Canzoniere di Petrarca: dieci sonetti da leggere e comprendere

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Di seguito trovi dieci sonetti del Canzoniere di Petrarca accompagnati da comprensioni e/o parafrasi e in alcuni casi da analisi. Di questi sonetti devi conoscere il contenuto ed essere in grado di eseguire la comprensione e/o parafrasi. Scegli cinque sonetti e scrivi una tua comprensione e parafrasi seguendo gli esempi e le indicazioni in Leggere comprendere
1. I.
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango et ragiono 5
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente10
di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno

Comprensione
Il Canzoniere si apre con un sonetto proemiale, nel quale il poeta si rivolge agli ascoltatori-lettori delle sue poesie. A coloro che hanno avuto esperienza di amore, il poeta  rivolge la preghiera di perdonarlo e avere compassione delle sue poesie. Poesie che sono l’eco dell’amore nutrito dal poeta per Laura quando era giovane.
Egli sa che per molto tempo è stato oggetto di scherno e derisione a causa del suo amore, ora però il poeta, che si vergogna molto di ciò, ha compreso chiaramente che il suo amore è vano come tutto ciò che è terreno.
Analisi
In questo sonetto Petrarca utilizza il topos della recusatio.
Recusatio significa in latino rifiuto, protesta, ed era una figura retorica utilizzata dai poeti elegiaci latini, Properzio e Ovidio, per rifiutarsi di scrivere testi epici e tragici e dedicarsi invece alle lievi  poesie d’amore. Il poeta dichiara la propria incapacità a scrivere testi più impegnati e importanti e chiede scusa per la propria poesia d’amore, leggera e disimpegnata. Così Petrarca nel sonetto proemiale chiede perdono per la sua poesia d’amore.
Il sonetto presenta un lungo e complesso periodo iniziale, che occupa le due quartine del sonetto, la frase principale del periodo si trova alla fine della seconda quartina “spero trovar pietà, nonché perdono”; la prima terzina si apre con l’avversativa “Ma” in posizione di rilievo, il periodo delle due terzine si compone di relative e coordinate.
L’allitterazione iniziale del suono S, accompagnata dalle vocali  A e O danno una musicalità intensa ai primi due versi, le parole in rima core , errore  e dolore, amore indicano il tema dominante del testo e della raccolta: il cuore rende l’uomo errante, amore e dolore sono inestricabilmente legati tra loro.

2. III.
Era il giorno ch’al sol si scoloraro
per la pietà del suo factore i rai,
quando i’ fui preso, et non me ne guardai,
ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.

Tempo non mi parea da far riparo 5
contra colpi d’Amor: però m’andai
secur, senza sospetto; onde i miei guai
nel commune dolor s’incominciaro.

Trovommi Amor del tutto disarmato
et aperta la via per gli occhi al core,10
che di lagrime son fatti uscio et varco:

però, al mio parer, non li fu honore
ferir me de saetta in quello stato,
a voi armata non mostrar pur l’arco.

Comprensione
In questo sonetto il poeta rievoca il primo incontro con Laura,  avvenuto, come dice nel sonetto CCXI, il 6 aprile del 1327, giorno della passione di Cristo.
Il dolore del poeta comincia nel giorno del dolore per la morte di Cristo  “onde i miei guai nel commune dolor s’incominciaro”.
Il poeta utilizza il topos stilnovistico dell’amore che passa attraverso gli occhi “quando i’ fui preso, et non me ne guardai, ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro”, gli occhi della donna legano metaforicamente il poeta, lo fanno prigioniero.
L’amore viene raffigurato secondo l’immagine classica del dio armato di freccia, ma l’immagine guerresca è attribuita anche alla donna, che è armata, il poeta invece presenta sé stesso come disarmato e ferito.
All’inizio del sonetto si ripete la stessa musicalità del sonetto proemiale con le sonore S ripetute e amplificate dalle vocali A e O, a creare un attacco di grande potenza e intensità, in cui domina l’immagine dei raggi del sole nel loro scolorire, tramontare.
Analisi
La figura retorica principale in questo sonetto è la metafora. Il poeta viene preso, catturato dalla donna, gli occhi della donna lo legano, il poeta è prigioniero della donna.
Due volte si ripete il topos stilnovistico degli occhi come passaggio d’amore.
La personificazione di amore che diviene Amore permette di insistere nella metafora dell’amore come scontro armato: Amore è armato, colpisce, ferisce il  poeta con le sue armi tradizionali l’arco e le frecce “ferir me de saetta” ; al contrario della donna che è armata e non teme i colpi d’amore, il poeta  è disarmato. Al verso 7 troviamo una metonimia “guai” che significa lamenti,  si indica l’effetto: i lamenti, per la causa: il dolore. Completamente nascosta e dissimulata è invece l’antitesi tra i lamenti del poeta e il commune dolore, “I miei guai nel commune dolore” vv. 7-8; i termini sono disposti secondo la figura retorica del parallelismo A (miei: attributo) B (guai: nome) a (commune: attributo) b (dolore: nome), allontanati dall’enjambement, da una parte i lamenti d’amore del poeta per  la donna amata, dall’altra il dolore comune dei cristiani per la passione di Cristo.
E’ questo il tema nuovo della poesia d’amore petrarchesca: l’opposizione tra amore sacro e amore profano, che viene consapevolmente inserito nella tradizionale trama metaforica dell’amore guerriero e dei topoi stilnovistici.

