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Una buona occasione. L’importanza di scrivere con onestà contro l’indifferenza di Virginia Pignata VAL a.s. 2015/16

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Una buona occasione pdf

“Non c’è più bellezza e conforto se non nello sguardo che fissa l’orrore, gli tiene testa, e, nella coscienza irriducibile della negatività, ritiene la possibilità del meglio.” T. Adorno

Virginia Pignata V AL a.s. 2015/16

INTRODUZIONE
Decidere un giorno di smettere di mangiare animali è stato per me come un punto zero: mettermi di fronte a immagini dolorose, violenze innecessarie è stato un duro bagno di verità, ma mi ha permesso di vedere il mondo con una lente diversa. Tante cose che mi definiscono oggi partono da lì. Imparare ad amare gli animali mi ha insegnato ad amare gli uomini, partendo dal principio che nessuna vita vale più di qualsiasi altra, mai, che la violenza non è mai lecita, non è mai lecita la discriminazione, e che anche singoli, piccoli ceppi di bene sanno moltiplicarsi veloci; e che sì, se pur piccola, una differenza è sempre possibile farla.
Qualche mese fa sono stata al cinema a vedere Fuocoammare, documentario meritatamente premiato di Gianfranco Rosi: una poesia gentile e discreta sulla realtà triste di una tra le isole più belle e intrise di tragedia del mondo intero: Lampedusa. Fuocoammare non ostenta nulla, perché nulla c’è da ostentare. Con poche parole, attraverso l’anima curiosa di un protagonista bambino dagli occhi furbi e limpidi, Fuocoammare racconta della tragedia che macchia la nostra terra e le nostre coscienze di sangue umano, lo stesso che oggi, qui, scorre nelle mie vene, e mi rende viva. Di vivo invece, di uomini che forse più di molti la vita l’hanno amata proprio da morire, non resta più nulla. Non sapremo il nome del loro primo amore, cosa sognavano da bambini, se di bambini ne avevano o volevano averne, come li avrebbero chiamati; di loro non conosciamo nemmeno il nome, l’età, non abbiamo famigliari da avvertire, funerali da celebrare, corpi da seppellire, e onorare. Solo numeri, sterili e freddi, che sentiamo ripetere incessantemente, insieme alle proteste di molti per tenere questi numeri (numeri certo, ormai numeri prima che uomini) il più bassi e conciliabili con le nostre esigenze da occidentali privilegiati possibile. Fuocoammare mi ha fatto sentire arrabbiata, impotente e piccola. Mi sono sentita di abitare ingiustamente la vita che vivo, con un privilegio di nascita che non mi sono mai meritata, che tutte le mie preoccupazioni sono inutili e superficiali in confronto al loro disperato desiderio di vita e pace, che se esiste qualcosa che io posso fare per loro, non lo sto facendo. Ma la rabbia non serve, e così la tristezza, ed è valida e giusta la mia vita tanto quanto quella di ogni altro uomo. Sta a me però, renderla di una qualche utilità. Io non credo nella guerra, se non in quella che si combatte con una penna in una mano e l’altra mano sul cuore. Credo nel potere delle parole e dell’onestà, credo nel dialogo e nella condivisione, nel guardarsi negli occhi e riconoscersi uomini. Per questo oggi ho deciso di parlare di chi una differenza l’ha fatta, uomini e donne che hanno svolto il proprio compito con elegante sapienza, con coraggio e gentilezza, che hanno saputo scrivere per gli uomini tutti (ed esiste a tal proposito una bella parola collettiva che si dovrebbe usare di più: umanità), per creare una cultura di pace, disintegrare il conformismo, smascherare la menzogna, screditare l’odio. Uomini prima che scrittori, tutti appartenenti, al di là delle generazioni, a quella categoria che Romano Luperini definisce dei nuovi intellettuali, che “non hanno più nulla della figura tradizionale dell’intellettuale-uomo di cultura, orgoglioso della propria missione individuale e della singolarità del proprio sapere-potere. Della loro passata funzione probabilmente conservano solo questo: la volontà di capire e di intervenire con la loro voce. Tutto sommato, non è poco.” Riconoscere l’indifferenza, esporla e denudarla, per cercare una ricetta che la abbatta, la rada al suolo e ne disperda i resti, per potercene un giorno ricordare come della più letale e spietata tra le malattie, che ha ucciso tanti e condannato nessuno, poiché mai nessuno ha saputo realmente di esserne affetto. Ecco allora che per curare occorre diagnosticare, e nessuna parola appare più inutile o di poco conto. Parlare di uomini, della pietas che ci muove e avvicina l’un l’altro: questo significa già farla, la guerra, ma una guerra per la non-violenza, che non si combatte contro nessuno, ma insieme a tutti. La letteratura la rivoluzione la fa così.

