Gabriele D’Annunzio : Canto Novo, Alcyone, Il piacere e Il trionfo della morte

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Canto Novo
Nel 1882 D’Annunzio pubblica Canto novo, la sua seconda raccolta di poesie, dedicata alla prima amante ufficiale Elda Zucconi, detta Lalla. L’opera contiene componimenti scritti tra l’aprile del 1881 e lo stesso mese del 1882. La nota dominante è il sensualismo e la volontà di possesso e di dominio. I componimenti sono sonetti e odi barbare sul modello di Carducci. La lingua è aulica intessuta di latinismi e termini arcaici. L’io è sempre sul palcoscenico intento a declamare; gesti, paesaggi, personaggi sono descritti in modo enfatico, il tono è alto, gridato. In qualche raro componimento compare un tono più lieve e sommesso.
Nell’opera di D’Annunzio, vasta e multiforme, in prosa e in versi, si alternano due temi principali. Il primo è quello dell’esaltazione della volontà, del dominio, del possesso, che ha la sua più piena realizzazione nella  conquista erotica e nella sua celebrazione. Il poeta protagonista e i suoi molteplici alter ego sono continuamente impegnati a realizzare e cantare la propria forza e potenza che si esplica come volontà di possesso e dominio. Il secondo è quello dell’abbattimento, del languore e della rinuncia. All’esaltazione del possesso segue la stanchezza e il disgusto. Questi due motivi presentano innumerevoli varietà di toni e modulazioni, ma sono sempre ben riconoscibili, singolarmente oppure inestricabilmente intrecciati, in tutta l’opera dannunziana.

Canta la gioia.
Aggiunta alla seconda edizione della raccolta del 1896, questa poesia, un’ode barbara, celebra la gioia di vivere e il piacere del possesso del mondo. Il poeta si rivolge all’amante e la invita a unirsi a lui nel cantare la gioia della vita. Tutto deve essere goduto e posseduto, chi si abbondona al dolore è un misero schiavo. Cinta di fiori, avvolta in una veste porpora rossa come il sangue del poeta la donna è chiamata a partecipare, ospite privilegiata, alla volontà di potenza del poeta.
E’ possibile individuare in questa poesia echi della lettura che D’Annunzio fece  del filosofo tedesco Nietzsche, che nel suo libro “Così parlo Zarathustra” del 1885 presentava il superuomo, un uomo superiore animato dallo spirito dionisiaco, mosso dalla volontà di potenza e pieno di disprezzo per i deboli e gli infelici.

Canta la gioia! Io voglio cingerti
di tutti i fiori perché tu celebri
la gioia la gioia la gioia,
questa magnifica donatrice!

Canta l’immensa gioia di vivere,
d’essere forte, d’essere giovine,
di mordere i frutti terrestri
con saldi e bianchi denti voraci,

di por le mani audaci e cupide
su ogni dolce cosa tangibile,
di tendere l’arco su ogni
preda novella che il desìo miri,

e di ascoltare tutte le musiche,
e di guardare con occhi fiammei
il volto divino del mondo
come l’amante guarda l’amata,

di adorare ogni fuggevole forma,
ogni segno vago, ogni immagine
vanente, ogni grazia caduca,
ogni apparenza ne l’ora breve.

Canta la gioia! Lungi da l’anima
nostra il dolore, veste cinerea.
E’ un misero schiavo colui
che del dolore fa la sua veste.

A te la gioia, Ospite! Io voglio
vestirti de la più rossa porpora
s’io debba pur tingere il tuo
bisso nel sangue de le mie vene.

Di tutti i fiori io voglio cingerti
trasfigurata perché tu celebri
la gioia la gioia la gioia,
questa invincibile creatrice!