3. XXXV.
Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

5 Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
10 et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’llui.

Parafrasi
Solo e pensoso vado attraversando con passi lenti
i campi completamente abbandonati
e volgo gli occhi attento a evitare
le orme degli altri uomini.

Non ho altro modo per difendermi dalla gente
che si accorge del mio stato d’animo
perché nel mio atteggiamento triste
si vede di fuori come io dentro arda:

tanto che io credo che anche i monti, le radure pianeggianti
i fiumi e i boschi sappiano quale sia
la mia vita, che tengo nascosta a tutti.

Eppure per quanto cerchi luoghi  inospitali e solitari
Amore mi accompagna sempre
e insieme dialoghiamo, lui con me e io con lui.

Comprensione
E’ questo uno dei sonetti famosi del Canzoniere petrarchesco.   Il poeta è il protagonista di una solitaria passeggiata, fugge dagli sguardi degli altri uomini, che paiono leggergli in viso il suo turbamento, il fuoco d’amore che lo strugge, anche i monti e i campi pianeggianti, i fiumi e i boschi conoscono il suo stato d’animo. Ma il poeta non è mai veramente solo , Amore lo segue sempre, e con lui il poeta intrattiene un silenzioso colloquio.
Analisi
Anche questo sonetto si distingue per equilibrio di composizione: da notare le coppie sinonimiche tardi e lenti, aspre e selvagge, le coppie di aggettivi e sostantivi solo et pensoso,  tardi e lenti, monti e piagge, fiumi e selve disposti all’inizio e alla fine di versi successivi, vv. 1 e 2; vv. 10 e 11, con lieve variazione: inizio verso e fine verso in vv. 1 e 2, e fine verso inizio verso in vv. 10 e 11. Più mossa e complessa la struttura sintattica, al primo periodo contenuto nella prima quartina, segue un più ampio periodo che occupa la seconda quartina e la prima terzina. Nei tre versi finali, introdotti da una avversativa forte, Petrarca concentra la sua riflessione, quasi rovesciando la prospettiva iniziale, non più una ansiosa passeggiata in luoghi solitari, ma un ininterrotto colloquio con Amore.

4. XLVI
L’oro et le perle e i fior’ vermigli e i bianchi,
che ’l verno devria far languidi et secchi,
son per me acerbi et velenosi stecchi,
ch’io provo per lo petto et per li fianchi.

5 Però i dí miei fien lagrimosi et manchi,

ché gran duol rade volte aven che ’nvecchi:
ma piú ne colpo i micidiali specchi,
che ’n vagheggiar voi stessa avete stanchi.

Questi poser silentio al signor mio,

10 che per me vi pregava, ond’ei si tacque,
veggendo in voi finir vostro desio;

questi fuor fabbricati sopra l’acque

d’abisso, et tinti ne l’eterno oblio,
onde ’l principio de mia morte nacque.

Parafrasi
L’oro e le perle e i fiori rossi e bianchi
che l’inverno farà appassire e seccare,
sono per me rami pungenti e velenosi,
che io sento nel petto e nei fianchi.

Perciò i miei giorni saranno pieni di lacrime e scarsi,
perché di rado avviene che un grande dolore invecchi:
ma ne dò tutta la colpa agli specchi assassini,
che continuando a rimirarvi avete stancato .

