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Parafrasi A sé stesso di Leopardi

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E.Munch, Notte d’estate, 1889

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento. 5
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. 10
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera, 15
E l’infinita vanità del tutto.

Mio stanco cuore ora non batterai più. L’amore,  che pensavo eterno, è morto. Finito. E sento che in me non solo non c’è più speranza ma neppure desiderio.
Fermati per sempre. Hai sofferto abbastanza. Nessuna cosa sulla terra è degna di essere amata. La vita è solo amarezza e noia, il mondo è  privo di senso.
A questo punto rassegnati. Disperati per l’ultima volta. Non ci è stato dato nient’altro all’infuori della morte. Disprezza te stesso, l’esistenza dominata dal male e l’insensatezza  di tutte le cose.

LA MODERNITA’ DI A SE’ STESSO

A sé stesso è il testo più moderno di Leopardi. In che cosa sta la modernità di questa poesia?
La modernità di A sé stesso consiste nella rappresentazione della disperazione di un io in cui il desiderio si è spento. La disperazione di A sé stesso per la “fine del desiderio” non ci scandalizza, né ci è incomprensibile, come invece era incomprensibile e scandalizzava gli uomini dell’Ottocento e del Novecento.
Per lungo tempo il pensiero occidentale, sia filosofico sia religioso, ha avuto come obiettivo la “fine del desiderio”, ovvero il controllo e la repressione del desiderio.
La creazione di un sistema di controllo del desiderio è fondamentale in qualsiasi società. Il sistema più semplice è quello della repressione autoritaria, più complesso ed elitario è quello ideato dalla filosofia greca, ma anche da altre filosofie non occidentali, del controllo consapevole del desiderio (morale stoica, epicurea, pratiche yoga e buddhiste); nella religione cristiana, ma anche in altre religioni, il controllo viene raggiunto attraverso la sostituzione del desiderio con la speranza. In tutte queste soluzioni il desiderio viene svalutato, secondo modalità e con intensità diverse.
Al contrario Leopardi riconosce la naturalità e necessità del desiderio, propone, al posto della svalutazione del desiderio, il desiderio di “cari inganni”, chiamati nell’operetta morale Dialogo di Tristano e di un amico “inganni dell’immaginazione”, come valore per l’individuo e per la società, afferma il dolore e l’infelicità che la fine del desiderio comporta, infelicità ineliminabile in ogni società. Freud nel saggio Il disagio della civiltà afferma “L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza” (S.Freud, Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, p.250).

La nostra società ha fatto proprio il riconoscimento della naturalità e necessità del desiderio, la non svalutazione dello stesso e il riconoscimento del prezzo di sofferenza che la repressione del desiderio comporta, ma ha adottato soluzioni sensibilmente diverse rispetto alla valorizzazione del desiderio dei “cari inganni” proposta da Leopardi. L’infelicità, che la repressione e il controllo del desiderio producono nella nostra società, sono “risolti” con la creazione di desideri artificiali, basata su un apparente processo contrario alla svalutazione del desiderio, desideri funzionali al mantenimento della società stessa, ovvero prospettando una felicità illusoria, che Leopardi chiamerebbe “un inganno dell’intelletto”. A questo riguardo in una delle sue ultime interviste Pier Paolo Pasolini affermava di odiare il potere del suo tempo perché lo considerava “un potere che manipola i corpi in un modo orribile, (…) li manipola trasformando la loro coscienza, nel peggiore dei modi, stabilendo nuovi valori che sono alienanti e falsi” ( in Pasolini prossimo nostro, film – intervista di Bernardo Bertolucci).

In A sé stesso la fine del desiderio genera disperazione, rabbia, odio. Il poeta si rivolge al proprio cuore, è questa la metafora che il poeta utilizza per rappresentare il “sé stesso” del titolo (tutti i testi letterari scritti in prima persona fanno credere al lettore che l’autore stia parlando di sé, in realtà l’autore parla di sé come di un personaggio letterario). Per due volte nel componimento (v.6 e v.11 ) il poeta, usando l’imperativo, si rivolge a esso ordinandogli di smettere di soffrire; il poeta vuole che il suo cuore non provi più nulla, ha smesso di desiderare, “il desiderio è spento”, che smetta anche di soffrire. Nel verso 11 con un secondo imperativo il poeta intima al cuore di disperare per l’ultima volta, infine nel verso 13 gli rivolge l’ordine di disprezzare sé stesso, l’esistenza, la sofferenza che tutti subiscono e il nulla che pervade tutto. La richiesta del poeta di smettere di soffrire non può essere soddisfatta, dolore e sofferenza si trasformano in disperazione, frustrazione, rabbia contro sé stessi e il mondo. Le cose non hanno senso in sé “l’infinita vanità del tutto”, il loro senso dipende da noi, se non siamo in grado o non siamo più in grado di dare un senso alle cose, ci rimane solo la disperazione e la rabbia “fango è il mondo” “disprezza te” .
In questo componimento Leopardi rappresenta l’altro volto del desiderio di piacere infinito che muove gli esseri viventi, quello della disperazione più totale e profonda, se “il desiderio è spento”, rimane la disperazione, che è sempre un’ultima disperazione “dispera l’ultima volta”. Catullo, un antico poeta latino aveva condensato un contenuto simile in una brevissima poesia “Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris. Nescio sed fieri sentio et excrucior” (Odio e amo. Perché lo faccia forse mi chiederai. Non lo so ma sento che accade e soffro).