O falce di luna calante.
La poesia descrive un paesaggio notturno illuminato dalla luna. Gli alberi e i fiori respirano lievi nella notte, tutto è silenzio. La luna sembra una falce pronta a mietere i sogni degli uomini che dormono stanchi delle fatiche dell’amore e dei piaceri. La poesia ha una struttura circolare, i due versi finali della prima e dell’ultima strofa si ripetono quasi identici. Compare un motivo ricorrente nella poesia dannunziana l’antropomorfizzazione della natura: le foglie anelano, i fiori sospirano.

O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual messe di sogni
ondeggia a ’l tuo mite chiarore qua giù!

Aneliti brevi di foglie
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto, non grido
non suono pe ’l vasto silenzïo va.

Oppresso d’amor, di piacere
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual messe di sogni
ondeggia a ’l tuo mite chiarore qua giù!

Alcyone
Nel 1903 D’Annunzio pubblica i primi tre libri, intitolati Maia, Elettra e Alcyone, delle Laudi del cielo della terra del mare e degli eroi. Alcyone è considerata la migliore raccolta  di D’Annunzio e ha avuto una notevole influenza sui poeti del Novecento.
Le Laudi vogliono essere la celebrazione del superuomo, moderno Ulisse, protagonista del primo libro Maia o Laus vitae. Elettra contiene lunghi testi che celebrano figure eroiche, Dante, Verdi, Vittorio Emanuele III, D’Annunzio è il poeta vate che annuncia alla nazione il suo destino di gloria e potenza, il tono è bellicoso e aggressivo. Fa parte a sé la sezione Città del silenzio, 57 liriche dedicate alle antiche città italiane, in cui l’esaltazione del futuro cede il passo alla rievocazione del passato.
Alcyone contiene 88 componimenti che raccontano un’estate. È il momento della tregua del superuomo. Ambientate in Versilia, le poesie descrivono paesaggi naturali e metamorfosi umane. Nei testi più famosi, La sera fiesolana, La pioggia nel pineto, Meriggio, la musicalità del verso libero e la bellezza delle immagini hanno conquistato l’ammirazione di numerosi lettori.

La pioggia nel pineto
La pioggia nel pineto è una delle poesie più famose della letteratura italiana, D’Annunzio descrive i suoni di un bosco di pini battuto dalla pioggia. Alberi e cespugli, foglie e fiori risuonano sotto la pioggia, si uniscono le voci degli animali, le cicale e le rane. Un uomo, il poeta, e la sua donna, Ermione, camminano nel bosco, la pioggia li bagna e si sentono trasformati in esseri vegetali, il cuore è una pèsca, gli occhi pozze d’acqua, i denti mandorle; la pioggia li avvolge, il bosco li risucchia nell’illusione di una favola.
Il motivo della metamorfosi degli esseri umani in elementi vegetali e degli elementi naturali in umani, si può dire della vegetalizzazione degli umani e della antropormorfizzazione della natura, è ricorrente in molte delle poesie più belle di Alcyone, oltre a La pioggia nel pineto, La sera fiesolana, Meriggio, Undulna. La metamorfosi e la perdità dell’identità nella fusione con la natura sono motivi cari agli artisti e poeti simbolisti.
La poesia è divisa  in quattro strofe di trentadue versi ciascuna per un totale di 128 versi liberi. Gli ultimi dodici versi della prima strofa, vv.20-32,  sono ripetuti come un ritornello nell’ultima strofa, vv.116-128, eccetto l’inversione dei due pronomi personali: ti – mi, nei versi 31e 127 e l’aggiunta della E all’inizio dell’ultima strofa.
Il ritmo battente e ripetitivo dei versi multipli di tre, senari e novenari, si modula in pause e rallentamenti di versi più brevi e più lunghi. Enjambements, rime e assonanze, allitterazioni e ripetizioni amplificano l’effetto musicale della poesia.