ITALIANO Lettere contro la guerra, Tiziano Terzani
Tiziano Terzani (1938-2004) è stato per 30 anni corrispondente dall’Asia per Der Spiegel, settimanale tedesco, e in seguito Repubblica e Corriere della Sera. Si è sempre trovato in prima linea nei luoghi in cui si faceva la Storia: ha seguito l’ascesa del comunismo in Cina, per condannarne poi con delusione e amarezza i risultati, ma anche la guerra in Vietnam, il crollo dell’Unione Sovietica, sempre con uno sguardo lucido e onesto. La ricerca della verità è stata il filo conduttore della sua vita e della sua carriera: la verità delle cose, senza fronzoli e giri di parole, al di là delle ideologie e della retorica, dei pregiudizi e delle cose taciute. Nel 2002 Terzani pubblica Lettere contro la guerra, una raccolta di lettere senza alcun destinatario se non l’umanità stessa. La prima, intitolata Una buona occasione, compare sul Corriere della Sera il 14 settembre 2001, pochi giorni dopo l’attentato alle Torri gemelle: per Terzani è questa una buona occasione per riflettere, ripensare al nostro modo di abitare il mondo, al nostro modo di essere occidentali; ripensare all’ideale della globalizzazione, della democrazia e collocarlo in contesti e realtà diverse dalla nostra, dove forse non funziona ugualmente bene, ammesso funzioni bene anche qui, s’intende. Ripensare alla diversità, ma soprattutto all’uguaglianza. E dalla rabbia, dal dolore, imparare. Non era quella l’occasione per fare la guerra, scrisse Terzani, ma piuttosto una buona occasione per fare finalmente la pace. “L’ecatombe di New York ci ha dato l’occasione di ripensare a tutto e ci ha messo dinanzi a nuove scelte. Se vogliamo capire il mondo in cui siamo, dice Terzani, lo dobbiamo vedere nel suo insieme e non solo dal nostro punto di vista.“ E ricordare, ad esempio, che prima della tragedia delle Torri ci fu anche il mezzo milione di morti, molti dei quali bambini, a causa della malnutrizione e la miseria generate dall’embargo posto dagli USA all’Iraq di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo. Il nemico non sta mai da una parte sola. Offrire un solo racconto di una storia è pericoloso, come raccontò anche la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie.
In un discorso tenuto presso la sede TED, ‘The danger of a single story’, la Adichie, appartenente per nascita alla classe media del suo paese, racconta dello stupore della sua coinquilina al college, negli Stati Uniti, nello scoprire che in Nigeria si parlasse inglese, e che Chimamanda non ascoltasse musica tribale, ma Mariah Carey. Chimamanda le faceva già pena ancor prima di incontrarla. La sua posizione di partenza verso di lei, come africana, era una specie di pietà condiscendente, e piena di buone intenzioni. La sua coinquilina aveva una storia unica dell’Africa. Una storia unica di catastrofi. In questa storia unica, non c’era alcuna possibilità che gli africani le somigliassero, in alcun modo. Nessuna possibilità di sentimenti più complessi della pietà. Nessuna possibilità di rapportarsi tra esseri umani di pari livello. La Adichie, dice, il perché è riuscita a capirlo in pochi anni stando in America: se non fosse cresciuta in Nigeria, e se tutto quel che avesse saputo dell’Africa fosse derivato da immagini mediatiche, anche lei avrebbe pensato che l’Africa fosse un continente dalla natura incontaminata, popolato da animali esotici e persone incomprensibili, che combattono guerre senza senso, che muoiono di povertà e AIDS, incapaci di far sentire la propria voce, che aspettano solo di essere salvati da uno straniero, bianco e gentile.
La realtà è sempre più variegata di qualsiasi definizione se ne possa dare. L’unico mezzo, forse, di cui disponiamo per tutelarci dal pericolo di un racconto unico, cioè un’unica limitata prospettiva, è quello di offrirne molteplici. Tiziano Terzani ha sempre cercato di farlo, con onestà, sincero rispetto e attitudine critica. “Fino a quando penseremo di avere il monopolio del bene, fino a che parleremo della nostra come la civiltà, ignorando le altre, non saremo sulla buona strada. Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo.” Oriana Fallaci, come lui giornalista e scrittrice, rispose pubblicamente alla lettera aperta di Terzani con parole cariche di rabbia e risentimento, con ricette di guerra a quello che lei indiscutibilmente definì come inesorabile scontro di civiltà, offrendo forse infine una storia unica, quella dell’Islam invasore, quella dell’inevitabile e fatale scontro di civiltà. Ma la realtà è sempre molto più complessa. Oriana e Tiziano ebbero simile formazione: entrambi fiorentini, entrambi giornalisti. Da corrispondenti di guerra ne avevano entrambi conosciuto l’orrore e la disumanità. Eppure questo ad Oriana non era bastato a riconoscerne l’assurdità.
“(…) pensi davvero, chiede Terzani nella lettera aperta in risposta ad Oriana, che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa.” Ad Oriana, dice Terzani, i kamikaze non interessano. Non le interessa capire le loro motivazioni, cosa li renda disposti ad un atto tanto innaturale come il suicidio. Terzani invece ha voluto andare tra loro, capire cosa nel profondo li muova verso la violenza più estrema e distruttiva tanto da annullarsi, votarsi completamente ad essa. Per risolvere il problema del terrorismo non basterà infatti uccidere i terroristi, ma eliminare le ragioni che li rendono tali, per impedire che nuovi germi di odio si insinuino in altrettanti giovani e li animino alla più distruttiva delle vocazioni: la guerra. “Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.” L’indifferenza nasce dalla volontà di non voler capire, perché sapere, comprendere, significherebbe percepire l’obbligo morale che ci impone di agire, batterci per ciò che riteniamo ingiusto e immorale, ed è una consapevolezza scomoda, perché impone un cambiamento. E l’uomo, per natura, tende a fuggire il cambiamento. L’indifferenza nasce dall’ignoranza, e dalla volontà di preservarla tale. O ancora, dal naturalissimo meccanismo umano della rimozione, consapevole o inconsapevole, che ci permette di continuare a vivere come se niente fosse. Questo produce un terreno arido alle riflessioni di pace, ma fertile all’odio. La paura, i pregiudizi e le soluzioni semplicistiche ben vi s’insinuano e prolificano, e in questo senso vanno le esortazioni di Oriana: tolgono il dubbio, non lasciano spazio alla possibilità di riconsiderare e criticare, sono perentorie e ferme. Il dubbio è però fondamentale, è funzione essenziale del pensiero, privarcene sarebbe come togliere l’aria ai nostri polmoni. Dubitare significa ammettere di non avere risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo, scrive, non fa il politico), ma porsi domande oneste su quelle altrui. Questo è lecito ed essenziale. Non deve quindi essere criminale parlare di pace in tempi di guerra, semmai il contrario, aggiungerei io. E’ questo il loro compito, in quanto giornalisti e persone libere, con la responsabilità di chi si rivolge a un pubblico ed è in grado di influenzarlo e orientarlo. Hanno il compito di creare e non mettere i presupposti per distruggere, “creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia”. “Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e, non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche delle grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto a “creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia”.” Nella lettera conclusiva della raccolta, Terzani riporta in un passaggio le parole di Gino Strada, fondatore di Emergency, “La guerra non rompe solo le ossa della gente, rompe i rapporti umani”. La guerra è una cosa semplice, non servono giri di parole per descriverla. E’ distruzione, disgregazione e annullamento di tutto ciò che ci rende uomini. Arma fondamentale per debellarla è la comunicazione. Ecco cosa dovremmo promuovere per favorire la pace: comunicazione, parole, dialoghi aperti, non l’odio, che genera solo altro odio, non la violenza, che si autoalimenta in un circolo suicida. Cosa fare? Opporsi! Votando chi non appoggia la politica bellica, l’industria delle armi, la militarizzazione della società. Dicendo ciò che sentiamo essere vero: che ammazzare è in ogni circostanza un assassinio. Parlando di pace, creando una cultura di pace nei giovani, nelle scuole. Cominciando a prendere le decisioni che ci riguardano e che riguardano gli altri sulla base di più moralità e meno interesse. Facendo più quello che è giusto, invece di quel che ci conviene. Educando i figli ad essere onesti, non furbi. Impegnandosi per i valori in cui si crede. Visti dal punto di vista del futuro, scrive Terzani, questi sono ancora i giorni in cui è possibile fare qualcosa. Facciamolo. A volte ognuno per conto suo, a volte tutti assieme. Ogni contributo è importante. Tutte queste guerre, il terrore con cui conviviamo, il dolore delle morti inutili e innocenti: questa è una buona occasione per invertire la rotta, orientarsi alla pace, alla bellezza. Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma certo non è preferibile né in alcun modo auspicabile l’abbrutimento che ci sta davanti.
Pro o contro la bomba atomica, Elsa Morante
Nata, nel 1912, da genitori di modesta condizione, in un affollato casamento romano, come scrisse lei stessa nella sopraccoperta di un suo libro, Elsa Morante è stata scrittrice, saggista, poetessa e traduttrice. Collaborò con il cinema, in particolare modo per i film dell’amico Pierpaolo Pasolini.
Tra i suoi romanzi ricordiamo: Menzogna e sortilegio (’48), L’isola di Arturo (’57), La storia (’74), Aracoeli (’82). Elsa Morante è stata una testimone acuta e libera del secolo breve e delle sue innumerevoli contraddizioni, sempre con estrema indipendenza, disancorata da qualsiasi corrente o gruppo.
Pro o contro la bomba atomica è un breve saggio di grande impegno morale, in cui la Morante espone con coraggio e chiarezza la sua poetica. E’ tratto da una conferenza che l’autrice tenne più volte nel 1965, nel pieno della guerra fredda e della minaccia atomica. E’ un argomento, dice, di cui non ci si deve stupire che lei parli, poiché nessun argomento più di questo interessa oggi uno scrittore. Uno scrittore, non un letterato, dice la Morante: uno scrittore è infatti un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura. “(…) l’aggettivo atomico viene ripetuto in ogni occasione, perfino nelle barzellette e sui rotocalchi. Ma, riguardo al significato pieno e sostanziale dell’aggettivo, la gente, come succede, se ne difende, per lo più, con una (del resto, perdonabile) rimozione. E anche quei pochi che riconoscono l’effettiva minaccia che esso significa, e se ne angosciano (e per questo, magari, vengono considerati dagli altri dei nevrotici, se non dei matti) anche quei pochi, però, si preoccupano piuttosto delle conseguenze del fenomeno, che non delle sue origini, diciamo, biografiche, e dei suoi riposti motivi.“ La minaccia atomica subisce lo stesso meccanismo umano che si applica a molte tra le più grandi preoccupazioni e colpe dell’uomo nella storia, e, a mio avviso, si applica anche oggi alla questione dei migranti, alla guerra in Medio Oriente: una rimozione, che sia cosciente o meno. Siamo infatti consapevoli e addolorati per quanto accade nel mondo, consapevoli pure che probabilmente anche in questo istante qualcuno sta affogando per il sogno di una vita in un paese libero, eppure noi continuiamo a vivere la nostra vita di ogni giorno come se la cosa non ci riguardasse o fosse troppo lontana da noi per avere una qualche minima possibilità di azione. E’ un meccanismo del tutto umano e lecito, che ci permette di distogliere la nostra mente da una consapevolezza troppo dolorosa per conciliarsi con la nostra vita. E’ istinto di sopravvivenza, si potrebbe dire: angosciarsi continuamente sarebbe infatti inutile e inabilitante. Questo però non può distogliere dall’idea di rendere la propria vita di una qualche utilità, la maggiore che è possibile offrire, che vada al di là del proprio circoscritto interesse. La bomba atomica è l’espressione, simbolo del suo tempo, dice la Morante. Si direbbe che l’umanità contemporanea provi la tentazione di disintegrarsi con una paradossale e suicida guerra atomica. Qual è, in tutto questo, il ruolo di uno scrittore? Secondo la Morante, lo scrittore è predestinato antagonista alla disintegrazione in quanto porta testimonianza del suo contrario: l’arte, dice la Morante, è infatti il contrario della disgregazione. L’arte ha il compito di restituire alla coscienza umana l’integrità del reale. La realtà è infatti una, viva, multiforme e cangiante, non esistono differenze, distanze tra gli uomini, tutti ugualmente partecipi e interdipendenti in questo gigantesco e pulsante contenitore di vita. Ecco perché non può esaurirsi in definizioni, ideologie, schieramenti, mai abbastanza grandi da darne rappresentazione fedele. L’irrealtà è invece la menzogna che uno scrittore si occupa di smascherare, è l’odio, la guerra, il conformismo, l’ipocrisia. Contro la bomba atomica non c’è che la realtà stessa, che non ha bisogno di prefabbricarsi un linguaggio, ma parla da sola. Essa è irreale e frutto della disintegrazione, l’arte per sua natura non può che esserle antagonista. Lo scrittore ha una funzione molto importante: in una folla soggetta a un imbroglio, la presenza anche di uno solo, che non si lascia imbrogliare, può fornire già un primo punto di vantaggio. Ma il punto poi si moltiplica per mille e centomila se quell’uno è uno scrittore. Anche senza accorgersene, per necessità del suo istinto, il poeta è destinato a smascherare gli imbrogli. E una poesia, una volta partita, non si ferma più; ma corre e si moltiplica, arrivando da tutte le parti, fin dove il poeta stesso non se lo sarebbe aspettato.
