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Amore di lontananza di Antonia Pozzi e L’infinito di Leopardi

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Celia Paul, Evening Sea, 2016

Ricordo che, quand’ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sola volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.

Antonia Pozzi scrive Amore di lontananza a diciassette anni. Il componimento è di quindici versi endecasillabi come L’infinito di Leopardi. L’infinito presenta dieci enjambements, solo in due versi metrica e sintassi coincidono, il primo e l’ultimo verso. Il componimento è diviso in quattro parti da punti fermi, ma solo due di questi coincidono con la fine del verso: il verso tre e l’ultimo verso. In Amore di lontananza sono presenti sei enjambements, tra il verso uno e il verso due, tra il terzo e il quarto, tra il quarto e il quinto, tra il settimo e l’ottavo, tra l’ottavo e il nono, tra l’undicesimo e il dodicesimo. Pozzi riduce il numero di enjambements e divide il componimento in tre parti, terminanti ciascuna alla fine del verso: prima parte dal verso uno al verso sei, seconda dal verso sette al verso nove, terza dal verso dieci al verso quindici.

Se confrontiamo le singole parti dell’uno e dell’altro componimento troviamo somiglianze e differenze. I primi tre versi della poesia di Leopardi coincidono con i primi sei versi della poesia di Pozzi, entrambe le parti presentano il luogo dove avviene l’esperienza che la poesia descrive: “quest’’ermo colle e questa siepe”  , “nella casa della mia mamma (…) avevo una finestra”. Nei versi dal settimo al quattordici Pozzi descrive l’esperienza di creazione dell’immagine del mare, così come Leopardi nei versi dal quattro al tredici descrive la creazione dell’immagine dell’infinito. Ne L’infinito l’immaginazione ha origine dal superamento del limite,  “ questa siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” e crea immagini interiori di spazio e tempo infinito “interminati spazi di là da quella e sovrumani silenzi (…) io nel pensier mi fingo”, in Amore di lontananza l’immagine del mare nasce, prima, dal ricordo “Io allora non avevo visto il mare che una sola volta” e poi dalla metamorfosi che l’immagine reale subisce nello sguardo della poetessa “e la striscia dei colli si spianava”. E’ nei versi finali che la distanza tra i due poeti si fa più evidente. Nell’ultimo verso del componimento Leopardi esprime la dolcezza del naufragare nel mare dell’infinito, Pozzi in un verso condensa la sensazione di piacere più intensa che il mare immaginato le dà rispetto al mare vero; mare lontano che si materializza nella realtà ogni volta che la forza del desiderio lo fa esistere, non metafora di qualcosa che non esiste, l’infinito, ma simbolo dell’unica e sola realtà che possediamo, quella che creiamo in noi.

Parafrasi A sé stesso di Leopardi

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E.Munch, Notte d’estate, 1889

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento. 5
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. 10
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera, 15
E l’infinita vanità del tutto.

Mio stanco cuore ora non batterai più. L’amore,  che pensavo eterno, è morto. Finito. E sento che in me non solo non c’è più speranza ma neppure desiderio.
Fermati per sempre. Hai sofferto abbastanza. Nessuna cosa sulla terra è degna di essere amata. La vita è solo amarezza e noia, il mondo è  privo di senso.
A questo punto rassegnati. Disperati per l’ultima volta. Non ci è stato dato nient’altro all’infuori della morte. Disprezza te stesso, l’esistenza dominata dal male e l’insensatezza  di tutte le cose.