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove 5
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici 10
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini, 15
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri vólti 20
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri, 25
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri 30
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura 35
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde 40
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino. 45
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi 50
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi; 55
e il tuo vólto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come 60
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, ascolta. L’accordo 65
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce; 70
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo, e più fioco 75
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce dal mare. 80
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia 85
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia 90
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia, 95
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente, 100
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta, 105
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta, 110
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove! 115
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti 120
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella 125
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

Nella belletta
La poesia descrive una palude fangosa sotto il sole d’agosto. Il calore decompone la vegetazione che esala un odore dolciastro, la palude sembra un fiore di fango cotto dal sole, una rana ammutolisce, in superficie salgono bolle d’aria. L’estate al culmine volge alla fine, l’immobile e silenziosa palude è l’immagine della morte che attende tutte le cose.
Il componimento è un madrigale di versi endecasillabi divisi in due terzine e un distico finale. Non ci sono rime, ma assonanze, le due terzine terminano con la parola morte.

Nella belletta i giunchi hanno l’odore
delle persiche mézze e delle rose
passe, del miele guasto e della morte.

Or tutta la palude è come un fiore
lutulento che il sol d’agosto cuoce, 5
con non so che dolcigna afa di morte.

Ammutisce la rana, se m’appresso.
Le bolle d’aria salgono in silenzio

Il piacere.
Nei romanzi di D’Annunzio si trova tutto il repertorio dei temi, personaggi e situazioni decadenti: personaggi malati, femmes fatales, sesso morboso e complicazioni sentimentali, lusso ed eccentricità, senso di superiorità e disprezzo per la massa. D’Annunzio li riutilizza con sicurezza e originalità avendo intuito che quello che i decadenti europei scrivevano contro la borghesia poteva essere usato per soddisfare il bisogno di identificazione, evasione e trasgressione della stessa borghesia. Anticipando tendenze che si imporranno nel corso del XX secolo D’Annunzio mercifica l’arte e le sue creazioni, adattandole alle esigenze del pubblico di massa.

Il piacere pubblicato dalla casa editrice milanese Treves nel 1889 ebbe un grande successo di pubblico. Il libro racconta la storia di Andrea Sperelli, un giovane conte che conduce una vita dissoluta all’insegna dei principi dell’estetismo: culto della bellezza e dell’arte, disprezzo di qualsiasi regola morale, vita dedita a esperienze sensoriali raffinate ed estreme. Sperelli è un personaggio dal fascino ambiguo, che attira il lettore borghese di cui interpreta il desiderio di evasione, l’aspirazione al lusso e alla superiorità e il disprezzo per le classi sociali inferiori e allo stesso tempo lo respinge suscitandone il giudizio negativo, perché è anche un depravato, un debole e alla fine uno sconfitto, infatti dopo essere stato lasciato da Elena, la “divina amante”, viene abbandonato anche da Donna Maria, nelle cui braccia aveva cercato rifugio e pace. Diviso in quattro parti il libro ha inizio in un pomeriggio di fine dicembre del 1886 a Roma,  nel suo lussuoso appartamento di palazzo Zuccari, Andrea Sperelli aspetta Elena e in lui affiora il ricordo dei momenti passati con l’amante. La prima immagine che viene incontro al lettore è quella della bella donna nuda. I primi due libri contengono il lungo flash-back della storia d’amore tra i due dal primo incontro, a un ricevimento mondano, al giorno dell’addio. Abbandonato dalla donna Andrea si stordisce nella dissipazione erotica, finché viene ferito gravemente in duello da un rivale. Durante la convalescenza incontra Maria Ferres, amica della cugina che lo ospita in una villa al mare. Andrea si innamora della donna che è attratta dal giovane, ma resiste perché sposata. A Roma Andrea ritorna alla sua vita dissoluta e vuota, quando incontra le due donne e riprende a sedurle. Con Elena l’impresa fallisce, mentre Maria cede alle lusinghe di Andrea. Nel corso del primo incontro amoroso, abbracciando la donna l’uomo si lascia sfuggire il nome dell’altra e questa fugge abbandonandolo.