Un poeta faticherà a farsi ascoltare, a sovrastare il logorante rumore della noia e della alienazione, e talvolta sarà anche tentato di mandare tutti all’inferno e fuggire, ma poi, o non lo farà, o, dopo ogni fuga, ritornerà indietro: perché lui, per sua natura, ha bisogno degli altri, specie dei diversi da lui. Senza gli altri, è un uomo disgraziato. E così rimarrà sul campo: là dove ormai si espande il sistema della disintegrazione, ossia l’irrealtà. Non sarà funzionario o suddito del sistema, e nemmeno semplice estraneo o testimone, che riferisce sul sistema: giacchè l’arte, per la sua definizione propria, non può fermarsi alla denuncia: vuole altro. Compito dello scrittore è da solo, fissare in faccia i mostri aberranti generati dalla cieca paura; e smascherarne l’irrealtà. Per questo lo specchio dell’arte non è necessariamente ottimistico, né certo edulcorato o idilliaco. La purezza dell’arte non consiste nell’escludere o scansare ciò che è brutto, spiacevole, ciò che rattrista, sconforta, ma piuttosto a maggior ragione di includerlo. L’arte parla della realtà, così com’è, nella sua integrità; è liberatoria e rivoluzionaria. Theodor Adorno scrisse che “non c’è più bellezza e conforto se non nello sguardo che fissa l’orrore, gli tiene testa, e, nella coscienza irriducibile della negatività, ritiene la possibilità del meglio.” Nel punto in cui lo scrittore segnerà le sue parole sulla carta, lui compirà un atto di ottimismo. Lo scrittore è colpevole del peccato d’illusione, forse tra tutti i peccati il più nobile (come un inganno dell’immaginazione leopardiano si potrebbe dire, che dà valore e senso all’esistenza umana -non a caso infatti poeti e bambini sono i rappresentanti dell’immaginazione). L’illusione è forza positiva e generatrice, anima e dà fondamento al suo lavoro, senza per questo renderlo inconcreto, astratto, utopistico, come spesso deve sentirsi accusare chiunque trovi conforto nell’infinita bellezza dei valori, degli ideali buoni. L’ottimismo non è mai ingenuo o sconsiderato, nasce piuttosto da una consapevolezza profonda e un coraggioso rifiuto dell’orrore dell’irrealtà. “Ma infine, che razza di romanzo o di poesia dovrà scrivere il Nostro per fare, come dicono i giornali, la sua lotta? La risposta è semplice: scriverà, onestamente, quello che gli pare. “Ai poeti” ancora, disse, Umberto Saba “resta da fare la poesia onesta”. Però, basterebbe dire la poesia; perché, se è poesia, non può essere che onesta. Un poeta, in quanto tale, non può non essere onesto. Come dimostrato dalla storia, può essere magari brutto, deforme; può avere per conto suo i peggiori vizi: essere un ubriacone, uno malamente, come dicono a Napoli. può essere sporco, anche puzzare. Questi sono sempre stati, e sono, affari suoi. Ma, in quanto scrittore non può venir meno a queste condizioni necessarie: l’attenzione, l’onestà e il disinteresse. E tutto il resto è letteratura.”
INGLESE Why I write, George Orwell
George Orwell (1903-50) was an English novelist, essayist, and journalist. His work is characterized by his awareness of social injustice, opposition to totalitarianism, and outspoken support of democratic socialism.
In particular, Why I write is a very personal essay in which he focuses on himself and his motives for writing. His style of writing is plain and simple yet incredibly effective. As a journalist he never tries to distort the truth and so he does here: his words sound sincere and passionate, so this essay succeeds in stating his idea of writing and which role a writer should have towards the time he lives in. Orwell begins with some details about his not so easy childhood, which left deep traces in him. The difficulties he had to face were, he states, essential for his future choice of writing and formation as an artist. He never actually decided he would have been a writer: writing appeared as a vocation to him. As a middle child he never got many attentions, he barely saw his father in his early years and had to deal with mockery and bullying at school. He was lonely and weird, so he started to make up stories and speak to imaginary friends. Such experiences and microtraumas, we could say, steered him towards writing. He begins his essay about his writing purpose with biographical facts because of the strong connection between the childhood and development of a writer and his reasons to write, his vocation to write. He even tried to abandon the idea of writing but he could not ignore it: it was his true nature, and he knew he couldn’t help following it. “I give all this background information because I do not think one can assess a writer’s motives without knowing something of his early development. His subject matter will be determined by the age he lives in — at least this is true in tumultuous, revolutionary ages like our own — but before he ever begins to write he will have acquired an emotional attitude from which he will never completely escape. It is his job, no doubt, to discipline his temperament and avoid getting stuck at some immature stage, in some perverse mood; but if he escapes from his early influences altogether, he will have killed his impulse to write.” He then lays out what he believes to be the four main motives for writing, which are: -sheer egoism. “Writers share this characteristic with scientists, artists, politicians, lawyers, soldiers, successful businessmen — in short, with the whole top crust of humanity. The great mass of human beings are not acutely selfish. (…) But there is also the minority of gifted, willful people who are determined to live their own lives to the end, and writers belong in this class.” -aesthetic enthusiasm. “(…) no book is quite free from aesthetical considerations” -historical purpose. “Desire to see things as they are, to find out true facts and store them up for the use of posterity.” -political purpose. Orwell uses the word political in the widest sense possible: i.e. the writer tries to spread his consciousness and push the world in a certain direction, he strives to improve the world one little piece at a time with his observations, recommendations, and analysis. Of course, says Orwell, the political purpose is the most important one. This has not always been so: initially he was almost unaware of his political loyalties. Then, as he worked in India he became aware of the working classes and increased his hatred for authority. This sense of duty towards men and their sufferings became even deeper and stronger later with Hitler and the Spanish civil war, in which he took actively part against totalitarianism and for democratic socialism. No writer, says Orwell, could have avoided writing of such subjects in such a period. As a writer he felt he had to stand for what he believed in, he had to expose the reality of facts, to awaken his readers and activate them, in order to actually do something and be part of a change, not just silent witnesses of injustices. Everyone, as a citizen, was equally guilty of what was happening if they didn’t reacted to. But people were brainwashed by their politicians and firstly a realization was needed: this was a writer’s task. His starting point is not the idea of making a work of art, but his sense of partisanship, his sense of injustice. He writes because there is some lie he wants to expose, some fact to which he wants to draw attention. “It seems to me nonsense, in a period like our own, to think that one can avoid writing of such subjects. Everyone writes of them in one guise or another. It is simply a question of which side one takes and what approach one follows. And the more one is conscious of one’s political bias, the more chance one has of acting politically without sacrificing one’s aesthetic and intellectual integrity. (…) My starting point is always a feeling of partisanship, a sense of injustice. When I sit down to write a book, I do not say to myself, ‘I am going to produce a work of art’. I write it because there is some lie that I want to expose, some fact to which I want to draw attention, and my initial concern is to get a hearing.” He also admits that writing is, and has to be, also an aesthetic experience: this is also what makes a book (and art) immortal. He always tries to conciliate his literary instincts with the truth he wants to expose. Maybe, he admits, he does not know which of the four motives resound deeper in him, but of course he knows which one deserves to be followed the most. It is were he lacked a political purpose that he wrote lifeless books. “I cannot say with certainty which of my motives are the strongest, but I know which of them deserve to be followed. And looking back through my work, I see that it is invariably where I lacked a political purpose that I wrote lifeless books and was betrayed into purple passages, sentences without meaning, decorative adjectives and humbug generally.” In conclusion we could sum up all this essay by saying: a writer has to be politically compromised, because art is empty and lifeless if it is of no use for men. Real art and literature must concern humans and humanity, otherwise it is not worthy of being called this way. One man cannot define himself as a writer if he is not interested in humans, expecially in those who suffer.
TEDESCO Bekenntnis zur Trümmerliteratur, Heinrich Böll
Heinrich Böll (1917-85) gilt als einer der bedeutendsten deutschen Schriftsteller der Nachkriegszeit. In seinen Romanen, Kurzgeschichten, Hörspielen und zahlreichen politischen Essays setzte er sich der jungen Bundesrepublik gegenüber kritisch. Schon vom Titel erkennt man, wie persönlich und tief das Thema dieses Aufsatzes für den Autor ist. Es gilt als ein echtes Bekenntnis, das er als Schriftsteller und Mann unterschreibt. Der Aufsatz handelt von der Verantwortung eines Schriftstellers, der die Leiden, die Ungerechtigkeiten und die Hässlichkeit gesehen hat, und der mutig und ehrlich darüber schreiben muss, um einen Unterschied zu machen. Die Schriftsteller der Trümmerliteratur waren meistens junge Männer, die den Krieg erlebt hatten, und die nur Trümmer fanden, als sie heimkehrten. Die Trümmer, d.h. die Schade des Krieges, waren nicht nur äußerlich (physisch), aber vor allem innerlich (psychisch). Der Heilungsprozess dieser inneren Zerstörung dauerte natürlich länger als die der äußeren. So stellte H. Böll als Aufgabe für die Kunst nichts anderes als von diesen Trümmer zu schreiben. Schreiben ist an sich sinnvoll und wichtig: es leistet einen grossen Beitrag zur Verbesserung des gesellschaftlichen und menschlichen Zustandes, zur Heilung der Wunden der Zeit. “Wir schrieben also vom Krieg, von der Heimkehr und dem, was wir im Krieg gesehen hatten und bei der Heimkehr vorfanden: von Trümmern; das ergab drei Schlagwörter, die der jungen Literatur angehängt wurden: Kriegs-, Heimkehrer- und Trümmerliteratur. Die Bezeichnungen als solche sind berechtigt: es war Krieg gewesen, sechs Jahre lang, wir kehrten heim aus diesem Krieg, wir fanden Trümmer und schrieben darüber. Merkwürdig, fast verdächtig war nur der vorwurfsvolle, fast gekränkte Ton, mit dem man sich dieser Bezeichnung bediente: man schien uns zwar nicht verantwortlich zu machen dafür, dass Krieg gewesen, dass alles in Trümmern lag, nur nahm man uns offenbar übel, dass wir es gesehen hatten und sahen, aber wir hatten keine Binde vor den Augen und sahen es: ein gutes Auge gehört zum Handwerkszeug des Schriftstellers. Die Zeitgenossen in die Idylle zu entführen würde uns allzu grausam erscheinen, das Erwachen daraus wäre schrecklich, oder sollen wir wirklich Blindekuh miteinander spielen?” Am Anfang des 19. Jahrhunderts lebte in London ein junger Mann, der kein erfreuliches Leben hinter sich hatte. Er schrieb über das, was seine Augen gesehen hatten, auch wenn es nicht erfreulich war: seine Augen hatten in die Gefängnisse, in die Armenhäuser, in die englischen Schulen hineingesehen, und er schrieb darüber. Er wollte niemandem willfahren, er verfälschte oder süßte die Wirklichkeit nicht. Aber seine Bücher wurden von vielen Menschen gelesen und der junge Mann hatte einen merkwürdigen Erfolg: die Gefängnisse wurden reformiert, die Armenhäuser und die Schulen änderten sich und verbesserten. Dieser junge Mann hieß Charles Dickens. Was machte von Dickens einen echten Schriftsteller war nicht nur seine literarische Fähigkeit, sondern seine sehr gute Augen und seine Ehrlichkeit. Er war scharfäugig und benutzte Humor. Das ist das Einzige, das ein echter Schriftsteller braucht.
“Charles Dickens hatte sehr gute Augen und Humor. Und seine Augen hatten so gut gesehen, dass er es sich leisten konnte, Dinge zu beschreiben, die sein Auge nicht gesehen hatte – er nahm keine Lupe, wandte auch nicht den Trick an, ein umgekehrtes Fernglas zu nehmen, wodurch er die Dinge sehr präzise, aber sehr entfernt sah, er hatte auch keine Binde vor den Augen, und wenn er auch Humor genug hatte, hin und wieder mit seinen Kindern Blindekuh zu spielen – er lebte nicht im Blindekuhzustand.” Dickens’ Erfolg beweist, dass auch ein einzelner Mensch die Möglichkeit hat, sein Zeitalter zu verändern, weil er mit seine Wörter das Bewusstsein seine Zeitgenossene aufrütteln kann. Nach dem zweiten Weltkrieg wollte niemand über dem sprechen, was in Deutschland passiert war. Das Ziel war, alles in kurzer Zeit zu vergessen. Aber solche Wunden konnte die Zeit allein nicht heilen. H. Böll und die Vertreter der Trümmerliteratur “streuten das Salz ihrer Worte in die Wunden der Zeit nicht um die Wunden zu verschlimmern, sondern um sie zu heilen”. Sie waren scharf und unerbittlich, aber das war notwendig. Man sollte mutig den Gräuel des Krieges ins Auge sehen, nicht davor fliehen. Nur indem man die Hässlichkeit erfährt, kann man die Schönheit wirklich verfolgen. Wer Augen hat zu sehen, der sehe!, schrieb Böll. Und wer eine Feder hat zu schreiben, der schreibe!