Questi zittirono il mio signore,
che vi pregava per me, così che egli tacque,
vedendo che in voi finiva il vostro desiderio;

questi furono fabbricati nelle acque
dell’abisso, e imbevuti di eterna dimenticanza,
da cui ebbe inizio la mia morte.

Comprensione
In questo sonetto il poeta parla di Laura, che nulla desidera se non guardarsi allo specchio, questo provoca il dolore, le lacrime e la morte del poeta, che non ha speranza di ricevere l’amore della donna amata.
La bellezza della donna, appena evocata nel primo verso, si tramuta in uno strumento di tortura: stecchi pungenti pieni di veleno, che penetrano nel petto e nei fianchi del poeta, che piange e sente vicina la morte.
Laura è innamorata di sé stessa, guardare la propria immagine soddisfa il suo desiderio, non sente Amore che la prega per il poeta.
Per questo gli specchi sono paragonati a degli assassini che uccidono il poeta, sono stati fabbricati all’inferno e imbevuti di un oblio eterno.  Ma la vera assassina e
torturatrice è la bella Laura, di cui il poeta per sua sventura si è innamorato.
Analisi
Le rime sono difficili, dure e aspre: bianchi – fianchi – manchi – stanchi;  secchi – stecchi – invecchi – specchi per esprimere l’asprezza del dolore che il poeta prova.
Al centro del sonetto (v. 7) si trovano gli specchi assassini “micidiali”; Petrarca usa la figura retorica della metonimia: non gli specchi, ma l’immagine riflessa di Laura e quindi Laura stessa è colpevole del suo dolore e della sua morte.
Al contrario del mitico Narciso, fanciullo sdegnoso di amore, che si innamora della propria immagine riflessa in una pozza d’acqua e affoga nel tentativo di raggiungerla, Laura  rimirandosi provoca non la propria morte ma  quella del poeta.

5. LXI.
Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno,
e la stagione, e ’l tempo, e l’ora, e ’l punto,
e ’l bel paese, e ’l loco ov’io fui giunto
da’ duo begli occhi che legato m’hanno;

5e benedetto il primo dolce affanno
ch’i’ebbi ad esser con Amor congiunto,
e l’arco, e le saette ond’i’ fui punto,
e le piaghe che ’nfin al cor mi vanno.

Benedette le voci tante ch’io
10chiamando il nome de mia donna ho sparte,
e i sospiri, e le lagrime, e ’l desio;

e benedette sian tutte le carte
ov’io fama l’acquisto, e ’l pensier mio,
ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’ha parte.

6. LXII.
Padre del ciel, dopo i perduti giorni,
dopo le notti vaneggiando spese,
con quel fero desio ch’al cor s’accese,
mirando gli atti per mio mal sì adorni,

5piacciati omai col Tuo lume ch’io torni
ad altra vita et a più belle imprese,
sì ch’avendo le reti indarno tese,
il mio duro adversario se ne scorni.

Or volge, Signor mio, l’undecimo anno
10ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo
che sopra i più soggetti è più feroce.

’’Miserere’’ del mio non degno affanno;
reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo;
ramenta lor come oggi fusti in croce.

Comprensione
Due sonetti consecutivi dedicati all’anniversario del primo incontro del poeta con Laura.
Nel primo il poeta affida all’anafora e al polisindeto l’espressione parossistica della propria felicità.
Tutto ciò che di bene si può dire dell’amore del poeta si può e si deve dire: “Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l  mese , et l’anno ….”
Nel secondo il poeta rivolge una dolente preghiera al Padreterno perché possa cambiare vita e così sconfiggere il crudele nemico, che ha teso le sue reti per catturarlo.
Il motivo dell’animo oscillante (“animum labantem” animo che scivola via dice Petrarca nel Secretum), scisso tra volere e non volere, o meglio prigioniero dell’amore di ciò che si vorrebbe odiare è centrale nel Canzoniere. Questo motivo trova una esplicita esposizione in una famosa lettera scritta da Petrarca al suo amico Dionigi di Borgo San Sepolcro. “Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo , ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. E’ proprio così: ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma controvoglia, nel pianto, nella sofferenza, in me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta “Ti odierò se posso; se no, ti amerò contro voglia”.