La prosa del romanzo è raffinata e preziosa, con periodi ampi e sinuosi, che ricercano sofisticati effetti musicali, abbondano lunghe e particolareggiate descrizioni di ambienti e paesaggi e ritratti ricchi di minuziose sfumature psicologiche.

L’inizio del romanzo
È un caldo pomeriggio di dicembre a Roma, in un appartamento di palazzo Zuccari a pochi passi da Trinità de’ Monti, Andrea Sperelli aspetta l’arrivo di Elena, la sua ex amante. Le stanze sono piene del profumo delle rose disposte nelle coppe di cristallo. Il caminetto è acceso e il tavolino del tè è pronto, apparecchiato con tazzine e piattini preziosi. La luce del sole del pomeriggio entra nella stanza. Manca mezz’ora all’arrivo della donna, il giovane uomo inquieto girovaga per la stanza cercando di ingannare l’attesa e, mentre aggiunge legna al fuoco, affiora un ricordo. Elena è davanti al camino, nuda, ravviva il fuoco, il corpo ambrato come una Danae di Correggio o una statua di Dafne. Rivestitasi sorride in mezzo alla stanza tra i petali strappati ai fiori e solleva la gonna per farsi allacciare le scarpe dall’amante.

L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di maggio. Su la Piazza Barberini, su la Piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorìo confuso e continuo, salendo alla Trinità de’ Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch’esalavan ne’ vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d’un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in majolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d’argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz’ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov’era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell’appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L’ansia dell’aspettazione lo pungeva così acutamente ch’egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora sorse nello spirito dell’aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un’ora d’intimità. Ella aveva molt’arte nell’accumulare gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po’ indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell’atto un po’ faticoso, per i movimenti de’ muscoli e per l’ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, e da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d’un pallor d’ambra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po’ correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.
Appena ella aveva compiuta l’opera, le legna conflagravano e rendevano un sùbito bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo entrante pe’ vetri lottavano qualche tempo. L’odore del ginepro arso dava al capo uno stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie di follia infantile, alla vista della vampa. Aveva l’abitudine, un po’ crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch’eran ne’ vasi, alla fine d’ogni convegno d’amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita, mettendo i guanti o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell’atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando prima un piede e poi l’altro perchè l’amante chino legasse i nastri delle scarpe ancora disciolti.
Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le imagini del tempo lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia.

La fine del romanzo
Nell’ultimo capitolo Sperelli sconvolto dall’abbandono delle due amanti vaga tra la casa ormai vuota di Donna Maria e il proprio appartamento. All’asta dei beni del marito di Maria Ferres, rovinato dal gioco, acquista alcuni mobili e oggetti e poi torna angosciato e disgustato al proprio appartamento, il romanzo si chiude con l’immagine del protagonista che, dietro ai facchini che trasportano un grande armadio, sale le scale del suo palazzo.