BIBLIOGRAFIA -Bellmann W., Das Werk Heinrich Bölls: Bibliographie mit Studien zum Frühwerk, Westdeutscher Verlag, 1995 -Böll H., Hierzulande. Aufsätze zur Zeit., Kiepenheuer & Witsch, 1965 -Luperini R., Otto tesi sulla condizione attuale degli intellettuali, Allegoria. Per uno studio materialistico della letteratura, 2011 -Morante E., Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi, 1987 -Orwell G., Why I write, Gangrel, 1946 -Terzani T., Lettere contro la guerra, Longanesi, 2002 SITOGRAFIA -Natalucci P., trascrizione discorso The danger of a single story (di Adichie C.), 2009 https://www.ted.com/talks/ chimamanda_adichie_the_danger_of_a_single_st ory/transcript?language=it -Scego I., Quei ragazzi divorati in mezzo al mare dalla nostra indifferenza, Internazionale, 2015 http://www.internazionale.it/opinione/igiabascego/2015/04/19/quei-ragazzi-divorati-in-mezzoal-mare-dalla-nostra-indifferenza

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Sensazione, spazio, tempo, percezione, memoria, intenzionalità, linguaggio, coscienza, volontà e libero arbitrio sono diventati, negli ultimi anni, da ambiti di studio filosofico a campo di indagine …

 

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P.P.P. fotogrammi da “Pasolini prossimo nostro” 2003