LA MODERNITA’ DI A SE’ STESSO

A sé stesso è il testo più moderno di Leopardi. In che cosa sta la modernità di questa poesia?
La modernità di A sé stesso consiste nella rappresentazione della disperazione di un io in cui il desiderio si è spento. La disperazione di A sé stesso per la “fine del desiderio” non ci scandalizza, né ci è incomprensibile, come invece era incomprensibile e scandalizzava gli uomini dell’Ottocento e del Novecento.
Per lungo tempo il pensiero occidentale, sia filosofico sia religioso, ha avuto come obiettivo la “fine del desiderio”, ovvero il controllo e la repressione del desiderio.
La creazione di un sistema di controllo del desiderio è fondamentale in qualsiasi società. Il sistema più semplice è quello della repressione autoritaria, più complesso ed elitario è quello ideato dalla filosofia greca, ma anche da altre filosofie non occidentali, del controllo consapevole del desiderio (morale stoica, epicurea, pratiche yoga e buddhiste); nella religione cristiana, ma anche in altre religioni, il controllo viene raggiunto attraverso la sostituzione del desiderio con la speranza. In tutte queste soluzioni il desiderio viene svalutato, secondo modalità e con intensità diverse.
Al contrario Leopardi riconosce la naturalità e necessità del desiderio, propone, al posto della svalutazione del desiderio, il desiderio di “cari inganni”, chiamati nell’operetta morale Dialogo di Tristano e di un amico “inganni dell’immaginazione”, come valore per l’individuo e per la società, afferma il dolore e l’infelicità che la fine del desiderio comporta, infelicità ineliminabile in ogni società. Freud nel saggio Il disagio della civiltà afferma “L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza” (S.Freud, Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, p.250).

La nostra società ha fatto proprio il riconoscimento della naturalità e necessità del desiderio, la non svalutazione dello stesso e il riconoscimento del prezzo di sofferenza che la repressione del desiderio comporta, ma ha adottato soluzioni sensibilmente diverse rispetto alla valorizzazione del desiderio dei “cari inganni” proposta da Leopardi. L’infelicità, che la repressione e il controllo del desiderio producono nella nostra società, sono “risolti” con la creazione di desideri artificiali, basata su un apparente processo contrario alla svalutazione del desiderio, desideri funzionali al mantenimento della società stessa, ovvero prospettando una felicità illusoria, che Leopardi chiamerebbe “un inganno dell’intelletto”. A questo riguardo in una delle sue ultime interviste Pier Paolo Pasolini affermava di odiare il potere del suo tempo perché lo considerava “un potere che manipola i corpi in un modo orribile, (…) li manipola trasformando la loro coscienza, nel peggiore dei modi, stabilendo nuovi valori che sono alienanti e falsi” ( in Pasolini prossimo nostro, film – intervista di Bernardo Bertolucci).

In A sé stesso la fine del desiderio genera disperazione, rabbia, odio. Il poeta si rivolge al proprio cuore, è questa la metafora che il poeta utilizza per rappresentare il “sé stesso” del titolo (tutti i testi letterari scritti in prima persona fanno credere al lettore che l’autore stia parlando di sé, in realtà l’autore parla di sé come di un personaggio letterario). Per due volte nel componimento (v.6 e v.11 ) il poeta, usando l’imperativo, si rivolge a esso ordinandogli di smettere di soffrire; il poeta vuole che il suo cuore non provi più nulla, ha smesso di desiderare, “il desiderio è spento”, che smetta anche di soffrire. Nel verso 11 con un secondo imperativo il poeta intima al cuore di disperare per l’ultima volta, infine nel verso 13 gli rivolge l’ordine di disprezzare sé stesso, l’esistenza, la sofferenza che tutti subiscono e il nulla che pervade tutto. La richiesta del poeta di smettere di soffrire non può essere soddisfatta, dolore e sofferenza si trasformano in disperazione, frustrazione, rabbia contro sé stessi e il mondo. Le cose non hanno senso in sé “l’infinita vanità del tutto”, il loro senso dipende da noi, se non siamo in grado o non siamo più in grado di dare un senso alle cose, ci rimane solo la disperazione e la rabbia “fango è il mondo” “disprezza te” .
In questo componimento Leopardi rappresenta l’altro volto del desiderio di piacere infinito che muove gli esseri viventi, quello della disperazione più totale e profonda, se “il desiderio è spento”, rimane la disperazione, che è sempre un’ultima disperazione “dispera l’ultima volta”. Catullo, un antico poeta latino aveva condensato un contenuto simile in una brevissima poesia “Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris. Nescio sed fieri sentio et excrucior” (Odio e amo. Perché lo faccia forse mi chiederai. Non lo so ma sento che accade e soffro).

Franco Fortini legge Alla luna di Giacomo Leopardi

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O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!