La mattina del 20 giugno, lunedì, alle dieci, incominciò la publica vendita delle tappezzerie e dei mobili appartenuti a S. E. il Ministro plenipotenziario del Guatemala.
Era una mattina ardente. Già l’estate fiammeggiava su Roma. Per la via Nazionale correvano su e giù, di continuo, i tramways, tirati da cavalli che portavano certi strani cappucci bianchi contro il sole. Lunghe file di carri carichi ingombravano la linea delle rotaje. Nella luce cruda, tra le mura coperte d’avvisi multicolori come d’una lebbra, gli squilli delle cornette si mescevano allo schiocco delle fruste, agli urli dei carrettieri.
Andrea, prima di risolversi a varcare la soglia di quella casa, vagò pe’ marciapiedi, alla ventura, lungo tempo, provando una orribile stanchezza, una stanchezza così vacua e disperata che quasi pareva un bisogno fisico di morire.
Quando vide uscir dalla porta su la strada un facchino con un mobile su le spalle, si risolse. Entrò, salì le scale rapidamente; udì, dal pianerottolo, la voce del perito.
― Si delibera!
Il banco dell’incanto era nella stanza più ampia, nella stanza del Buddha. Intorno, s’affollavano i compratori. Erano, per la maggior parte, negozianti, rivenditori di mobili usati, rigattieri: gente bassa. Poichè d’estate mancavano gli amatori, i rigattieri accorrevano, sicuri d’ottenere oggetti preziosi a prezzo vile. Un cattivo odore si spandeva nell’aria calda, emanato da quegli uomini impuri.
― Si delibera!
Andrea soffocava. Girò per le altre stanze, ove restavano soltanto le tappezzerie su le pareti e le tende e le portiere, essendo quasi tutte le suppellettili radunate nel luogo dell’asta. Sebbene premesse un denso tappeto, egli udiva risonare il suo passo, distintamente, come se le volte fossero piene di echi.
Trovò una camera semicircolare. Le mura erano d’un rosso profondo, nel quale brillavano disseminati alcuni guizzi d’oro; e davano imagine d’un tempio e d’un sepolcro; davano imagine d’un rifugio triste e mistico, fatto per pregare e per morire. Dalle finestre aperte entrava la luce cruda, come una violazione; apparivano gli alberi della Villa Aldobrandini.
Egli ritornò nella sala del perito. Sentì di nuovo il lezzo. Volgendosi, vide in un angolo la principessa di Ferentino con Barbarella Viti. Le salutò, avvicinandosi.
― Ebbene, Ugenta, che avete comprato?
― Nulla.
― Nulla? Io credevo, invece, che voi aveste comprato tutto.
― Perchè mai?
― Era una mia idea… romantica.
La principessa si mise a ridere. Barbarella la imitò.
― Noi ce ne andiamo. Non e possibile rimaner qui, con questo profumo. Addio, Ugenta. Consolatevi.
Andrea s’accostò al banco. Il perito lo riconobbe.
― Desidera qualche cosa il signor conte?
Egli rispose:
― Vedrò.
La vendita procedeva rapidamente. Egli guardava intorno a sè le facce dei rigattieri, si sentiva toccare da quei gomiti, da quei piedi; si sentiva sfiorare da quegli aliti. La nausea gli chiuse la gola.
― Uno! Due! Tre!
Il colpo di martello gli sonava sul cuore, gli dava un urto doloroso alle tempie.
Egli comprò il Buddha, un grande armario, qualche majolica, qualche stoffa. A un certo punto udì come un suono di voci e di risa feminili, un fruscio di vesti feminili, verso l’uscio. Si volse. Vide entrare Galeazzo Secìnaro con la marchesa di Mount Edgcumbe, e poi la contessa di Lucoli, Gino Bommìnaco, Giovanella Daddi. Quei gentiluomini e quelle dame parlavano e ridevano forte.
Egli cercò di nascondersi, di rimpicciolirsi, tra la folla che assediava il banco. Tremava, al pensiero d’essere scoperto. Le voci, le risa gli giungevano di sopra le fronti sudate della folla, nel calor soffocante. Per ventura, dopo alcuni minuti, i gai visitatori se ne andarono.
Egli si aprì un varco tra i corpi agglomerati, vincendo il ribrezzo, facendo uno sforzo enorme per non venir meno. Aveva la sensazione, in bocca, come d’un sapore indicibilmente amaro e nauseoso che gli montasse su dal dissolvimento del suo cuore. Gli pareva d’escire, dai contatti di tutti quegli sconosciuti, come infetto di mali oscuri e immedicabili. La tortura fisica e l’angoscia morale si mescolavano.
Quando egli fu nella strada, alla luce cruda, ebbe un po’ di vertigine. Con un passo mal sicuro, si mise in cerca d’una carrozza. La trovò su la piazza del Quirinale; si fece condurre al palazzo Zuccari.
Ma, verso sera, una invincibile smania l’invase, di rivedere le stanze disabitate. Salì, di nuovo, quelle scale; entrò col pretesto di chiedere se gli avevano i facchini portato i mobili al palazzo.
Un uomo rispose:
― Li portano proprio in questo momento. Ella dovrebbe averli incontrati, signor conte.
Nelle stanze non rimaneva quasi più nulla. Dalle finestre prive di tende entrava lo splendore rossastro del tramonto, entravano tutti gli strepiti della via sottoposta. Alcuni uomini staccavano ancora qualche tappezzeria dalle pareti, scoprendo il parato di carta a fiorami volgari, su cui erano visibili qua e là i buchi e gli strappi. Alcuni altri toglievano i tappeti e li arrotolavano, suscitando un polverio denso che riluceva ne’ raggi. Un di costoro canticchiava una canzone impudica. E il polverio misto al fumo delle pipe si levava sino al soffitto.
Andrea fuggì.
Nella piazza del Quirinale, d’innanzi alla reggia, sonava una fanfara. Le larghe onde di quella musica metallica si propagavano per l’incendio dell’aria. L’obelisco, la fontana, i colossi grandeggiavano in mezzo al rossore e si imporporavano come penetrati d’una fiamma impalpabile. Roma immensa, dominata da una battaglia di nuvoli, pareva illuminare il cielo.
Andrea fuggì, quasi folle. Prese la via del Quirinale, discese per le Quattro Fontane, rasentò i cancelli del palazzo Barberini che mandava dalle vetrate baleni; giunse al palazzo Zuccari.
I facchini scaricavano i mobili da un carretto, vociando. Alcuni di costoro portavano già l’armario su per la scala, faticosamente.
Egli entrò. Come l’armario occupava tutta la larghezza, egli non potè passare oltre. Seguì, piano piano, di gradino in gradino, fin dentro la casa.

