Archivio mensile:Giugno 2019

Gli orecchini di Eugenio Montale

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Odilon Redon, Head of a young woman, 1895, collezione privata

Non serba ombra di voli il nerofumo
della spera. (E del tuo non è più traccia.)
È passata la spugna che i barlumi
indifesi dal cerchio d’oro scaccia. 4
Le tue pietre, i coralli, il forte imperio
che ti rapisce vi cercavo; fuggo
l’iddia che non s’incarna, i desiderî
porto fin che al tuo lampo non si struggono. 8
Ronzano élitre fuori, ronza il folle
mortorio e sa che due vite non contano.
Nella cornice tornano le molli 11
meduse della sera. La tua impronta
verrà di giù: dove ai tuoi lobi squallide
mani, travolte, fermano i coralli. 14

Sonetto elisabettiano: tre quartine e un distico finale, i versi 8, 10 e 13 hanno rime ipermetre (fuggo -struggono, contano-impronta, squallide-coralli).
Gli orecchini viene pubblicata nel 1940 sulla rivista Prospettive e poi in Finisterre a Lugano nel 1943. Di questo sonetto ha dato una famosa lettura il critico D’Arco Silvio Avalle in un saggio Gli orecchini di Montale del 1965. Avalle utilizzando le tecniche della critica strutturalista divide il sonetto in nove parti, divise in due coppie di quattro parti ciascuna disposte a chiasmo, più una parte centrale. La prima coppia corrisponde a: “Non serba ombra di voli il nerofumo” verso 1 (A) , “dal cerchio d’oro scaccia.” verso 4 (B), “Nella cornice tornano”  verso 11 (B), “meduse della sera” verso 12 (A).  In questa prima coppia troviamo nei versi esterni (A) il tempo in cui si colloca l’evento della poesia:  “Non serba ombra di voli il nerofumo“meduse della sera;  nei versi interni (B) lo spazio  dell’evento della poesia: dal cerchio d’oro scaccia.”  “Nella cornice tornano” .  La seconda coppia “Le tue pietre, i coralli”  verso 5 (A),  “vi cercavo”  verso 6 (B),  “ verrà di giù:”  verso 13 (B), “ mani, travolte, fermano i coralli” verso 14 (A). In questa coppia troviamo nei versi esterni (A) gli oggetti della poesia: “Le tue pietre, i coralli” e “mani, travolte, fermano i coralli” ; nei versi interni (B) le azioni che generano l’evento poetico “vi cercavo” e “ verrà di giù:” Al centro, dalla fine del verso sei al verso dieci, il nucleo misterioso della poesia individuato nel tema dell’amore “i desideri porto fin che al tuo lampo non si struggono” e della distruzione e morte “ronza il folle mortorio e sa che due vite non contano.”  Concludendo il critico si chiede “se le due vite non contino veramente nulla, oppure (ultima ipotesi) se di fronte all’Emergenza (quella della guerra e l’”altra”) non ci sia ancora luogo per una protesta solenne.” (D.S.Avalle, Gli orecchini di Montale, in A.Marchese, L’analisi letteraria, pp.291-294).

Un sonetto d’amore per una donna che non c’è e non ci sarà più?  La donna evocata nella poesia è Irma Brandeis, la studiosa americana che Montale conobbe a Firenze nel 1933 e con cui ebbe una relazione amorosa durata fino a quando nel 1939 la donna dovette tornare negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziste del regime fascista. Irma era ebrea.  il poeta non la rivide più. Montale ha descritto le poesie di Finisterre come le poesie “che rappresentano la mia esperienza, diciamo così petrarchesca”.

Comprensione
La mia mente non conserva le immagini che ha ricevuto (E della tua non c’è più traccia). Come cancellati da una spugna i deboli segni di un’esistenza sono scomparsi dalla mia memoria. Cercavo di ricordare i tuoi orecchini di corallo e il tuo amore. A te, che sei la mia divinità incarnata, porto i miei desideri finché al tuo ardore non si consumano. Fuori il rumore, come di ali di insetti, della folle guerra indifferente alle nostre due vite. Nella mente tornano i tristi pensieri della sera, come molli  meduse velenose. Si imprime in me un’immagine di morte: vedo gli orecchini di corallo e squallide mani di morti che li fissano ai tuoi lobi.

La primavera hitleriana di Eugenio Montale: parafrasi e comprensione

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Irma Brandeis

 

La primavera hitleriana letta da Mauro Pescio a Radio Tre Tutta l’umanità ne parla del 22.06.2019

Né quella ch’a veder lo sol si gira…
Dante (?) a Giovanni Quirini

Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.

Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio ….
———————————————Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
 che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
 della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince –
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…

Parafrasi
Il fitto bianco sciame delle farfalle notturne impazzite,
turbina intorno ai pallidi fanali e sui muretti del fiume,
stende a terra uno strato su cui i piedi scricchiolano
come se camminassero sullo zucchero; l’estate che sta per arrivare
libera il gelo della notte che era chiuso
nelle cave nascoste dell’inverno,
negli orti che da Maiano giungono fino a queste sponde sabbiose.