Pasolini: credere non credere

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Frammento finale dell’intervista di Gideon Bachmann a Pier Paolo Pasolini per Sight and Sound nel 1975, l’intervista completa è nel film di Giuseppe Bertolucci Pasolini Prossimo Nostro

Il nini muart di Pier Paolo Pasolini in Poesie a Casarsa

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Il nini muart

Sere imbarlumìde, tal fossal
a crès l’aghe, ‘na fèmine plène
‘a ciamìne tal ciamp.
Jo ti recuardi, Narcìs, ti vèvis il colòr
da la sère, quand li ciampànis
‘a sunin di muàrt.

Il fanciullo morto

Sera luminosa, nel fosso
cresce l’acqua, una donna incinta
cammina per il campo.

Io ti ricordo , Narciso, avevi il colore
della sera, quando le campane

suonano a morto.
(la traduzione è di Pasolini)

La lingua dei desideri il friulano casarsese di Pier Paolo Pasolini di Angela Felice direttrice del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa  (in La lingua batte Radio 3 23/04/2017)

Poesie a Casarsa vide la luce il 14 luglio 1942 per i tipi della Libreria antiquaria Mario Landi di Bologna, in trecento copie, con la dedica “A mio padre”. Le poche, brevi poesie della raccolta cantano di fanciulli, di sere, di alberi, venti, piogge, campane, acque. Il tono è elegiaco: dolce e triste. La poesia si nutre oltre che del nucleo nevrotico più profondo del poeta, delle letture di poeti decadenti e simbolisti italiani, francesi, spagnoli
Il volume piacque a Gianfranco Contini, che promise di recensirlo “avevo esattamente vent’anni; (…) Chi potrà mai descrivere la mia gioia? Ho saltato e ballato per i portici di Bologna; e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno di Bologna è stata esaustiva: ormai posso benissimo farne per sempre a meno.” (Pier Paolo Pasolini, in Poesie, Garzanti, Milano, 1 ed. 1970, p.8). La recensione di Gianfranco Contini avrebbe dovuto uscire su Primato, una rivista letteraria dell’epoca, ma i responsabili del periodico, trattandosi di un commento a una raccolta di poesie dialettali, la censurarono: apparve invece sul Corriere di Lugano del 24 aprile 1943. Diceva, tra l’altro: “L’odore era quello irrefutabile della poesia, in una specie inconsueta” e parlando di contenuti, faceva riferimento ” a quel centro di ascesi sul proprio corpo che fa l’equilibrio del libretto”. Descrivendo la lingua usata nella raccolta Pasolini dice “L’idioma friulano di queste poesia non è quello genuino, ma quello dolcemente intriso di veneto che si parla nella sponda destra del Tagliamento; inoltre non poche sono le violenze che gli ho usato per costringerlo a un metro e a una dizione poetica” (in Nota a Poesie a Casarsa in Bestemmia Tutte le poesie, Garzanti, p.1221). Questo dialetto friulano è la lingua della madre, ma anche “lingua pura per poesia” e diventerà “un’arma”, con cui Pasolini si rivolge ai contadini del Friuli, nei tabelloni che ospitano i murali dei partiti politici della loggia di San Giovanni di Casarsa, e nei poemetti epici de La meglio Gioventù. Nel 1974 Pasolini ritorna alla poesia in dialetto friulano e pubblica La Nuova gioventù Poesie friulane 1941-1974, in cui ripubblica le poesie de La Meglio gioventù del 1954 e vi aggiunge una Seconda forma de La meglio gioventù (1974). Le stesse poesie vengono riscritte, sempre in dialetto, con delle varianti.

Pasolini Next to us (intervista di Gideon Bachmann 1975)

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Quando gli anni Sessanta
saranno perduti come il Mille,
e, il mio, sarà uno scheletro
senza più neanche nostalgia del mondo,
cosa conterà la mia “vita privata”,
miseri scheletri senza vita
né privata né pubblica, ricattatori,
cosa conterà! Conteranno le mie tenerezze,
sarò io, dopo la morte, in primavera,
a vincere la scommessa, nella furia
del mio amore per l’Acqua Santa al sole.

da “Poesie mondane” in Poesia in forma di rosa

Pasolini fu uno scrittore impegnato. Prese posizione quotidianamente di fronte a fatti, eventi, problemi del suo tempo, con interventi su giornali, documentari, interviste in televisione, partecipazioni a convegni. Tra le sue opere impegnate ricordiamo: Comizi d’amore, film documentario sulla percezione della sessualità in Italia (1965), Le mura di Sana’a , cortometraggio in forma di appello all’Unesco, girato a Sana’a, capitale dello Yemen (1971), La forma della città – Orte – Sabaudia, documentario sull’edilizia moderna e la distruzione del passato (1973) video: La forma della città, Le belle bandiere, raccolta dei testi usciti nel periodo 1960- 1965 nella rubrica Dialoghi con Pasolini di Vie Nuove, pubblicato postumo nel 1977, Il Caos, raccolta dei testi scritti nel periodo 1968-1970 per la rubrica Caos del settimanale  (queste due raccolte si possono trovare in Pier Paolo Pasolini I dialoghi, Editori Riuniti), Scritti Corsari del 1975 e Lettere luterane, postumo del 1976, raccolte degli articoli di giornale scritti dal 1973 al 1975 per il Corriere della Sera.