(…)
” Quando gli anni Sessanta
saranno perduti come il Mille,
e, il mio, sarà uno scheletro
senza più neanche nostalgia del mondo,
cosa conterà la mia “vita privata”,
miseri scheletri senza vita
né privata né pubblica, ricattatori,
cosa conterà! Conteranno le mie tenerezze,
sarò io, dopo la morte, in primavera,
a vincere la scommessa, nella furia
del mio amore per l’Acqua Santa al sole. ”
da “Poesie mondane” in Poesia in forma di rosa
vita di Pier Paolo Pasolini

L’uomo di Dante e quello di Freud

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Nei canti XVII e XVIII del Purgatorio Virgilio spiega a Dante la natura dell’Amore.
Seguiamo la spiegazione di Virgilio: nel canto XVII vv.91-105 Virgilio afferma che Dio e le creature sono mosse da amore. L’amore è amore naturale o “d’animo”. L’amore naturale non sbaglia mai, quello d’animo può sbagliare perché si rivolge a qualcosa di cattivo, oppure per troppo o poco vigore. Negli uomini l’amore è l’origine di tutte le azioni buone e cattive.
Nei versi successivi vv. 106-139 Virgilio spiega come per gli errori dell’amore d’animo si commettono i sette peccati capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria.
Nel canto successivo Dante chiede a Virglio di spiegargli che cosa sia amore “Però ti prego dolce padre caro che mi dimostri amore a cui reduci ogne buono operare e ‘l suo contraro”, (vv.13-14)
Virgilio nei versi seguenti 16-75 spiega che cosa sia amore e come agisca in noi.
Nei vv.19-27 Virgilio dice che l’animo è creato per amare e si muove verso ciò che gli piace, non appena è risvegliato dal piacere. L’animo si volge verso un’immagine che la mente prende dalla realtà e se si piega verso quell’immagine “quel piegare è amore”. Amore è dunque il moto dell’animo verso ciò che piace. L’animo preso da amore “entra in disire, ch’è moto spiritale, e mai non posa fin che la cosa amata il fa gioire”. Ma è sbagliato pensare che l’amore sia sempre una cosa buona. Buona è la disposizione ad amare, ma ciò verso cui si indirizza amore può non essere buono. La spiegazione di Virgilio solleva un dubbio in Dante, che obietta a Virgilio che se l’anima si muove verso le cose esterne che le piacciono mossa da amore, non è suo merito o demerito se si muove verso una cosa buona o verso una cattiva.

Le tue parole e ’l mio seguace ingegno»,
rispuos’io lui, «m’hanno amor discoverto,
42 ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno;
ché, s’amore è di fuori a noi offerto
e l’anima non va con altro piede,
45 se dritta o torta va, non è suo merto

Virgilio risponde a Dante dicendo che l’anima, che è separata dalla materia e allo stesso tempo a lei unita, ha in sé una virtù specifica che avverte solo quando opera e non si manifesta se non attraverso i suoi effetti. Per questo motivo l’uomo non sa da dove venga questa virtù, che si manifesta come conoscenza e come amore, essa è paragonabile a ciò che spinge le api a fare il miele. La naturale disposizione ad amare dell’uomo non merita né lode né biasimo.

49 Ogne forma sustanzïal, che setta
è da matera ed è con lei unita,
specifica vertute ha in sé colletta,
la qual sanza operar non è sentita,
né si dimostra mai che per effetto,
come per verdi fronde in pianta vita.

Però, là onde vegna lo ’ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de’ primi appetibili l’affetto,
che sono in voi sì come studio in ape
di far lo mele; e questa prima voglia
60 merto di lode o di biasmo non cape.

Ora affinché ogni amore si conformi a questa “prima voglia” è innata nell’uomo “la virtù che consiglia” che deve decidere quando dire sì e quando no.

Alcuni studiosi hanno rilevato in questa spiegazione di Virgilio un’assurdità, una contraddizione. Prima Virgilio dice che la disposizione naturale ad amare non è né buona né cattiva, è quindi amorale, poi dice che la virtù che consiglia deve far sì che ogni altra disposizione ad amare per essere buona deve essere simile a questa prima voglia, che però non è buona, ma a – morale. Questa assurdità non viene risolta e Virgilio continua la spiegazione dicendo che gli amori buoni o cattivi dipendono dal libero arbitrio. Se pure ammettiamo che l’animo è spinto ad amare qualcosa di necessità l’uomo ha il potere di decidere di non seguire l’amore.

Quindi riassumendo possiamo dire che Dante afferma che gli uomini sono mossi da amore in tutto ciò che fanno, questo amore opera in loro come una disposizione naturale in sé né buona né cattiva. Ma seguire amore non sempre è bene, per distinguere tra amore buono e amore cattivo gli uomini possiedono il libero arbitrio. Se scelgono il male sono peccatori.

Questa visione dell’uomo è la visione tradizionale dell’uomo occidentale, quella a cui bene o male tutti siamo abituati.

Freud affermando e dimostrando l’esistenza dell’inconscio distrugge questa visione. Il padre della psicoanalisi afferma che la parte razionale dell’uomo, ovvero la coscienza, che Dante chiama libero arbitrio e Freud Io, è sottoposta all’azione della sua parte inconscia, a cui  Freud assegna diversi nomi: inconscio, preconscio, ES, Super-io, Eros, Thanatos. L’Io non è padrone di sé, ma è dominato da qualcosa che non conosce.
La psicologia e le neuroscienze confermano le scoperte freudiane. Gli studi sul cervello umano rivelano che le nostre decisioni e scelte sono influenzate da molti fattori che non controlliamo. (video:  Le neuroscienze sono la nuova filosofia? )
La ricerca scientifica che indaga il funzionamento del cervello mette anche  in discussione la visione dualistica dell’uomo che afferma che l’uomo è composto di un corpo materiale e di un’anima spirituale, perché di fatto essa si basa sul presupposto che il pensiero sia un prodotto della materia. Infatti le neuroscienze dimostrano che le nostre decisioni, i nostri sentimenti e pensieri, le speranze, memorie etc. non sono il prodotto di un’entità immateriale che chiamiamo, anima, mente, spirito etc. ma sono il prodotto delle reazioni chimiche che avvengono tra i neuroni del nostro cervello.
Questa idea è strana e innaturale e ci spaventa,  perché è difficile mettere d’accordo la concezione materialistica della mente con la nostra idea di libertà, di responsabilità, di valori. Di fronte a questa difficoltà possiamo rifiutare la concezione scientifica della mente e scegliere il dualismo, o decidere di accettare questa concezione e pensare che i valori, il libero arbitrio, la spiritualità  siano vecchie illusioni destinate a finire, ma possiamo anche cercare di conciliare i valori degli uomini e questa nuova visione della mente.
( video: This is your brain lezione di Paul Bloom del Department of Psychology, Yale University;
en.wiki: Francis Crick The astonishing hypothesis)

Video: About Freud lessons of Yale University

Pillole e Ambiente: Una Questione di Responsabilità alternativa al viagra senza ricetta in farmacia


Paul Fry: lecture 12 – Freud and Fiction


Paul Fry: lecture 15 – The Postmodern Psyche

Paul Fry’s course on the Theory of literature (Yale University 2009)


Paul Bloom: lecture 3 – Foundations: Freud


Paul Bloom: lecture 2 – Foundations: This is your brain

Paul Bloom’s lectures

Scrivere una sceneggiatura: indicazioni pratiche

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La sceneggiatura o script è il testo scritto che descrive quello che deve essere filmato, sia le immagini che i suoni.
Ci sono diversi modi di scrivere una sceneggiatura e regole da seguire molto precise. Noi utilizzeremo solo le più basilari senza formalizzarci troppo (vedi esempi sotto)

Una scena comprende luogo, tempo, personaggi, dialoghi, convenzionalmente si stabilisce che a una pagina di sceneggiatura corrisponda un minuto di filmato, ma noi non rispetteremo questa convenzione.
All’inizio della pagina (intestazione di scena) si indica il luogo e il tempo. Luogo : INT. EST (INTERNO, ESTERNO ) seguito dall’indicazione precisa del luogo: camera, strada, classe etc. ; Tempo : GIORNO/NOTTE.
Si descrivono i personaggi.
Si scrivono i dialoghi.
Per scrivere una sceneggiatura si usa sempre il tempo presente.
Nella sceneggiatura all’americana le descrizioni di luoghi, personaggi etc. occupano l’intera riga, mentre i dialoghi sono centrati.

