Ossi di seppia di Eugenio Montale: Meriggiare pallido e assorto, Cigola la carrucola, Falsetto.

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Meriggiare pallido e assorto è la lirica più antica di Ossi di seppia, Montale la data al 1916. E’ il secondo componimento della sezione Ossi di seppia, la più ampia della raccolta.
Tre quartine e una strofa di cinque versi composte di versi di lunghezza differente, con prevalenza del novenario che rimano secondo schemi tradizionali e ripetuti. Meriggiare significa trascorrere all’ombra e all’aperto il meriggio, ovvero il mezzogiorno, l’ora più calda del giorno, quando le cose divengono aride e roventi e gli uomini sono presi da uno stordimento che gli antichi attribuivano all’antico dio Pan.
Trascorrere l’ora del meriggio presso il muro di un orto, tra cespugli e sterpaglia ascoltare i rumori di uccelli e serpi, spiare gli insetti sulla terra arida e le foglie delle piante, osservare tra le foglie il mare in lontananza palpitare mentre si leva lo stridio delle cicale. Camminare nel bagliore del sole lungo un muro che non si può oltrepassare, sentire che in questo è la vita e il suo affanno. La poesia accumula cose, piante, animali; compaiono, trasformati in oggetti, i temi maggiori della poesia montaliana: la fissità della vita, la sua incomprensibilità, il limite al di qua del quale l’uomo è imprigionato, la tristezza che la comprensione della propria condizione genera. La lingua è aspra e dura, pruni, sterpi, serpi sono i termini che nel XIII canto dell’Inferno Dante usa per descrivere la selva dei suicidi.
Gianfranco Contini scrive a proposito della poesia della prima raccolta di Montale “Gli Ossi di seppia più che svolgere un sentimento di non-esistenza, perpetuano un non sentimento” (G.Contini, Una lunga fedeltà, p.19)

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia1
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
2

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
3
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia

1Piante erbacea delle Leguminose
2Cumulo, mucchio
3Rumori secchi

Cigola la carrucola del pozzo… un osso, che descrive un suono, un movimento, un’immagine; la carrucola di un pozzo che trascina un secchio pieno d’acqua, nello specchio luminoso l’immagine di un volto, un sorriso e l’illusione di un bacio, poi l’immagine svanisce, il secchio ritorna trascinato dalla carrucola verso il fondo scuro del pozzo.   La lingua ha suoni duri e parole antiche, “puro cerchio”, “immagine ride”, “atro fondo”. Il tema è quello dell’illusione di un evento che porti un istante buono, la salvezza. Dieci versi di endecasillabi con rime, consonanze e assonanze libere.

Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.

Falsetto
è un componimento di cinquantuno versi liberi scritto nel 1924, la poesia è collocata all’inizio della raccolta. Il titolo rimanda a una tecnica di canto che sfrutta intensamente la cavità di risonanza del capo per ottenere una maggiore estensione della voce verso i toni alti. A questo titolo sono stati dati diversi significati. La poesia è dedicata a Ester Rossi, un’amica del poeta che trascorreva le vacanze a Monterosso.  Esterina ha vent’anni, è distesa al sole su uno scoglio, poi si alza e da un piccolo asse che fa da trampolino si tuffa in mare, dalla spiaggia dove è rimasto il poeta la guarda.

Esterina, i vent’anni ti minacciano,
grigiorosea nube
che a poco a poco in sé ti chiude.
Ciò intendi e non paventi.
Sommersa ti vedremo
nella fumea che il vento
lacera o addensa, violento.
Poi dal fiotto di cenere uscirai
adusta più che mai,
proteso a un’avventura più lontana
l’intento viso che assembra l’arciera Diana.
Salgono i venti autunni,
t’avviluppano andate primavere;
ecco per te rintocca
un presagio nell’elisie sfere.
Un suono non ti renda
qual d’incrinata brocca percossa!;
io prego sia
per te concerto ineffabile
di sonagliere.

La dubbia dimane non t’impaura.
Leggiadra ti distendi
sullo scoglio lucente di sale
e al sole bruci le membra.
Ricordi la lucertola
ferma sul masso brullo;
te insidia giovinezza,
quella il lacciòlo d’erba del fanciullo.
L’acqua è la forza che ti tempra,
nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi:
noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo,
come un’equorea creatura
che la salsedine non intacca
ma torna al lito piú pura.


Hai ben ragione tu! Non turbare
di ubbie il sorridente presente.
La tua gaiezza impegna già il futuro
ed un crollar di spalle
dirocca i fortilizi
del tuo domani oscuro.
T’alzi e t’avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profìlo s’incide
contro uno sfondo di perla.
Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t’abbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t’afferra.

Ti guardiamo noi, della razza
di chi rimane a terra

Esterina, i vent’anni ti minacciano,
grigiorosea nube
che ti chiude in sé a poco a poco.
Tu lo sai ma non hai paura.
Ti vedremo sommersa
nel fumo che il vento
violento lacera o addensa.
Poi uscirai dal flutto di cenere
più bruciata che mai,
il viso teso come quello di Diana
rivolto verso un’avventura più lontana.
I venti autunni salgono,
le passate primavere ti avvolgono ;
ecco  risuona per te
in cielo un segno del futuro.
Spero che non ti dia il suono
di una brocca incrinata che viene percossa;
io prego perché sia
per te  un concerto straordinario
di sonagliere.
Il domani incerto non ti spaventa.
Bella e piena di grazia ti stendi
sullo scoglio lucente di sale
e ti bruci al sole.
Ricordi la lucertola
ferma sul sasso;
la giovinezza ti tende inganni
come il ragazzo con il laccio d’erba li tende a quella.
L’acqua ti dà forza,
nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi:
ti penso come un’alga, un ciottolo,
come una creatura del mare
che non è corrosa dal sale
ma torna a riva più pura.
Hai proprio ragione tu! Non turbare
il tuo presente felice con inutili timori.
La tua felicità si prolunga nel futuro
e una scrollata di spalle
demolisce le fortezze
del tuo oscuro futuro.
Ti alzi e avanzi sull’assicella
sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo si incide
su uno sfondo di perla.
Esiti sulla punta dell’asse che ondeggia,
poi ridi e come sollevata da un soffio di vento
ti abbatti tra le braccia
del tuo divino amico che ti afferra.
Io che sono uno di quelli che rimangono a terra, ti guardo.