Di seguito si riportano stralci dai sottotitoli in inglese dell’intervista rilasciata da Pasolini (P.P.P.) a Gideon Bachmann (G.B.) (link Gideon Bachmann), giornalista di Sight and Sound, rivista inglese di cinema, sul set di Salò (per l’intervista completa vedi Pasolini Prossimo nostro, 2006 di Giuseppe Bertolucci link)

The particular meaning of sex in Salò

P.P.P.: So, there’s a lot of sex, but the sex in the film is De Sade’s typical sex which is characteristically exclusively sadomasochist, in all of the atrocity of his details and situations. (…), but in my film all of this sex takes on a particular meaning: it is the metaphor of what power does to the human body, its commercialization (mercificazione), its reduction to a thing which is typical of power, of any power.
(…) This currency (attualità) marks a true change with respect to the films I have made up to now, that is the “Trilogy of life” Decameron, Canterbury’s tales, Arabian nights.
(…) Its pure Marxism, Marx’s “Manifest” says just this: power commercialises the body, it transforms the body in goods.
That sadists have always been powerful is a point of fact. In fact, in De Sade, the 4 people that perform the terrible acts during the 120 days are a banker, a duke, a bishop and a president of the court, and they represent power.

The young people

G.B.: How can this film’s message be understood by today’s young people?
P.P.P.: I don’t think that the young people will understand it. I have no illusions of being understood by the young because it’s impossible to establish a cultural relationship with them because they live new values which have nothing in common with the old values I refer to.
It’s as if they have an agreement! They talk, they laugh and they behave the same way, they love the same things, drive the same motorcycles. In short I saw uniforms when I was a boy, I saw the Fascist youth movement, but I have never seen people conform like they do today, (…) but it’s a conformism based on this informal and self creating youth movement. (…) The horrible thing about journalism and about the Italian culture is that young people are free, they are free of complexes, they are uninhibited, they live a happy life. Imagine the entire Italian bourgeoisie is convinced of this, and the entire left wing, as well. They think these young people are finally the young people…. Do you follow me? They don’t understand, they don’t see because they don’t love them! Those who don’t love farmers don’t understand their tragedy. Those who don’t love the young people couldn’t care less about them. They don’t care about them, because they don’t love them. (…) I, having loved them dearly, have always followed them. (…) It is all dedicated to love (è tutto una dichiarazione d’amore) all of my books and my narrative works speak of the young. I loved them and I depicted them.

Consumerism

P.P.P.: Today’s ideal is consumerism, there is an enormous group extending from Milan to Bologna it includes Rome and spreads to the south. It is a homologating civilisation that makes everything the same. So it’s clear that the barriers fall, that small group disband.

G.B.: Without ideology?

P.P.P.: What, it has no ideology? With a consumer ideology, you don’t… Instead having a flag, the clothes they wear are their flag. Some of the means and some of the external phenomena have changed, but, in practice, it’s a depauperation of individuality which is disguised (si maschera) through its valorisation.

Sex in permissive societies

P.P.P.: During the so-called “repressive” ages sex was a joy, because it was practiced in secret and it made a mockery (era una irrisione) of all of the obligations and duties that the repressive power imposed. Instead, in tolerant societies, as the one we live in is declared to be, sex produces neuroses, because the freedom granted is false and, above all, is granted from above and not won from below. Therefore, the people does not live sexual freedom, instead they adapt to a freedom which is granted to them. (…) “Repressive societies repress everything, therefore men can do anything” , but I have added this concept which for me is lapidary: permissive societies permit a few things and only those things can be done.
That is terrible.

The consumerist couple

P.P.P.: Then this great freedom in heterosexual couples, (..) since it is granted it has become obligatory (…) therefore he feels obliged to always be part of a couple, and the couple has become a nightmare an obsession, instead of a freedom.
Have you noticed how fashionable couples are today? But it is a completely false and insincere couple, (…) what is this sudden romanticism? you may ask. Nothing. It is simply the new couple as revived by consumerism, because this consumerist couple buys. Hand in hand they go to La Rinascente, to Upim…

Europe and the Third World: the possible non existence of history: the modern world will be the synthesis between….

P.P.P.: Besides the anarchy of power, my film is about the possible non-existence of history, that is in contrast with history, as seen by the Euro-centric culture, that is middle class rationalism or empiricism on the one hand and Marxism on the other .
(…) And so how does a nation like France stand on this flood of irrationality which arrives in the wake of the Third World, a world of hunger?

The Third World population precisely because they’ve been repressed (…) like all marginal areas have preserved an earlier sort of culture, which in some way was prehistoric in nature. France sets itself as tamer (ammaestratrice) of rationality to the colonial populations. In fact it educates them very well. France has taken nothing from them it has only given. It gave a model of education, rationality, civilization, but it did not know how to learn anything from them because this religious, irrational, prehistoric type that the Third World brings with it cannot be rationalized. Therefore the French must modify their reason if they want to understand, if they don’t want to remain behind. Paris is a marvellous city that I admire (…) but you feel that it is farther away, more remote and archaic than a little city of any developing nation.

The modern world will be the synthesis between today’s middle- class western world and the world of the underdeveloped nations that are meeting history now, that is, western rationality will be modified by the presence of another type of world vision that these people express.

The anthropological mutation

P.P.P.: Modernity consists in this modification. It is true that man is always the same, but it is also true that he changes. Now more than ever because at this moment we are threatened by a real anthropological mutation. The true apocalypse is that technology, the era of applied science, will transform man into something different from what he was before. Something has happened now that has no equivalent in the history of man. And we are terrified by the idea that our children and descendants will no longer be like us. It’s a sort of end of the world.