Da poco sul corso è passato un messo infernale
tra le urla di “alalà” dei suoi sgherri, il teatro illuminato
e addobbato di svastiche l’ha accolto come inghiottendolo,
sono state chiuse le vetrine povere
e inoffensive, ma piene
di cannoni e giocattoli di guerra,
il macellaio, che ornava di bacche il muso dei capretti uccisi,
ha sprangato il negozio,
la festa dei miti carnefici che ancora non sanno  del sangue
è diventata una sporca danza di ali spezzate,
di insetti sugli argini umidi, e l’acqua continua a consumare
le sponde e nessuno è più senza colpa.

È stato  tutto inutile, dunque ? – i fuochi d’artificio
per la festa di San Giovanni che si spegnevano lentamente
all’orizzonte, le promesse, i lunghi addii
forti come un battesimo nella triste attesa
della devastazione (ma una stella attraversò l’aria seminando
sulle tue fredde terre
i sette angeli di Tobia, la semina
del futuro), gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto distrutto
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di gelo ….
——————————– Oh la ferita
primavera è proprio una festa se raggela
in morte questa morte! Continua a guardare
in alto, Clizia, è il tuo destino, tu
che, anche trasformata, conservi lo stesso amore,
finché il sole che porti chiuso in te
si accechi nell’Altro e si distrugga
in Lui per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che festeggiano i mostri nella sera
del loro diabolico incontro, si confondono già
con il suono che liberato dal cielo, scende, vince –
con il respiro di un’alba che domani per tutti
riappaia, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, sulle sponde aride del sud.

Comprensione
La primavera hitleriana è un ossimoro, non una primavera che porta vita, ma una primavera che porta morte.
Le falene che volteggiano lungo le sponde dell’Arno, cadono a terra morte, dai campi lungo il fiume arriva in città un freddo notturno, ancora invernale, anche se l’estate è vicina.
La città è in festa per l’arrivo di Hitler, tutti partecipano, nessuno si accorge che è una festa di morte e nessuno è senza colpa.
La terza strofa si apre con una domanda piena di paura “Tutto per nulla dunque?”  L’ultima volta che si erano visti, il poeta e la donna si erano lasciati scambiandosi promesse e addii, forti della certezza di un prossimo incontro nonostante la tristezza per la violenza che sentivano avvicinarsi. In quella occasione una stella cadente aveva attraversato il cielo, segno di una speranza per il futuro. Ma tutto questo è stato distrutto da ciò che è accaduto.
L’ultima esclamazione “Oh la piagata primavera è pur festa se raggela in morte questa morte!” esprime una nuova speranza, perché la fredda primavera può uccidere la morte che il “messo infernale” porta con sé. Clizia, custode fedele dell’amore, può resistere e salvare tutti; è l’antica donna angelo, portatrice di salvezza, che rinasce. Forse il suono delle sirene che salutavano i mostri di quella orrenda sera era già il suono vittorioso che annunciava l’alba di un giorno pieno di vita per tutti.

Clizia è Irma Brandeis, l’italianista americana ebrea, conosciuta a Firenze nel 1933, con cui Montale ebbe una relazione fino all’estate del 1938, quando la donna ritornò in America per sfuggire alle persecuzioni fasciste. Il nome Clizia rimanda a un personaggio della mitologia greca, una ninfa, innamorata di Apollo, che, quando viene abbandonata dal dio, si trasforma in una pianta che si volge sempre verso il “Sole” 1, per questo al verso 27 compaiono gli eliotropi, nome greco che si può tradurre con girasoli, nelle mani della donna.
Il verso in epigrafe e il verso 34 della poesia sono ripresi da un sonetto2, attribuito a Dante, in cui si fa riferimento al racconto di Ovidio.
La poesia è datata 1939 – 1946. A distanza di tempo il poeta ripensa a due eventi, il primo storico: la visita di Hitler a Firenze nel maggio del 1938, il secondo personale: l’ultimo incontro con la donna amata e l’addio pieno del desiderio di futuro.
Il poeta trasfigura la realtà che assume così valore simbolico: Hitler, “il messo infernale”, è simbolo di morte e distruzione, Clizia, di tutti coloro che rimangono sempre fedeli a ciò che amano. Dopo la disperazione per la perdita di tutto, il poeta affida alla donna la sua speranza di salvezza. In una intervista immaginaria del 1946 Montale dirà “Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia (la chiami come vuole) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria…”.

1“Quanto a Clizia (…), il Sole non l’andò più a trovare e non l’amò più. Allora la ninfa abituata all’amore si ammalò e giorno e notte sedeva per terra nuda e spettinata. Per nove giorni, senza acqua e cibo, digiuna, si nutrì di rugiada e lacrime senza staccarsi dal suolo: soltanto guardava il volto del dio che passava e volgeva il suo sguardo a lui. Le sue membra, raccontano, si attaccarono alla terra, il pallore le trasforma una parte in erba verde, una parte è rossa, e un fiore simile alla viola copre il volto. Lei, come se fosse trattenuta da una radice, si volge al suo Sole, e mutata conserva l’amore.” Ovidio, Metamorfosi, libro IV vv. 256-270

2“Né quella ch’a veder lo sol si gira e’l non mutato amor mutata serba” Dante Rime dubbie 74. vv.9-10

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