Il trionfo della morte
Nel Trionfo della morte pubblicato nel 1894 il protagonista Giorgio Aurispa lotta contro la “nemica”, l’amante Ippolita Sanzio. La donna con la sua irresistibile fascinazione erotica impedisce all’uomo di raggiungere la perfetta salute morale. Per liberarsi dal suo dominio l’uomo uccide sé stesso e l’amante gettandosi da uno scoglio.
In questo  come negli altri romanzi di D’Annunzio accanto al protagonista maschile, di solito un nevrotico depravato e instabile c’è una donna antagonista, amante o moglie, la femme fatale che causa il dissesto psicologico del maschio protagonista.
Tra la fine dell’Ottocento e il Novecento la misoginia frutto dell’inganno ordito dagli uomini a proprio danno e della paura delle donne, che in questi anni cominciano a rivendicare e conquistare un ruolo e uno spazio autonomi e diversi da quelli fino ad allora imposti dagli uomini, raggiunge uno dei suoi culmini storici. Quadri, poesie e romanzi, si popolano di donne perverse e aggressive, donne-vampiro, sirene ammaliatrici, Salomè omicide, oppure di donne esangui e morenti o folli come l’Ofelia di Amleto, proposte come esempi di sottomissione e sacrificio di sé. In dotti saggi di medici e filosofi (L’inferiorità mentale della donna del medico tedesco Moebius, 1900, Sesso e carattere del filosofo austriaco Weininger, 1903) si teorizza l’inferiorità della donna e la si associa a quella di altre categorie oggetto di paura e disprezzo come gli ebrei.