Culture saves from consumerism : I am privileged

P.P.P.: but the real sense of sex in my film is a metaphor of the relation between power with its subject. Therefore, in reality, it is true for all times. (..) I detest, above all things, today’s power. Everyone hates the power he is subject to. Therefore, I hate the power of today, of 1975, with particular vehemence. It is a power that manipulates the bodies in a horrible way, (…) it manipulates them, transforming their conscience, in the worst way, establishing new values which are alienating and false The values of consumerism, which accomplish (compiono) what Marx called genocide of the living, real previous cultures. For example, it has destroyed Rome. The Romans no longer exist. (…) Then this type of change has spread the ideology of consumeristic hedonism amongst the Italians, an ideology which is perhaps stupidly, secular and rational. It is nearsighted, narrow. This ideology affects all of Italians, intellectuals included. (…) I also participate in this ideology, in a certain sense (…) I, too, in a certain sense, tend towards superfluous goods. Except that I save myself from all this thanks to culture, etc., in this I am privileged. However the enormous mass of the Italians has fully fallen into this mechanism. Values have fallen and they have been replaced by others. Behaviour models have fallen and were then replaced by others. This replacement was not the will of the people, but it was imposed by the consumerist power, held by the large Italian multi-national industry and even by the national one, made up of pseudo industrialists, that wanted the Italians to consume a certain type of goods in a certain way. And to consume them they had to create another human model. An old farmer, traditionalist and religious did not consume junk food advertised on television. In reality the producers force the consumers to eat shit. They give adultered, bad things, little robiola cheeses, (…) that are shit.

The anarchy of power

P.P.P.: Power remains exactly the same only its characteristics change, the subject is no longer parsimonious or religious, he is a consumer and so he is short sighted, irreligious, secular, etc. The cultural characteristic change, but the relationship is identical.

Therefore it is a film not only about power, but about what I call “The anarchy of power”. Nothing is more anarchic than power. Power does what it wants and what it wants is totally arbitrary or dictated by its economic reasons which escape common logic.

Aggressiveness and consumerism

P.P.P.: Both Christianity and Marxism have been always been imposed from above, they have never come from below. The principle of submission might be a bit similar to Marx’s (perhaps he means Freud?) death instinct, no? Co-existent with the aggressive spirit of love. In my opinion, it continued to exist unchanged under Christianity, because Christianity had quickly become the State religion that is from the dominating class and it was imposed, therefore it did not change these profound instincts. instead the only ideological system which has truly involved the dominated class as well is consumerism, because it is the only one that went all the way, which gives a certain aggressiveness, because this aggressiveness is necessary to consumption. If one is purely submissive, he follows the pure instinct of submission like an old farmer who would lower his head in resignation, which is a sublime act like heroism. Now this spirit of resignation, of submission no longer exists, how can a consumer be resigned or accept a, so to speak, archaic, backward and inferior state? He must fight to raise his social status. “I lower my head in the name of God” is already a great phrase While now, the consumer does not even know he lowers his head, to the contrary he stupidly believes he has not lowered it and that he has won his rights. (…) instead is a poor fool.

Ancient rituals and modern rituals

P.P.P.: Power is always a codifier and ritual. But which ritualizes which codifies is always nothingness, pure will, that is, its own anarchy.

Men were in need of a myth. However, in the average farming world myths were always relived through rituals. The Mass was a ritual which, for millenniums, crystallized a religious creed.

All the ancient religions can be summarized in one model, that of the eternal return: death and then resurrection. Death and resurrection, of nature, grass, harvests…. This eternal return no longer has any sense for modern man. The seasonal cycle has been replaced by infinite cycles of production and consumption, the bicycle, the automobile, the clothing…. There are many small cycles. Produce and consume, produce and consume is an artificial cycle, rather then natural, but still a cycle.Today rituals are of another type, for example lining up in front of a TV or waiting in a queue of cars on the week end or going on a pic nic in a field. Every power has its forms of ritual. One of the features of the disappearance of the myth and the ancient farmer ritual, replaced by industrialization, is the disappearance of initiation. For the Catholic religion, puberty had Communion and Confirmation, which now no longer have any weight, they no longer have any meaning. Now there is no initiation because a newborn is already a consumer. There is no initiation into the consumerist society. The young people have the same authority as consumers as the elders do.

Man is a conformist

P.P.P.: Man has always been a conformist. His main characteristic is that of conforming to any type of power or quality of life he finds at birth. Perhaps biologically man is narcissist, rebellious, he loves his own identity etc. but it’s society that makes him conformist and he’s lowered his head once and for all, before the obligations of society. I don’t believe there will ever be a society in which man is free.

G.B.: Hope …..

P.P.P.: So it is futile to hope so.

P.P.P.: But, we must never hope in anything. Hope is a terrible thing, invented by the parties to keep their members happy.

Cinema expresses reality through reality: films are dreams

P.P.P.: I don’t write like I used to, which is the same as saying that I no longer write. At first when I began to make films, I thought it was only the adoption of a different technique, I would almost say of a different literary technique. Then instead I realized bit by bit that it was the adoption of a different language! (…) But there’s another truth perhaps more complicated and profound: language expresses reality through a sign system. Instead the director expresses reality through reality. Maybe this is the reason why I like cinema and I prefer it to literature, because in expressing reality as reality I continuously work and live at the level of reality. A poet uses the word “flower” but where does he take it from? He takes it from the language of men which we use in communicating. Instead, what other language are images based on? They are based on the images of dreams and memories. (…) Then cinema has its foundations, its roots in a completely irrational, irrationalist language: dreams, memory and reality seen as hard fact. Therefore, an image is infinetely more dreamlike (onirica), then a word. In the end when you see a film it seems like a dream. (…)

P.P.P.: I want to edit it perfectly. This film must almost be a crystal at the end, formally. (…) I always try to obtain formal perfection, which I use as a wrapping for the terrible things of De Sade and of Fascism.