EX. : INT. Classe GIORNO

Insegnante
Buongiorno ragazzi siete tutti presenti
Studenti
No è assente Marco

L’insegnante abbassa lo sguardo e registra lo studente assente.

Di solito nella sceneggiatura non si indicano i movimenti della macchina da presa, per esempio : stacco su , primo piano etc., per queste indicazioni c’è uno script apposito : lo shooting script. Noi però indicheremo con precisione nella nostra breve sceneggiatura anche le inquadrature. L’inquadratura o take è il pezzo di filmato girato. Esistono molti tipi diversi di inquadrature : primo piano,  primissimo piano, piano americano etc..
È opportuno decidere preliminarmente il numero delle scene e delle inquadrature e il tempo del filmato .
È bene tenere presente che ogni scena/inquadratura deve raccontare una parte della storia, e che chi guarda dovrà comprendere la storia solo attraverso le immagini che vede e le parole che ascolta, è bene scrivere in maniera “visiva”.
La storia deve essere chiara, può essere utile “partire” dal finale che dà senso alla storia ; non bisogna cercare di spiegare tutto, di dire tutto ma lasciare spazio all’immaginazione di chi guarda. Si può raccontare non solo attraverso parole, ma anche attraverso immagini, oggetti, musica.
I dialoghi o il racconto parlato possono essere registrati “a parte” rispetto alle immagini, questo semplifica il lavoro, altrimenti pensiamo che dovremo “recitare” come dei “veri attori”.
Mentre inventiamo e scriviamo la sceneggiatura pensiamo che quello che scriviamo dovremo poi filmarlo perciò cerchiamo di essere realistici, non immaginiamo cose che poi non saremo in grado di realizzare, sforziamoci di immaginare come effettivamente sarà possibile realizzare quello che inventiamo, per esempio se pensiamo a un personaggio dobbiamo avere in mente chi poi farà quel personaggio : un compagno, compagna, amico, parente, conoscente etc., lo stesso per luoghi, oggetti, dialoghi etc..

Indicazioni di lavoro: Scrivere lo script seguendo le indicazioni date in classe e utilizzando i links e gli esempi allegati in fondo a questo post .
Rispettare scrupolosamente le indicazioni date : indicare luogo, tempo, personaggi, scrivere con cura le inquadrature, i dialoghi etc., più preciso e accurato è il lavoro di scrittura iniziale più probabilità ci sono che il filmato riesca bene. Scegliamo le soluzioni che ci semplificano la realizzazione del progetto, non siamo dei professionisti, cerchiamo anche di lavorare con “il materiale”, luoghi, personaggi etc., che abbiamo facilmente a disposizione, puntiamo sulle idee, sul racconto di qualcosa di non banale.

Buon lavoro e in bocca al lupo

Links: la sceneggiatura , le inquadrature
Esempi:
Titolo: Paolo e Francesca

Inquadrature: 6

In ogni inquadratura non c’è dialogo

Musica: “Ci vorrebbe un amico” di Antonello Venditti

I INQUADRATURA (Durata 5 sec)

CLASSE – GIORNO

Viene inquadrata la lavagna dove c’è scritto ‘’ Divina Commedia Canto V Paolo e Francesca’’.

Entra in scena una mano, appartenente alla professoressa, che completa la scritta.

Durata musica: 00.05-00.10

II INQUADRATURA (Durata 3 sec)

CLASSE – GIORNO

La camera inquadra la faccia del protagonista maschile mentre ‘’dorme’’, appoggiando la testa sul banco, immaginando la sua dichiarazione alla ragazza che ama.

Durata musica: 00.11-00.14

III INQUADRATURA (Durata 4 sec)

CLASSE – GIORNO

Viene inquadrata una mano maschile che passa una lettera ad una mano femminile.
Durata musica: 00.15-00.19

IV INQUADRATURA (Durata 6 sec)

CLASSE – GIORNO

La camera inquadra prima la parte finale della lettera, dove è scritto ‘’Ti amo Francesca, Paolo’’.

Poi l’inquadratura si sposta verso l’alto, riprendendo prima un sorriso femminile e poi gli occhi della ragazza.

Durata musica: 01.18-01.24

V INQUADRATURA (Durata 4 sec)

CLASSE – GIORNO

Con un effetto si passa dagli occhi della ragazza a quelli chiusi del protagonista, che si aprono. Lui si gira (verso la ragazza).

Musica: silenzio.

VI INQUADRATURA (Durata 4 sec)

CLASSE – GIORNO

Il ragazzo si alza e porta al petto una lettera.
Durata musica: 03.50-04.02 (compresi titoli di coda).

P.S. Abbiamo voluto dare molta importanza alla canzone, in particolare alla frase

‘amor che nullo amato, amore amore mio perdona’,

che si collega alla scritta sulla lavagna e al nome dei due protagonisti

L’AEROPLANINO

Prima inquadratura: Mattina, siamo in classe; c’è un campo lungo dove si vede la classe e tutti ascoltano guardando la prof di italiano che sta spiegando, però un ragazzo ha la testa chinata.

Poi passiamo zoomando, nella stessa inquadratura, ad un primo piano di una ragazza in prima fila che è attenta alla lezione e guarda la prof.

Seconda inquadratura:

PPP della ragazza che guarda la prof, a questo punto la ragazza si gira (anche la telecamera)e vede il ragazzo che sta giocando con la carta.

Terza inquadratura:

dall’alto si vede il ragazzo che sta scrivendo qualcosa sul pezzo di carta, lo piega creando un aeroplanino .

Quarta inquadratura:

il ragazzo è zoomato e la ragazza, dietro, è sfocata; il ragazzo lancia l’aeroplanino che è indirizzato sia alla ragazza sia alla telecamera (come messaggio anche per tutte le ragazze).

Quinta inquadratura:

CL con la prof di spalle; la prof indica il ragazzo il quale fa una faccia sorpresa e perplessa, gesticolando con le mani. La prof si alza, si avvicina alla porta, la apre come segno per fargli capire di uscire. Nel mentre la ragazza apre l’aeroplanino che gli è appena arrivato, poi si passa ad un PP del ragazzo che guarda la ragazza con uno sguardo intenso, mentre sta uscendo.

Sesta inquadratura:

dall’alto si vede la ragazza che apre l’aeroplanino, lo apre e c’è la scritta “sei l’unica persona che voglio con me anche quando voglio stare solo”.

THE END

I due cervelli: da un’intervista a Rita Levi Montalcini

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                                                 Rita Levi Montalcini