Sotto alla tenda piantata su la ghiaia, ancóra seminudo dopo il bagno egli guardava Ippolita ch’era rimasta al sole presso le acque avvolta nell’accappatoio bianco. Guardando, egli aveva negli occhi a tratti scintillazioni quasi dolorose; e la gran luce meridiana gli dava un senso nuovo di malessere fisico misto a una specie di vago sgomento. Era l’ora terribile, l’ora pànica, l’ora suprema della luce e del silenzio, imminente su la vacuità della vita. Egli comprendeva la superstizione pagana: l’orrore sacro dei meriggi canicolari su la plaga abitata da un dio immite ed occulto. In fondo a quel suo vago sgomento si moveva qualche cosa di simile all’ansietà di chi sia nella attesa di un’apparizione repentina e formidabile. Pareva egli a sé stesso quasi puerilmente debole e trepido, come diminuito d’animo e di forze dopo una prova sfavorevole. Immergendo il suo corpo nel mare, dando la fronte al sole pieno, percorrendo a nuoto una breve distanza, esperimentandosi nell’esercizio già prediletto, misurando il suo respiro sul soffio dello spazio illimitato, egli aveva sentito per indizii indubitabili l’impoverimento del suo vigore, la declinazione della sua giovinezza, tutta l’opera distruttiva della Nemica; aveva sentito ancóra una volta il ferreo cerchio restringersi intorno alla sua attività vitale e ridurne ancóra una zona all’inerzia e all’impotenza. Il senso di quel languore muscolare gli diveniva più profondo come più egli guardava la figura della donna alzata nella luce del giorno. Ella aveva disciolti i suoi capelli perché si asciugassero; e le ciocche ammassate dall’umidità le cadevano su gli òmeri così cupe che sembravano quasi di viola. Il suo corpo svelto ed eretto, come avvolto nelle pieghe di un peplo, si disegnava metà sul campo glauco del mare e metà su la chiarissima trasparenza celeste. Appena si scorgeva fuor della capellatura il profilo della faccia reclinata e intenta. Ella era tutta assorta in un suo piacere alterno: – metteva i piedi nudi su la ghiaia scottante, mantenendoveli sin che fosse per lei sostenibile l’ardore; e poi così caldi li tuffava nell’acqua blanda che lambiva la ghiaia. E in quella duplice sensazione ella pareva gustare una voluttà infinita, obliosamente. – Ella si temprava, si fortificava, comunicando con le cose libere e sane, lasciandosi penetrare dalla salsedine e dal raggio. Come mai poteva ella essere, nel tempo medesimo, così inferma e così valida? Come mai poteva ella conciliare nella sua sostanza tante contrarietà e assumere tanti diversi aspetti in un giorno, in un’ora sola? La donna taciturna e triste che covava dentro di sé il male sacro, il morbo astrale; l’amante cupida e convulsa il cui ardore era talvolta quasi spaventevole, la cui lussuria aveva talvolta apparenze quasi lugubri d’agonia; quella stessa creatura, alzata sul lido del mare, poteva raccogliere e sostenere ne’ suoi sensi tutta la naturale delizia sparsa nelle cose che la circondavano, apparire simile ai simulacri della Bellezza antica inchinati sul cristallo armonioso di un Ellesponto. La superiorità di quella resistenza era palese. Giorgio la considerava con un rammarico che a poco a poco addensandosi assumeva la gravità di un rancore. Il sentimento della sua debolezza s’intorbidava di odio, mentre la sua perspicacia si faceva sempre più lucida e quasi vendicativa. Non erano belli i piedi nudi ch’ella a volta a volta scaldava su la ghiaia e rinfrescava nell’acqua; erano anzi difformati nelle dita, plebei, senz’alcuna finezza; avevano l’impronta manifesta della bassa stirpe. Egli li guardava intentamente; non guardava se non quelli, con uno straordinario acume di percezione e di esame, come se le particolarità della forma dovessero rivelargli un segreto. E pensava: «Quante cose impure fermentano nel suo sangue! Tutti gli istinti ereditarii della sua razza sono in lei, indistruttibili, pronti a svilupparsi e ad insorgere contro qualunque constrizione. Io non potrò mai far nulla per purificarla. Io non potrò se non sovrapporre alla realità della sua persona le figure mutevoli dei miei sogni, ed ella non potrà se non offrire alla mia ebrezza solitaria i suoi indispensabili organi…»