(…) If I believed that my cinema were totally integrated into a society that also wanted the kind of films that I make, maybe I wouldn’t make them. But I am convinced that there is something that can’t be integrated. Middle-class society amalgamates, assimilates, digests all. But in every work where individuality and singularity stand out along with originality and violence, there is something that can’t be integrated.

Everything happens in the individual ( E’ nel singolo che tutto avviene)

G.B.: Who is this film for?

P.P.P.: In general, for everyone, for another me. It is true the masses alienate and alter art when the latter is commercialized and proposed to them in a certain way, but the masses are still made up of individuals. And so, in a theatre, in a social ritual, let’s say, where my film is proposed to the masses in this way etc., in these theatres, in fact, there are individuals. The individual internalizes the world’s problem (il singolo è l’elaboratore dei problemi del mondo). Everything happens in the individual ( E’ nel singolo che tutto avviene). I attribute to the others, even those most constrained, most enslaved by social customs, the chance, in any case, to understand a work in their way, at their level. I have this faith in human freedom that I wouldn’t know how to rationalize. But I realize that, if things continue like this, man will become mechanized, so conformist, so unpleasant and hateful that this freedom will be completely lost.

Sacred vision of things

P.P.P.: When I look at things, I have a rational, critical eye that I take from my secular culture, middle class, and then Marxist. Therefore there is a continuous critical exercise of my reason over world events. But my real vision, the older, more archaic one, given me at birth and shaped in my early childhood, my original vision is a sacred vision of things (è uno sguardo sacrale sulle cose).

P.P.P.: In the end I see the world like those who have a poetic vocation do, that is like a miraculous, almost sacred fact. And nothing can desecrate my fundamental sacredness. I think that no artist in any society is free. Being crushed by the normality and by the mediocrity of any society in which he lives, the artist is a living contestation. He always represents the contrary of the idea that everyman in every society has of himself. In my opinion a minimum, perhaps immeasurable, margin of freedom is always there. I can’t say to what point this is, or is not freedom. But certainly, something escapes the mathematical logic of mass culture, for the time being.
I do and I don’t

G.B.: What must we do, in the meantime?

P.P.P.: What must we do? Be coherent with our ideas and try to do that minimum part that each of us can do. What do you want to do?

G.B.: In short…. believe?

P.P.P.: Even not believe! As long as not believing is dynamic! One who doesn’t believe and makes his unbelief a banner comes to something. The true reality is that contemporary man does not and does believe.

G.B.: But does Pasolini believe or doesn’t he?

P.P.P.: I do and I don’t (credo e non credo) This is my answer.

Tutta l’opera di Pasolini scrittore e regista è ispirata a un vocativo che potrebbe suonare “Perché non si dimentichi di ciò che è stato e di ciò che è, sempre che qualcosa sia” (E.Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, 2005, p.465)

Il Decameron di Pasolini e quello di Boccaccio: osservazioni e confronti

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La novella di Andreuccio inizia con quello che è chiamato raccordo sullo sguardo, in inglese eye shot, si tratta di una sequenza di due immagini, nella prima viene presentato un personaggio che osserva, nella seconda quello che il personaggio osserva, è l’equivalente della focalizzazione interna della narrazione scritta.

Nella novella di Andreuccio di Pasolini ci sono alcune differenze con la versione originale di Boccaccio. Pasolini muta il rapporto tra fabula e intreccio, per esempio anticipa il racconto dell’inganno ordito dalla giovane siciliana ai danni di Andreuccio ed elimina uno degli episodi della sua avventura napoletana .

Il realismo di Boccaccio utilizza uno stile medio, che unisce il realistico a una elegante forma linguistica, anche quando descrive la realtà più bassa, volgare, popolare utilizza sempre uno stile elegante, raffinato.
Pasolini invece non ingentilisce la realtà, la rappresenta senza mutarla.
Pasolini usa il napoletano nel suo Decameron perché è la lingua del popolo. “Ho scelto Napoli”, dirà Pasolini, “perché è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare quello che erano e, così, di lasciarsi morire”. Napoli e i napoletani sono il simbolo della resistenza a quella trasformazione causata dal capitalismo industriale che Pasolini riteneva disastrosa per l’uomo e il mondo. La scena finale di Andreuccio che esce dalla chiesa danzando è inventata da Pasolini e aggiunge una nota di gioia alla vittoria finale del giovane.

 

 

La novella di Lisabetta ha inizio con quello che è chiamato il trattamento oggettivo della scena (objective treatment of a scene); allo spettatore viene presentato ciò che sta di fronte alla camera nella narrazione della storia. Lo spettatore non vede la scena attraverso il punto di vista di un personaggio; è l’equivalente del narratore esterno della narrazione scritta.

Pasolini dedica la lunga scena iniziale a uno degli incontri notturni di Lisabetta e Lorenzo, nella novella di Boccaccio non c’è traccia di questi incontri che sono appena accennati in un breve passaggio “e sì andò la bisogna che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno.” Nella lunga scena iniziale Pasolini prefigura la fine della novella e crea un racconto a struttura circolare. Subito dopo l’inquadratura della finestra Lisabetta bacia Lorenzo sdraiato a torso nudo sul letto, il giovane è immobile e appare come morto, l’ultima inquadratura è quella di Lisabetta con le braccia tese verso il vaso di basilico sulla finestra.