7. CXXXIV.
O cameretta che già fosti un porto
a le gravi tempeste mie diürne,
fonte se’ or di lagrime nocturne,
che ’l dí celate per vergogna porto.

5 O letticciuol che requie eri et conforto
in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor, con quelle mani eburne,
solo ver ’me crudeli a sí gran torto!

Né pur il mio secreto e ’l mio riposo
10 fuggo, ma piú me stesso e ’l mio pensero,
che, seguendol, talor levommi a volo;

e ’l vulgo a me nemico et odïoso
(chi ’l pensò mai?) per mio refugio chero:
tal paura ò di ritrovarmi solo.

Parafrasi
O mia piccola camera che un tempo fosti rifugio
alle mie angosce quotidiane
ora sei il luogo dove  ogni notte piango
quelle lacrime che di giorno tengo nascoste per vergogna.

O mio piccolo letto  che eri un tempo riposo e conforto
in così grandi  affanni,  Amore riversa su di te
vasi pieni di lacrime
con le sue mani bianche come l’avorio,
verso di me solo ingiustamente crudeli.

E non  fuggo soltanto dal mio segreto e dal mio riposo,
ma piuttosto da me stesso e dal mio pensiero,
che talvolta, quando lo ho seguito, mi ha innalzato in volo;

e cerco come mio rifugio la folla che temo e disprezzo
(chi avrebbe mai pensato che ciò potesse accadere?)
tanta è la paura che ho di ritrovarmi da solo.

Comprensione
Il sonetto descrive lo stato di disperazione del poeta. Un tempo egli si rifugiava nella propria  camera per trovarvi  riposo e conforto. Ora ha paura di rimanere solo; di notte piange sconsolato nel proprio letto e di giorno ricerca la compagnia della folla sconosciuta che odia e disprezza pur di sfuggire alla propria angosciante solitudine. Al centro della poesia la personificazione di amore di cui vediamo solo le mani bianche e fredde come l’avorio che versano sul letto urne, ovvero vasi, piene delle lacrime di dolore del poeta.

8. CLXXXIX.
Passa la nave mia colma d’oblio
per aspro mare, a mezza notte il verno,
enfra Scilla et Caribdi; et al governo
siede ’l signore, anzi ’l nimico mio.

5 A ciascun remo un penser pronto et rio
che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno;
la vela rompe un vento humido eterno
di sospir’, di speranze, et di desio.

Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni
10 bagna et rallenta le già stanche sarte,
che son d’error con ignorantia attorto.

Celansi i duo mei dolci usati segni;
morta fra l’onde è la ragion et l’arte,
tal ch’incomincio a desperar del porto.

Parafrasi
Come una nave la mia vita, che vuole tutto dimenticare, attraversa
l’amaro mare dell’esistenza , in uno stato di angoscia buia e fredda come una notte invernale,
in mezzo a pene e affanni pericolosi come i mostri  Scilla e Cariddi;
il mio signore, o meglio il mio nemico, ovvero Amore, la conduce .

Come i  remi di una nave sono mossi con forza e vigore
così ogni azione della mia vita,
è mossa da un pensiero animoso e malvagio
che sembra disprezzare la mala sorte e la morte;
La mia volontà, come una vela lacerata dal vento,
è spezzata da sospiri di speranza e desiderio, che non finiscono mai.

Il dolore e la rabbia rendono i miei pensieri,
che sono sempre più sbagliati e sciocchi,
lenti e fiacchi come  corde di una nave, che non tengono più.

Gli occhi di Laura, che come le stelle ai naviganti,
mi indicavano la via si nascondono;
in questa terribile situazione è morta ogni ragionevole possibilità
di raggiungere la meta e per questo sono caduto nella disperazione.