Audio Rai.TV – Le Meraviglie – La biblioteca di Casa Leopardi a Recanati raccontata da Massimo Raffaeli | Le Meraviglie del 30/04/2017

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Matteo Sbragia interpreta Giacomo Leopardi nel film di Nelo Risi Idillio del 1980, le scene del frammento sono girate nel palazzo dei conti Leopardi a Recanati, si vede il grande scalone dell’abitazione e la famosa biblioteca .  A questo link il film completo di Nelo Risi

Elio Germano: La Ginestra di Leopardi un inno alla fragilità

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Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto
Non chiama sé né stima
Ricco d’or né gagliardo, 90
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma 95
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene, 100
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra 105
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza. 110
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra,
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo, 115
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi 120
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna. 125
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima 130
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune.

Parafrasi

Un uomo povero e malato
ma di animo generoso e nobile
non si chiama né si ritiene ricco e forte
e non  mostra di avere
una vita splendida o  di essere forte
suscitando il riso tra la gente,
ma si mostra bisognoso di forza
e di ricchezza senza vergognarsi
e parlando riconosce apertamente
il suo stato e lo ammette per quello che è.
Io non credo che sia un uomo di animo
grande, ma che sia invece uno stolto
chi, nato per morire, cresciuto in pene
dice “sono fatto per godere”
e nei suoi scritti pieni di fetido orgoglio
promette agli uomini un grande futuro e
straordinarie felicità, assolutamente
sconosciute in cielo e in terra,
a uomini che invece, un’onda di mare,
un fiato di vento maligno, un crollo
sotterraneo distrugge così che
a mala pena ne rimane il ricordo.
L’uomo forte è quello che ha il coraggio
di guardare in faccia la realtà comune a tutti
e di riconoscere, con sincerità,
senza togliere nulla alla verità
la condizione dolorosa e misera e fragile
che ci è stata assegnata
Quello che sa sopportare
con forza e dignità i dolori e la miseria
e non aggiunge alle sue sofferenze
l’odio e l’ira contro gli altri uomini
incolpandoli del suo male,
ma dà la colpa a quella che è
la vera colpevole, la natura,
che li genera come una madre,
ma li tratta come una matrigna.
Questa è la nemica,
e ritenendo, come effettivamente è, che l’umanità,
è stata  disposta contro di lei,
ritiene tutti gli uomini alleati tra di loro,
si sente unita a tutti da vero amore,
e offre aiuto immediato e valido
e lo aspetta in cambio dagli altri
nei pericoli e nelle angosce
della comune guerra.

Approfondimento: Leopardi, l’infinito e la teoria del piacere

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L’INFINITO
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani 5
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce 10
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare. 15

La teoria del piacere
Nelle pagine 165-183 dello Zibaldone scritte tra il 12 e il 23 luglio del 1820 Leopardi presenta quella che chiama la “teoria del piacere”.
L’uomo desidera il piacere, ossia la felicità. Questo desiderio è infinito perché è congenito alla vita e termina con lei. Nessun piacere terreno ha però carattere infinito, tutte le cose terrene sono limitate in durata ed estensione. L’uomo desidera un piacere illimitato senza potere raggiungerlo mai.

[165] Il sentimento della nullità di tutte le cose, la in-
sufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la ten-
denza nostra verso un infinito che non comprendiamo,
forse proviene da una cagione semplicissima, e più mate-
riale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri
viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unica-
mente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla
felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere.
Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché è
ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver
fine in questo o quel piacere che non può essere infinito,
ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per
durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere
nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè
nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perchè
nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta
che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia
circoscritto. (…) Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo,
e come
un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e
illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo,[166]trovi
un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto
nell’anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettiva-
mente, non resta pago. (…) E perciò tutti i piaceri debbono esser misti
di dispiacere, come proviamo, perchè l’anima nell’otte-
nerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè
una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desi-
derio illimitato.(Zib. 165-166)

Leopardi osserva che nell’uomo esiste una facoltà di immaginazione capace di immaginare piaceri infiniti perciò grazie a essa il piacere infinito che non si trova nella realtà si trova nell’immaginazione, che produce speranza e illusioni. Questa facoltà opera nel poeta che crea poesie con parole e immagini indefinite e opera nel lettore che prova piacere in queste immagini e parole.

“Veniamo alla inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni.” (Zib.167-168)