Pasolini modifica il racconto di Boccaccio mostrando la reazione violenta di uno dei fratelli di Lisabetta. Il realismo di Pasolini è molto più crudo di quello di Boccaccio, non esclude, non nasconde nulla, neanche ciò che può disturbare, infastidire il lettore o spettatore.

Pier Paolo Pasolini 1922 – 1975

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P.P.P. fotogrammi da “Pasolini prossimo nostro” 2003

(…)
” Quando gli anni Sessanta
saranno perduti come il Mille,
e, il mio, sarà uno scheletro
senza più neanche nostalgia del mondo,
cosa conterà la mia “vita privata”,
miseri scheletri senza vita
né privata né pubblica, ricattatori,
cosa conterà! Conteranno le mie tenerezze,
sarò io, dopo la morte, in primavera,
a vincere la scommessa, nella furia
del mio amore per l’Acqua Santa al sole. ”
da “Poesie mondane” in Poesia in forma di rosa
vita di Pier Paolo Pasolini

Ragazzi di Vita di Pier Paolo Pasolini.

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Pier Paolo Pasolini è stato uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani del XX secolo. Tra le sue opere si contano poesie, romanzi, saggi, traduzioni, articoli di giornale, sceneggiature teatrali e film.

Una delle opere più famose di Pasolini è il romanzo  “Ragazzi di vita”pubblicato nel 1955.
La storia si svolge nella Roma del secondo dopoguerra, città distrutta, con palazzi cadenti e abbandonati. In tutta la città sorgono cantieri con lo scopo di ricostruire gli edifici distrutti. Per esempio il “Ferrobedò”è un quartiere con fabbriche abbandonate in cui le persone più povere si recano con lo scopo di rubare degli oggetti, per poi rivenderli e guadagnare qualche soldo.
I protagonisti dell’opera sono dei ragazzi appartenenti al sottoproletariato urbano che vivono arrangiandosi come possono. Il filo conduttore della storia è il Riccetto, un tipico ragazzo dell’epoca di cui vengono raccontate le avventure a partire dal 1943. Fin dall’inizio si capisce l’età del Riccetto attraverso le parole dell’autore: ha circa dieci/undici anni.
La sua famiglia vive abusivamente nel corridoio di una scuola abbandonata. A seguito del crollo della scuola muoiono sua madre e un suo caro amico d’infanzia. Il Riccetto si trova dunque solo, senza punti di riferimento e legami affettivi. Si trasferisce da suo cugino, ma di fatto trascorre la maggior parte del tempo per le vie di Roma assieme ad amici sempre diversi.
I ragazzi trascorrono le loro giornate per strada e lo spirito di sopravvivenza è quello che prevale. Non si perde l’occasione di rubare un portafoglio pieno di soldi di una signora, di appropriarsi illegalmente di due poltrone per poterle rivenderle; non ci si ferma nemmeno davanti agli amici, infatti il Riccetto ruba un paio di scarpe a un suo amico che dorme. La fame è sempre in agguato, e quando non ci sono alternative e rubare diventa l’unica possibilità per riempirsi lo stomaco, non c’è morale che tenga.
Alla povertà si aggiunge la violenza. Alduccio, esasperato dalle insistenti lamentele della madre che gli si rivolge definendolo “disgrazziato” e “magnazza infame” a causa del suo poco impegno in ambito familiare, è accecato dalla rabbia e con foga animalesca la accoltella nella cucina della casa. Un altro scioccante episodio vede protagonisti un gruppo di ragazzini che, per noia e in cerca di attenzioni femminili, decidono di fare un gioco nel mezzo del quale legano un compagno ad un palo, dandogli fuoco.
Un altro problema del tempo è la prostituzione: già dai primi capitoli il lettore incontra i protagonisti alla continua ricerca di donne. Non vi è un’età in cui ci si approccia alla sessualità e le vicende del Riccetto ne sono un esempio: lo incontriamo molto giovane nel secondo capitolo, nel quale si racconta della gita ad Ostia che compie con degli amici, in occasione della quale il gruppo organizza un appuntamento con una prostituta di nome Nadia, che in seguito ruberà loro i soldi. Nei capitoli seguenti alcuni ragazzi non si fermano neppure davanti alla richiesta di un uomo adulto ad avere rapporti omosessuali con loro. I giovani e il “froscio”, da loro così volgarmente chiamato, si appartano in una grotta nei sobborghi di Roma e i ragazzi, al termine dell’episodio, per riacquistare la loro virilità, decidono di recarsi in un bordello. Per questo motivo il romanzo è stato oggetto di numerose critiche e e di una denuncia per “oscenità”.
Nel testo il fiume ha un ruolo centrale, fa parte di una sorta di rito iniziatico: i ragazzi lo attraversano per dare prova di essere grandi, adulti e pronti: il Riccetto compie la traversata con successo; al contrario Genesio, nel disperato tentativo di dimostrare a sé stesso e agli altri il proprio valore, si tuffa senza saper nuotare e muore trascinato dalla corrente.

