La giara di Luigi Pirandello

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Pirandello scrisse più di duecento novelle, pubblicate su riviste e quotidiani e poi raccolte in quindici volumi sotto il titolo complessivo di Novelle per un anno. Esse contengono moltissimi personaggi e situazioni inventati da Pirandello e da esse sono tratti quasi tutti i drammi teatrali.
Ambientate nella Sicilia contadina o nella Roma di ricchi borghesi e umili impiegati, le novelle mettono in scena una moltitudine di situazioni assurde e paradossali nelle quali Pirandello rappresenta insieme il lato comico e ridicolo e insieme penoso e drammatico dell’uomo e della vita.
Pirandello racconta utilizzando tecniche narrative all’avanguardia per i tempi; narratori interni, narratori esterni a focalizzazione esterna e interna, punti di vista che mutano e si alternano nel corso dell’intreccio, monologhi interiori, intrecci complessi con prolessi (flashforward)e analessi (flashback), a creare un’esperienza di lettura provocatoria che stimola il lettore, lo trascina nel meccanismo narrativo, lo costringe a seguire l’autore nell’opera di scomposizione a cui sottopone personaggi e realtà. La lingua è una lingua ormai completamente moderna, senza traccia di letterarietà erudita,vicina a quella che diventerà la lingua parlata dall’italiano medio nel corso del XX secolo.

La giara, 1909, è una novella di ambientazione siciliana, da essa Pirandello trasse due versioni teatrali, una in dialetto e una in italiano. Ambientata in una Sicilia verghiana racconta la storia della giara di Don Lollò Zirafa.
Nella Sicilia di Verga Pirandello cala una vicenda grottesca. La giara, simbolo della ricchezza e della potenza di don Lollò, con l’aiuto del conciabrocche Zi’ Dima Licasi, gioca un tiro mancino al suo padrone davanti a tutti i suoi contadini. Due personaggi ridicoli e penosi e quindi umoristici, don Lollò e Zì Dima, si fronteggiano; dei due nella novella vince quello che nella realtà sarebbe il sicuro perdente, il povero e scalcagnato Zì Dima. La narrazione è affidata a un narratore esterno sul modello di quello verghiano de “La roba” della raccolta “Novelle rusticane”.