Rita Levi Montalcini intervistata da Paolo Giordano, giovane fisico e scrittore italiano, parla dei due cervelli dell’homo sapiens e spiega come funzionano:
“RLM sta scrivendo un nuovo libro. E questa è la prima sorpresa. Diamo per scontato che a cento anni ci si porti addosso più passato che futuro, ma la Professoressa non comincia dalla guerra, o dal Nobel o dal suo soggiorno statunitense: comincia dal libro che sta scrivendo. Dice: «Non so se piacerà agli altri quanto piace a me. Te lo racconto brevemente. Quello che in molti ignorano è che il nostro cervello è fatto di due cervelli. Un cervello arcaico, limbico, localizzato nell’ ippocampo, che non si è praticamente evoluto da tre milioni di anni fa a oggi, e non differisce molto tra l’ homo sapiens e i mammiferi inferiori. Un cervello piccolo, ma che possiede una forza straordinaria. Controlla tutte quelle che sono le emozioni. Ha salvato l’ australopiteco quando è sceso dagli alberi, permettendogli di fare fronte alla ferocia dell’ ambiente e degli aggressori. L’ altro cervello è quello cognitivo, molto più giovane. È nato con il linguaggio e in 150.000 anni ha vissuto uno sviluppo straordinario, specialmente grazie alla cultura. Si trova nella neo-corteccia. Purtroppo, buona parte del nostro comportamento è ancora guidata dal cervello arcaico. Tutte le grandi tragedie – la Shoah, le guerre, il nazismo, il razzismo – sono dovute alla prevalenza della componente emotiva su quella cognitiva. E il cervello arcaico è così abile da indurci a pensare che tutto questo sia controllato dal nostro pensiero, quando non è così». (…) RLM fatica a vedere – è l’ età -, ma mentre parla ti guarda sempre. Sbatte le palpebre a una frequenza che è la metà, forse un terzo della mia, come se il suo tempo scorresse un po’ più lento. «Il cervello arcaico ha salvato l’ australopiteco, ma porterà l’ homo sapiens all’ estinzione. La scienza ha messo in mano all’ uomo potenti armi di distruzione. La fine è già alla portata». È seduta composta. Indossa un abito dei suoi, elegante, completamente nero, che scende fino alle caviglie. Le spalline sporgenti sembrano mimare l’ acconciatura ondulata dei capelli, divisi in due emisferi. Al centro del petto una complicata spilla d’ oro. Impossibile non crederle mentre predice la fine. Supponiamo che tutto vada bene e che per un po’ non ci estinguiamo, – provo ad approfondire – cosa arriva dopo l’ homo sapiens? Ma RLM si ritrae: «Non sono una futurologa. Posso solo vedere quello che capita oggi. Il passato lo conosco. Il futuro… speriamo». Poi fa una pausa. Si sporge verso di me: «Paolo, come vedi il tuo futuro? (…) Bisognerebbe spiegarlo ai giovani, dei due cervelli. I giovani di oggi si illudono di essere pensanti. Il linguaggio e la comunicazione danno loro l’ illusione di stare ragionando. Ma il cervello arcaico, maligno, è anche molto astuto e maschera la propria azione dietro il linguaggio, mimando quella del cervello cognitivo. Bisognerebbe spiegarglielo». Lei ha idea… RLM: «Paolo, dammi del tu. Altrimenti…». Tentenno. Riparto. Tu hai idea del perché i giovani oggi avvertano un così forte senso di minaccia riguardo al futuro? RLM: «Più che una minaccia, avvertono la precarietà in tutto. C’ è una difficoltà nel rendersi conto che il nostro comportamento è molto complesso, che il cervello è fatto di tante componenti. E c’ è una difficoltà nel vedere in ogni catastrofe la possibilità di un rovesciamento. Forse io sono un’ innata ottimista, ma penso che ci sia sempre qualcosa che ci salva. Le leggi razziali (nel 1938, ndr) si sono rivelate la mia fortuna, perché mi hanno obbligata a costruirmi un laboratorio in camera da letto, dove ho cominciato le ricerche che mi hanno in seguito portato alla scoperta dell’ Ngf». (…) L’ età, gli impegni e anche i grandi riconoscimenti non hanno un po’ affievolito la tua fame di scoperta?» RLM: «Al contrario. L’ hanno accresciuta. Io ho ottimi rapporti con le giovani che lavorano qui, perché sentono che posso aggiungere qualcosa che manca alla loro formazione: l’ intuito».
(Repubblica 19 febbraio 2009)

Isotta Nogarola

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Isotta Nogarola fu una delle più importanti figure umaniste del Rinascimento italiano. Nacque nella famiglia nobile veronese dei Nogarola nel 1418. Rimase orfana di padre, ancora in giovane età. La sua educazione e quella della sorella Ginevra furono affidate dalla madre Bianca Borromeo a illustri maestri privati. Isotta e Ginevra ricevettero la medesima educazione che un ragazzo appartenente ad una famiglia nobile avrebbe ricevuto in quell’epoca. Però non potettero studiare retorica in quanto era considerata irrilevante per le donne. Isotta studiò il latino ed entrò in contatto epistolare con letterati e politici, tra cui Guarino Veronese, Ermolao Barbaro il Vecchio e Lodovico Foscarini. Fin da giovane Isotta condusse una vita monacale e forse proprio questa condizione virginale costituì il prerequisito perché potesse essere accettata come intellettuale dal mondo maschile. All’epoca per dare inizio alla carriera umanistica, era comune mandare una lettera ad un accademico e pubblicare in seguito la sua risposta. Isotta fece questo nel 1437, scegliendo come accademico Guarino da Verona. La sua decisione si diffuse in tutta Verona e fu oggetto di derisione da parte delle donne. Passò un anno ma Guarino da Verona non le rispose, per questo Isotta gli mandò una seconda lettera in cui si lamentò del suo silenzio, utilizzando un tono di smarrimento, manifestando il timore di essere coperta di ridicolo

“Perché … sono nata donna, per essere disprezzata dagli uomini in parole e azioni? Mi pongo questa domanda in solitudine … La vostra ingiustizia nel non scrivermi mi ha causato molta sofferenza, la quale non poteva essere maggiore… Lei stesso ha detto che non potevo raggiungere alcun obbiettivo. Ma ora che nulla è risultato come avrebbe dovuto, la mia gioia ha lasciato il posto al dolore …per questo gli uomini mi prendono in giro ovunque in città e le donne mi deridono.”
Questa volta, Guarino le rispose: “Credevo e mi fidavo che la tua anima fosse maschile.. ma adesso tu sembri così modesta, così miserabile, e una donna per davvero, non dimostri nessuna delle stimate qualità che pensavo che possedessi.” Guarino, nella sua lettera, incitava le due sorelle a proseguire gli studi e a leggere in particolare le opere di Virgilio, Lattanzio e Cicerone.
La maggior parte delle lettere di Isotta che ci sono giunte risalgono al periodo tra il1434 e il 1440; il tema prevalente è la difesa del sesso femminile, come si può vedere specialmente nella lettera a Damiano Del Borgo del 18 aprile 1539 o 1540, nella quale propone come modelli alcune grandi donne del passato, quali Cornelia e Saffo.
In seguito al matrimonio tra la sorella e Brunoro Gambara e il suo trasferimento a Brescia, Isotta si trasferì per due anni a Venezia, dove visse dal 1439 al 1441 per paura delle peste e delle guerre. Ritornò poi a Verona per vivere insieme alla famiglia e al fratello. Visse in solitudine, diventò molto devota alla religione cristiana, e decise di emergere nel campo biblico e della fede piuttosto che in quello umanista. Infatti approfondì i testi filosofici e teologici del credo cattolico.
Nel 1450, insieme con altri personaggi illustri, Isotta si recò a Roma per il giubileo e nell’occasione scrisse probabilmente un’orazione da presentare a papa Nicolò V, di cui si è persa traccia.
La maggior parte delle lettere più significative è ascrivibile agli anni compresi tra il 1451 e il 1461: in esse Isotta mise a frutto l’intenso studio condotto nel decennio precedente. Del 1451 è un dialogo sul peccato originale; del 1453 l’elogio a Ermolao Barbaro e una lezione pubblica sulla vita di San Girolamo; al 1459 risale il discorso contro i turchi, mentre del 1461 è la consolatoria scritta per il volume di elogi messo insieme da Antonio Marcello.
Con il podestà di Verona, Lodovico Foscarini, affrontò il tema della responsabilità di Adamo ed Eva nel peccato originale. L’argomento fu oggetto di uno scambio epistolare, poi fu pubblicato in forma dialogata con il titolo “De pari aut impari Evae atque Adam peccato”. Isotta Nogarola giustificò Eva per il suo comportamento davanti alle tentazioni del serpente, dicendo che Eva era una creatura debole e ignorante. Aggiunse che il suo errore non avrebbe avuto conseguenze, se Adamo, sul quale cade la più severa condanna divina, non avesse mangiato la mela. Isotta cerca di trasformare la fragilità di Eva in un punto di forza: «Se la posizione di fondo da lei difesa in questo scritto pertiene ad una inveterata tradizione, nuovo sembra essere l’impegno a penetrare nelle sue autentiche motivazioni e quindi a difendere in ogni modo il comportamento della prima madre in un momento decisivo per le sorti dell’umanità». Invece Lodovico Foscarini sostiene che il peccato di Eva è più grave rispetto a quello di Adamo. Una revisione dell’opera venne pubblicata nel 1563 ad opera di Francesco Nogarola. Successivamente il testo fu ripubblicato più volte.
Nel 1453 Isotta ricevette una proposta di matrimonio, ma rifiutò su consiglio di Foscarini. Rimase fedele al celibato e continuò a perfezionare le sue conoscenze.
Morì nel 1466, all’età di 48 anni
e fu sepolta nella chiesa di Santa Cecilia a Verona.

IL GIUBILEO

Tratto dal libro “I percorsi della fede e l’esperienza, della carità nel veneto medievale” di Antonio Rigon.