“Ragazzi di Vita” può essere considerato un romanzo picaresco di formazione, infatti segue il protagonista, il Riccetto, nella sua evoluzione verso la maturazione e l’età adulta. L’autore rivoluziona il modo di scrivere dando voce diretta ad una classe sociale da sempre esclusa dalla letteratura alta.
Le situazioni in cui, volta per volta, si vengono a trovare i vari protagonisti sono raccontate e descritte da Pasolini in modo diretto e naturale. Una particolarità del romanzo riguarda i dialoghi tra i personaggi: i discorsi sono riportati in dialetto romano delle borgate, scelta che rispecchia l’obiettivo dell’autore di porci davanti all’esatta realtà quotidiana dell’epoca.
Possiamo metaforicamente paragonare “Ragazzi di Vita” ad una fotografia della Roma del tempo, ora però completamente scomparsa poiché inevitabilmente trasformata dall’avanzare della società. Nella prefazione al testo Vincenzo Cerami sottolinea il carattere di “struggente tenerezza” con cui Pasolini osserva i suoi personaggi. Afferma che: “Pasolini osserva i suoi personaggi nella consapevolezza che saranno spazzati via dalla storia, o più precisamente che diventeranno ben altra e infelice cosa. Da un lato è commosso dalla vitalità di queste creature che scoprono il mondo cercando di tirarne fuori, anche se maldestramente, il meglio. Dall’altro, con forte sentimento di pietas, le vede lentamente e inesorabilmente asservirsi a un modello di sviluppo che le esclude dal suo orizzonte”.

Per quanto riguarda un giudizio personale, consigliamo vivamente la lettura di questo libro. Leggendolo, infatti, conosciamo una delle opere più famose di Pier Paolo Pasolini, autore che ha dato un importantissimo contributo alla letteratura italiana del XX secolo. La sua opera è stata per noi spunto di profonde riflessioni. Il modo in cui Pasolini descrive la gioventù dell’epoca ci permette di meditare sull’importanza dell’educazione. È dovere della società promuovere attività volte a valorizzare le potenzialità dei giovani e preoccuparsi del loro futuro, in modo tale che possano raggiungere i loro obiettivi e costruire al meglio la società del domani.
(di Ilaria Di Turi, Chiara Gobbo, Linda Maiorano, Federica Zoanni)

Boccaccio riletto da Pasolini, il Decameron e la sua sconcertante umanità

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La versione cinematografica del Decameron diretta da Pier Paolo Pasolini uscì nel 1971 e fu fin da subito accompagnata da numerose critiche e persino denunce e sequestri in varie parti d’Italia, ma anche da importanti riconoscimenti come l’Orso d’Argento al Festival di Berlino.

Il film offre un’originale interpretazione dell’opera di Boccaccio, non perché si discosti particolarmente dalla visione dell’autore, forse perché più di tutti ha saputo coglierne la reale essenza, molto spesso incompresa. Il Decameron è infatti, come scrisse Alberto Moravia, un libro “non solo privo di tabù, ma anche privo del compiacimento di non averne”, ed è proprio la visione che Pasolini fece sua. A tal proposito si liberò di tutti gli elementi artificiosi del libro, gettandone via la cornice illustre e umanistica; sostituì, in particolare, la ricercata “favella” toscana con il dialetto napoletano e la finzione della villa, luogo edenico fortemente contrapposto al mondo reale, con gli sporchi vicoli di Napoli. Con questa precisa scelta stilistica Pasolini intende quindi esprimere la più sincera gioia di vivere di Boccaccio e la sua volontà di rappresentare la realtà per come è, in tutti i suoi aspetti.

I personaggi del Decameron sono profondamente umani, con tutti i loro vizi e le loro virtù, le più forti passioni e le più basse debolezze. Sono uomini prima che personaggi, in tutta la loro sconcertante umanità. Pasolini riesce a tratteggiare ancor meglio questo aspetto con le immagini, come nella novella di Andreuccio, non a caso scelta come apertura del film. Andreuccio appare goffo e ingenuo nei suoi movimenti, disincantato nelle sue espressioni, più volte riprese da Pasolini nel corso della novella, a sottolinearne la progressiva crescita e maturazione. E’ molto interessante anche l’interpretazione che riesce a dare della silenziosa Lisabetta, protagonista di una delle novelle centrali, che si rivolge al suo amato con languore, chiedendogli di restare ancora un po’ a letto con lei. Questa vicenda non compare nella novella originale e ci offre chiaramente una chiave di lettura in più della visione di Pasolini.

Un elemento fondamentale del Decameron è sicuramente l’erotismo, che il regista risolse nella più realistica maniera possibile: l’erotismo boccaccesco è un fatto puramente di corpi, la sessualità è, come l’amore, un naturale impulso irresistibile, e così viene rappresentata. Fu questo a suscitare le critiche più forti e ostinate, proprio la “naturale delicatezza con cui questa gente rozza vive la dimensione corporale”, commentò Serafino Murri.

Il Decameron di Pasolini suscitò accesi dibattiti alla sua uscita, ma ancora oggi non smette di stupire e scandalizzare per la sua candida naturalezza. Forse ci vergogniamo così tanto della nostra natura umana da aver imparato ad allontanarla, negarla, nasconderla. In tutto ciò, Pasolini resta un visionario, un uomo capace di vedere in maniera nuova e originale, spogliandosi di tutti i pregiudizi e i tabù della nostra società, ma ancor più geniale per essere stato capace di raccogliere questa sua visione ed averla resa accessibile a tutti, anche se veramente comprensibile solo a chi, come lui, saprà spogliarsi dei proprio tabù per poter vedere con occhi nuovi.