Piena anche per gli olivi quell’annata. Piante massaje, cariche l’anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire. Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d’uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa.
Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non l’attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d’onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s’era mezzo rovinato.
Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare.
Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: – Sellate la mula! – Ora, invece: – Consultate il calepino!
– E Don Lollò rispondeva: – Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d’un cane!
Quella bella giara nuova, pagata quattr’onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s’era mai veduta. Allogata in quell’antro intanfato di mosto e di quell’odore acre e crudo che cova nei luoghi senz’aria e senza luce, faceva pena.
Da due giorni era cominciata l’abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un’oliva, che fosse un’oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo.
Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l’ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti.
– Guardate! guardate!
– Chi sarà stato?
– Oh, mamma mia!
E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova, peccato!
Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne.
Ma il secondo: – Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel’abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti!
Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò: – Don Lollò! Ah, Don Lollòoo! Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell’uomo sempre infuriato.
– Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!
Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro gridando: – Sangue della Madonna, me la pagherete!
Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto:
– La giara nuova! Quattr’onze di giara! Non incignata ancora!
Voleva sapere chi gliel’avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana!
Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l’avrebbe rimessa su, nuova. C’era giusto Zi’ Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, alla punta dell’alba, Zi’ Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr’otto, la giara, meglio di prima.
Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch’era tutto inutile; che non c’era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all’alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi’ Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle.
Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l’uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d’inventore non ancora patentato.
Voleva che parlassero i fatti, Zi’ Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto.
– Fatemi vedere codesto mastice – gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo con diffidenza.
Zi’ Dima negò col capo, pieno di dignità.
– All’opera si vede.
– Ma verrà bene?
Zi’ Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l’attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajo d’occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi’ Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull’aja. Disse:
– Verrà bene.
– Col mastice solo però – mise per patto lo Zirafa – non mi fido. Ci voglio anche i punti.
– Me ne vado – rispose senz’altro Zi’ Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle.
Don Lollò lo acchiappò per un braccio.
– Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po’ che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d’asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l’olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io.
Zi’ Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d’arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice.
– Se la giara – disse – non suona di nuovo come una campana…
– Non sento niente, – lo interruppe Don Lollò. – I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare?
– Se col mastice solo…
– Càzzica che testa! – esclamò lo Zirafa. – Come parlo? V’ho detto che ci voglio i punti. C’intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi.
E se ne andò a badare ai suoi uomini.
Zi’ Dima si mise all’opera gonfio d’ira e di dispetto. E l’ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano.
– Coraggio, Zi’ Dima! – gli disse quello, vedendogli la faccia alterata.
Zi’ Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt’in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc’anzi. Prima di cominciare a dare i punti:
– Tira! – disse dall’interno della giara al contadino. – Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, si o no, come una campana anche con me qua dentro? Va’, va’ a dirlo al tuo padrone!
– Chi è sopra comanda, Zi’ Dima, – sospirò il contadino – e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti.
E Zi’ Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l’uno di qua e l’altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un’ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo. – Ora ajutami a uscirne, – disse alla fine Zi’ Dima.
Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi’ Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora – non c’era via di mezzo – per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre.
Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi’ Dima, dento la giara, era come un gatto inferocito.
Fatemi uscire! – urlava -. Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!
Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci.
– Ma come? là dentro? s’è cucito là dentro?
S’accostò alla giara e gridò al vecchio:
– Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio… così! e la testa… su… no, piano! Che! giù… aspettate! così no! giù, giù… Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! – si mise a raccomandare tutt’intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. – Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo… La mula!
Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana.
– Bella! Rimessa a nuovo… Aspettate! – disse al prigioniero. – Va’ a sellarmi la mula! – ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po’ che mi capita! Questa non è giara! quest’è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!»
E accorse a regger la giara, in cui Zi’ Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.
– Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l’avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell’interesse vostro… Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano?
– Non voglio nulla! – gridò Zi’ Dima. – Voglio uscire.
– Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.
Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso:
– Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l’abbia dato.
Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava.
Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell’avvocato; ma gli toccò d’attendere un bel po’, prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì.
– Che c’è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!
Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com’era stato, per farci su altre risate. “Dentro, eh? S’era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te… tene… tenerlo là dentro… ah ah ah… ohi ohi ohi… tenerlo là dentro per non perderci la giara?”
– Ce la devo perdere? – domandò lo Zirafa con le pugna serrate. – Il danno e lo scorno?
– Ma sapete come si chiama questo? – gli disse infine l’avvocato. – Si chiama sequestro di persona!
– Sequestro? E chi l’ha sequestrato? – esclamò lo Zirafa. – Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io?
L’avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall’altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine.
– Ah! – rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara!
– Piano! – osservò l’avvocato. – Non come se fosse nuova, badiamo!
– E perché?
– Ma perché era rotta, oh bella!
– Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato!
L’avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso.
– Anzi – gli consigliò – fatela stimare avanti da lui stesso.
– Bacio le mani – disse Don Lollò, andando via di corsa.
Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi’ Dima s’era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi.
Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara.
– Ah! Ci stai bene?
– Benone. Al fresco – rispose quello. – Meglio che a casa mia.
– Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr’onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso?
– Come me qua dentro? – domandò Zi’ Dima.
I villani risero.
– Silenzio! – gridò lo Zirafa. – Delle due l’una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com’è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu.
Zi’ Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse:
– Rispondo. Se lei me l’avesse fatta conciare col mastice solo, com’io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no.
– Un terzo? – domandò lo Zirafa. – Un’onza e trentatré?
– Meno sì, più no. – Ebbene, – disse Don Lollò. – Passi la tua parola, e dammi un’onza e trentatré.
– Che? – fece Zi’ Dima, come se non avesse inteso.
– Rompo la giara per farti uscire, – rispose Don Lollò – e tu, dice l’avvocato, me la paghi per quanto l’hai stimata: un’onza e trentatré.
– Io pagare? – sghignazzò Zi’ Dima. – Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi. E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l’accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara.
Don Lollò ci restò brutto. Quest’altro caso, che Zi’ Dima ora non volesse più uscire dalla giara, nè lui nè l’avvocato l’avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula», ma pensò che era già sera.
– Ah, sì – disse. – Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l’uso della giara.
Zi’ Dima cacciò prima fuori un’altra boccata di fumo, poi rispose placido:
– Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare… neanche per ischerzo, vossignoria!
Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo.
– Vede che mastice? – gli disse Zi’ Dima.
– Pezzo da galera! – ruggì allora lo Zirafa. – Chi l’ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince!
E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi’ Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all’aperto, su l’aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c’era una luna che pareva fosse raggiornato.
A una cert’ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d’inferno. S’affacciò a un balcone della cascina, e vide su l’aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi’ Dima, là dentro, cantava a squarciagola.
Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.
E la vinse Zi’ Dima.