Questo  sonetto è tutto costruito intorno alla metafora della vita come una nave in mare  e descrive la nera disperazione in cui il poeta si sente trascinare.
Petrarca  la chiama accidia, gli antichi  aegritudo   e noi depressione.
Aug. Habet te funesta quedam pestis animi, quam accidiam moderni, veteres
egritudinem dixerunt.
Fr. Ipsum morbi nomen horreo.
Aug. L’ animo tuo è dominato da una funesta malattia che i moderni accidia, gli antichi dissero aegritudo
Fr. Al solo nome della malattia provo orrore.
Aug. Certamente perchè a lungo ne hai sofferto.
Fr. Sì, è vero; ma in codesta mia infermità non accade ciò che accade nelle altre, le quali contengono quasi una dolcezza mista all’amaro; in questa invece tutto è triste e amaro e infelice e orrendo , la via alla disperazione è sempre aperta tutto spinge gl’infelici alla morte. Inoltre gli assalti che mi danno le altre passioni sono frequenti, ma brevi e momentanei , mentre  questa malattia mi afferra e mi tiene legato a volte con tale forza da torturami per giorni e notti intere; ed allora non c’ è luce, non c’è vita, ma una oscura notte e un’ acerbissima morte mi sovrastano. E per colmo di sventura,mi nutro di lacrime e dolori, con un così oscuro piacere, che malvolentieri riesco a strapparmi ad essa.
Aug. Hai descritto la tua malattia molto bene; ora ne saprai anche la causa.
(Secretum, libro II )

9. CCXCII.
Gli occhi di ch’io parlai sí caldamente,
et le braccia et le mani et i piedi e ’l viso,
che m’avean sí da me stesso diviso,
et fatto singular da l’altra gente;

5le crespe chiome d’òr puro lucente
e ’l lampeggiar de l’angelico riso,
che solean fare in terra un paradiso,
poca polvere son, che nulla sente.

Et io pur vivo, onde mi doglio et sdegno,
10rimaso senza ’l lume ch’amai tanto,
in gran fortuna e ’n disarmato legno.

Or sia qui fine al mio amoroso canto:
secca è la vena de l’usato ingegno,
et la cetera mia rivolta in pianto.

Parafrasi
Gli occhi di cui ho parlato con tanta passione,
le braccia, le mani, i piedi e lo sguardo,
che mi avevano scisso in due me stessi
e reso diverso dagli altri;

i capelli biondi come l’oro lucente
e il candore del sorriso angelico,
che facevano della terra un paradiso,
ora sono solo un po’ di polvere, che non sente più nulla.

E io invece continuo a vivere, cosa che mi fa soffrire e sdegnare,
sono rimasto  senza la donna che ho tanto amato,
come su una nave senza più vele in mezzo a una grande  tempesta.

Il mio canto pieno di amore termini qui:
l’ispirazione, che per lungo tempo ha alimentato il mio ingegno, si è inaridita,
la mia poesia canta solo il dolore di cui piange.

10. CCCLXV.
I’ vo piangendo i miei passati tempi
i quai posi in amar cosa mortale,
senza levarmi a volo, abbiend’io l’ale,
per dar forse di me non bassi exempi.

5Tu che vedi i miei mali indegni et empi,
Re del cielo invisibile immortale,
soccorri a l’alma disvïata et frale,
e ’l suo defecto di tua gratia adempi:

sí che, s’io vissi in guerra et in tempesta,
10mora in pace et in porto; et se la stanza
fu vana, almen sia la partita honesta.

A quel poco di viver che m’avanza
et al morir, degni esser Tua man presta:
Tu sai ben che ’n altrui non ò speranza.

Parafrasi
Il sonetto “I’ vo piangendo i miei passati tempi” è il penultimo componimento del Canzoniere. Il poeta si rivolge a Dio “Re del cielo invisibile immortale” e confessando i suoi peccati si professa pentito e chiede aiuto.

Io piango il mio passato
speso ad amare  una donna ,
senza elevarmi, come sarei stato in grado di fare,
per dare  prova più alta di me.

Tu che vedi i miei peccati indegni ed empi,
Re del cielo invisibile e immortale,
vieni in aiuto della mia anima persa e fragile,
e riempi della tua grazia  la mia mancanza .

così che se io vissi con affanno e angoscia
muoia in pace e se la mia vita
è trascorsa invano, almeno la mia morte sia  buona.

Degnati di venire in  mio aiuto nel poco tempo che mi rimane da vivere
e nel momento della morte,
Tu sai bene che non ho speranza  in nessun altro.

4 pensieri su “Canzoniere di Petrarca: dieci sonetti da leggere e comprendere

  1. anna casalini

    grazie per i sonetti pubblicati

    grazie e

    i sonetti scelti mi hanno fatta

    quanti bei ricordi dei miei anni di liceo.Grazie per la bella scelta dei sonetti

    o

    Rispondi

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