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Il Decameron di Pier Paolo Pasolini

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Il Decameron di Pier Paolo Pasolini 

Decameron film completo  (novella di Andreuccio fino al minuto 22, novella dell’usignolo (quinta giornata novella quarta), novella di Lisabetta e seconda cornice con Pasolini come “allievo di Giotto” dal minuto 54 al 124)
I luoghi del Decameron di Pier Paolo Pasolini

Il commento-recensione di Alberto Moravia (L’Espresso 11 luglio 1971)

È giunto forse il momento di parlare del modo con il quale Pier Paolo Pasolini affronta e risolve il problema dell’illustrazione cinematografica di quei testi di cui è convenuto dire che appartengono al patrimonio culturale dell’umanità.

Al tempo del Vangelo secondo Matteo Pier Paolo Pasolini spiegò che per l’interpretazione aveva voluto evitare le ipotesi particolari e aggiornate e tenersi invece al senso comune. Cosa intendeva Pasolini per senso comune? Evidentemente, la fruizione del testo, attraverso i secoli, “fuori della storia”, da parte di infiniti lettori, nei luoghi e nelle situazioni più diverse. Il senso comune: cioè il senso di tutto ciò che sfugge alla moda, alla storia, al tempo.

Pasolini, d’altra parte, come è noto, è un manierista, forse il maggiore della nostra letteratura dopo D’Annunzio. Così fin dal Vangelo secondo Matteo abbiamo avuto questo curioso e raffinato connubio: la visione “inattuale” del senso comune accoppiata coi mezzi espressivi “attuali” del manierismo decadente.

Per Il Decameron, Pasolini ha proceduto in maniera non dissimile che per Il Vangelo. Ha accettato e fatta sua la visione del senso comune di tutti i tempi la quale considera Il Decameron come un libro non solo privo di tabù ma anche privo del compiacimento di non averne; un libro, cioè, in cui letteratura e realtà si identificano perfettamente per una rappresentazione totale dell’uomo. Accettata questa visione in fondo scandalosa (rispetto alla morale repressivamente permissiva di oggi) Pasolini è passato a lavorare sui racconti del Boccaccio con tutte le risorse del suo estetismo critico e virtuosistico.

Per prima cosa ha notato che nel Decameron la rappresentazione realistica della civiltà contadina è chiusa in una cornice umanistica e raffinata. Indubbiamente questa cornice ha una grande importanza; essa crea quel rapporto tra gentilezza e rusticità, tra realismo e letteratura, tra immaginazione e verità che è uno degli aspetti più affascinanti del Decameron. Gettando via questa cornice illustre ed elegante, Pasolini sapeva di modificare profondamente il testo boccaccesco; ma dimostrava al tempo stesso di essere un regista irresistibilmente originale ossia fatalmente infedele.

Pasolini non soltanto ha gettato via la cornice umanistica ma ha anche sostituito la “favella” toscana con il dialetto napoletano. Si comprende anche facilmente perché. Una volta distrutta la finzione della villa deliziosa in cui, in tempi di pestilenza, si ritira una brigata di gentiluomini e di gentildonne per godersi la vita e raccontarsi dilettose vicende immaginarie, alla rappresentazione del mondo boccaccesco conveniva meglio il napoletano ancora oggi vivo ed aggressivo che il toscano così estenuato persino in bocca ai contadini e agli artigiani. L’operazione linguistica è perfettamente riuscita ed è uno dei caratteri più originali del film. Ne è venuto fuori un Decameron in cui gli umidi e sordidi vicoli di Napoli sostituiscono le pulite rughe di Firenze e la rozza e rigogliosa campagna campana il pettinato contado toscano. Questa sostituzione topografica a ben guardare è resa visibile soprattutto dalla sostituzione linguistica. A conferma una volta di più dell’importanza della parola nel cinema.

Altra soluzione felice è quella del problema dell’erotismo boccaccesco altrettanto proverbiale quanto, in fondo, incompreso. Pasolini ha eliminato ogni tentazione di scollacciatura e ha fuso arditamente la serenità rinascimentale con l’oggettualità fenomenologica moderna. Nel film di Pasolini c’è più nudo che nel “musical” Oh! Calcutta!; ma senza il compiacimento di infrangere tabù, semmai con l’idea di spingere la rappresentazione fin dove è necessaria e dunque lecita. Crediamo che sotto questo aspetto Il Decameron pasoliniano segnerà una data importante. Forse è la prima volta che l’atto della copula viene presentato al cinema come puro e semplice gesto dei corpi, privo di significato e di valore, anzi visto come qualche cosa di difficile, di goffo e di scomodo che richiede la cooperazione di ambedue gli amanti.

Adesso bisognerebbe parlare di ogni singola novella e vedere dove Pasolini ha espresso meglio il suo sentimento del Decameron. Ci pare che tre novelle si levino al di sopra delle altre: quella dell’Isabetta e della pianta di basilico (qui la lezione di Mizoguchi e del cinema giapponese è messa a frutto); quella cosiddetta dell’usignolo (un po’ leziosa ma è leziosa anche nel Boccaccio); quella di Masetto da Lamporecchio (la più importante per quanto riguarda il trattamento “oggettuale” dell’erotismo – vedi immagine a sinistra). A queste tre pensiamo che bisogna aggiungere i due aneddoti di Peronella e di compar Pietro nei quali è recuperata l’antica rusticità della Campania. Nella novella celebre di Andreuccio preferiamo la parte della cattedrale (vedi immagine a destra) a quella della casa della cortigiana.

Gli interpreti sono tutti bravi per merito loro e di Pasolini che ha saputo sceglierli e dirigerli. Ma essi valgono soprattutto come volti inventati e rappresentati con estraniata immediatezza da encausto pompeiano.