbino, i Della Rovere, che il fiume bagna ; le sue dolci acque fanno crescere i rami dell’albero che si stendono tra il mare e i monti, sotto la sua ombra il poeta vuole rifugiarsi. L’ombra sacra e ospitale, che non nega a nessuno di riposarsi al suo fresco, lo accolga e chiuda nella sua oscurità cosicché egli possa nascondersi dalla Fortuna, la dea cieca e crudele, che è cieca eppure lo vede nonostante egli si nasconda tra i monti e le valli e si muova di notte per strade deserte lo colpisce e ha tanti occhi per vedere quante frecce per colpire.

21 Ohimè! dal dì che pria
trassi l’aure vitali e i lumi apersi
in questa luce a me non mai serena,
fui de l’ingiusta e ria
trastullo e segno, e di sua man soffersi
piaghe che lunga età risalda a pena.
Sàssel la gloriosa alma sirena,
appresso il cui sepolcro ebbi la cuna:
così avuto v’avessi o tomba o fossa
a la prima percossa!
Me dal sen de la madre empia fortuna
pargoletto divelse. Ah! di quei baci,
ch’ella bagnò di lagrime dolenti,
con sospir mi rimembra e degli ardenti
preghi che se ‘n portár l’aure fugaci:
ch’io non dovea giunger più volto a volto
fra quelle braccia accolto
con nodi così stretti e sì tenaci.
Lasso! e seguii con mal sicure piante,
qual Ascanio o Camilla, il padre errante.

Dal giorno della nascita la vita è stata per lui dolorosa, egli è stato bersaglio e giocattolo della Fortuna ingiusta e malvagia che gli ha inflitto ferite che il tempo a fatica guarisce. La sirena Partenope, sepolta nella città di Napoli, conosce le sofferenze del poeta, che vorrebbe essere morto al primo colpo inflittogli dalla Fortuna, quando questa lo strappò dalle braccia della madre, qui il poeta ricorda quando all’età di dieci anni fu costretto a lasciare la madre per seguire il padre, dopo due anni la madre morì. Con dolore il poeta ricorda i baci, le lacrime e le calde preghiere, che si dispersero nel vento. Da allora non ha più abbracciato la madre. Infelice, ha seguito con passi incerti il padre errante di corte in corte, di città in città, come Ascanio, il figlio di Enea, o Camilla, la vergine guerriera di cui parla Virgilio nell’Eneide.

41 In aspro essiglio e ‘n dura
povertà crebbi in quei sì mesti errori;
intempestivo senso ebbi a gli affanni:
ch’anzi stagion, matura
l’acerbità de’ casi e de’ dolori
in me rendé l’acerbità de gli anni.
L’egra spogliata sua vecchiezza e i danni
narrerò tutti. Or che non sono io tanto
ricco de’ propri guai che basti solo
per materia di duolo?
Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?
Già scarsi al mio voler sono i sospiri,
e queste due d’umor sì larghe vene
non agguaglian le lagrime e le pene.
Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri,
egro e morto ti piansi, e ben tu il sai,
e gemendo scaldai
la tomba e il letto: or che ne gli alti giri
tu godi, a te si deve onor, non lutto:
a me versato il mio dolor sia tutto…

Nella terza strofa della canzone rimasta incompiuta il poeta ricorda gli anni trascorsi seguendo il padre, in povertà e tristezza ; in questi anni il giovane poeta conosce troppo presto i dolori della vita e diviene maturo prima del tempo. Ora racconterà la vecchiaia del padre e i suoi malanni. Ma non sono abbastanza i dolori del poeta, deve piangere anche per qualcun altro ?
Ma non ci sono abbastanza sospiri e lacrime per piangere le pene del poeta.
Le ultime parole sono per il padre, che dall’alto del cielo lo guarda. Egli lo ha vegliato piangendo, da malato e da morto, al padre, che ora è in cielo, si deve rendere onore, al poeta non rimane che il suo dolore..

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