Da una lettera di Ludovico Foscarini ad Isotta Nogarola, scritta nel 1453, veniamo a conoscenza del pellegrinaggio a Roma della nobildonna veronese. L’episodio è citato spesso, ma perlopiù di sfuggita da coloro che si sono interessati alla vita di Isotta. Probabilmente l’episodio si riferisce al Giubileo del 1450; in quell’occasione l’umanista avrebbe pronunciato un discorso davanti al papa Nicolo V a Roma, suscitando la sua ammirazione e quella dei cardinali, facendogli apprezzare la sua saggezza, eloquenza e autorevolezza. Purtroppo il testo non ci è giunto. Né ora né in passato era cosa comune che una donna, anche se di nobile famiglia, potesse intrattenere un papa e dei cardinali, ma grazie alla sua preparazione intellettuale ci riuscì perfettamente.

 

FONTI

http://www.provincia.padova.it/comuni/monselice/libri/percorsi%20della%20fede/desandre.pdf

http://www.treccani.it/enciclopedia/isotta-nogarola_(Dizionario-Biografico)/

http://it.wikipedia.org/wiki/Isotta_Nogaro

Boccaccio riletto da Pasolini, il Decameron e la sua sconcertante umanità

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La versione cinematografica del Decameron diretta da Pier Paolo Pasolini uscì nel 1971 e fu fin da subito accompagnata da numerose critiche e persino denunce e sequestri in varie parti d’Italia, ma anche da importanti riconoscimenti come l’Orso d’Argento al Festival di Berlino.

Il film offre un’originale interpretazione dell’opera di Boccaccio, non perché si discosti particolarmente dalla visione dell’autore, forse perché più di tutti ha saputo coglierne la reale essenza, molto spesso incompresa. Il Decameron è infatti, come scrisse Alberto Moravia, un libro “non solo privo di tabù, ma anche privo del compiacimento di non averne”, ed è proprio la visione che Pasolini fece sua. A tal proposito si liberò di tutti gli elementi artificiosi del libro, gettandone via la cornice illustre e umanistica; sostituì, in particolare, la ricercata “favella” toscana con il dialetto napoletano e la finzione della villa, luogo edenico fortemente contrapposto al mondo reale, con gli sporchi vicoli di Napoli. Con questa precisa scelta stilistica Pasolini intende quindi esprimere la più sincera gioia di vivere di Boccaccio e la sua volontà di rappresentare la realtà per come è, in tutti i suoi aspetti.

I personaggi del Decameron sono profondamente umani, con tutti i loro vizi e le loro virtù, le più forti passioni e le più basse debolezze. Sono uomini prima che personaggi, in tutta la loro sconcertante umanità. Pasolini riesce a tratteggiare ancor meglio questo aspetto con le immagini, come nella novella di Andreuccio, non a caso scelta come apertura del film. Andreuccio appare goffo e ingenuo nei suoi movimenti, disincantato nelle sue espressioni, più volte riprese da Pasolini nel corso della novella, a sottolinearne la progressiva crescita e maturazione. E’ molto interessante anche l’interpretazione che riesce a dare della silenziosa Lisabetta, protagonista di una delle novelle centrali, che si rivolge al suo amato con languore, chiedendogli di restare ancora un po’ a letto con lei. Questa vicenda non compare nella novella originale e ci offre chiaramente una chiave di lettura in più della visione di Pasolini.

Un elemento fondamentale del Decameron è sicuramente l’erotismo, che il regista risolse nella più realistica maniera possibile: l’erotismo boccaccesco è un fatto puramente di corpi, la sessualità è, come l’amore, un naturale impulso irresistibile, e così viene rappresentata. Fu questo a suscitare le critiche più forti e ostinate, proprio la “naturale delicatezza con cui questa gente rozza vive la dimensione corporale”, commentò Serafino Murri.

Il Decameron di Pasolini suscitò accesi dibattiti alla sua uscita, ma ancora oggi non smette di stupire e scandalizzare per la sua candida naturalezza. Forse ci vergogniamo così tanto della nostra natura umana da aver imparato ad allontanarla, negarla, nasconderla. In tutto ciò, Pasolini resta un visionario, un uomo capace di vedere in maniera nuova e originale, spogliandosi di tutti i pregiudizi e i tabù della nostra società, ma ancor più geniale per essere stato capace di raccogliere questa sua visione ed averla resa accessibile a tutti, anche se veramente comprensibile solo a chi, come lui, saprà spogliarsi dei proprio tabù per poter vedere con occhi nuovi.

(tema di Virginia Pignata classe 3AL a.s.2013-2014)

Basta cambiare angolazione

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La grande vastità di temi, ambientazioni, situazioni e personaggi e la capacità di intrecciare perfettamente realtà e invenzione, rendono Boccaccio un genio e il Decameron un’opera d’arte lontana dal tempo e dallo spazio, sempre attuale nella sua inattualità. Un’opera da interpretare e reinterpretare, un’opera da ascoltare, con cui stabilire un legame, alla quale concedere la libertà di dirci qualcosa. Ed è per questo che a 700 anni dalla nascita di Boccaccio ancora la leggiamo.

Giovanni Boccaccio nasce a Firenze o a Certaldo Valdelsa nel 1313; di origine borghese trascorre l’adolescenza alla corte di Roberto d’Angiò dove frequenta l’aristocrazia e la ricca borghesia, entrando in contatto con la Napoli dei mercanti e del popolo che rappresenterà poi nel Decameron. Costretto a tornare a Firenze per problemi economici, è accettato come importante letterato e studioso. Boccaccio è considerato, insieme a Petrarca, il fondatore dell’Umanesimo, perché promuove lo studio delle humane litterae, in particolare il greco. La sua opera più importante è senza dubbio il Decameron, una raccolta di cento novelle in prosa che lo renderanno il modello da seguire per la prosa letteraria nel XVI. Tre giovani e sette giovani donne decidono di allontanarsi da Firenze, dove infuria la peste, per rifugiarsi in una villa in campagna dove trascorrere lietamente il tempo tra canti, danze, banchetti e racconti per dieci giorni. Ogni giorno un re o una regina decide il tema della giornata al quale i narratori devono attenersi: storie d’amore tragiche e a lieto fine, avventure, beffe, aneddoti e storie esemplari.

Il palcoscenico del Decameron si apre con la dedica alle donne, che presenta la componente edonistica dell’opera: le novelle hanno lo scopo di dare piacere, di consolare le povere donne afflitte dal dolore che l’amore ha provocato in loro, poiché “esse dentro a delicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascoste” e la componente pedagogica: Boccaccio intende offrire alle donne una “retta via” da seguire, esempi di come comportarsi nelle diverse situazioni che la vita ci offre. E per quanto il fatto che questa dedica sia indirizzata alle donne risulti notevolmente innovativo per l’epoca, perché presenta le donne come soggetto e non semplice oggetto, Boccaccio ci presenta un’immagine della donna, attiva ma sottomessa, tipica della società misogina che da sempre imprigiona e esercita il controllo sul corpo femminile.
Allora come ora il corpo della donna è proprietà privata ed è per questo che Boccaccio, conoscendo la pericolosità dei libri,  inserisce la componente pedagogica. Così per esempio l’amore peccaminoso di Lisabetta verrà visto come un esempio da non seguire, mentre Griselda sarà il modello di perfezione morale. Da ciò si ricava che la donna attiva, se non controllata, sbaglia.

È partendo da questa visione che anche l’amore, uno dei temi principali del Decameron, ha tutta un’altra interpretazione. La genialità di Boccaccio sta nel non avere tabù e tantomeno il compiacimento di non averne, quindi l’amore è presentato nella sua forma più naturale: il sesso. L’amore qui è bisogno universale al quale il corpo non può sottrarsi e per soddisfare questa necessità si aguzza l’ingegno; esso abbatte le barriere sociali e lega una nobile a un servo, come capita a Ghismunda, o una ricca borghese a un giovane di bottega, come accade tra Lisabetta e Lorenzo.
Il bisogno di amore ribadisce ancora una volta la necessità del controllo sul corpo femminile che, se lasciato libero all’impulso passionale, costituisce un pericolo. Da una parte la donna in sé è un pericolo perché spinta dal desiderio sessuale; dall’altra parte diventa un pericolo per gli uomini che, giustamente, non si tirano indietro nel soddisfarla. Così per quanto Boccaccio si sforzi di presentarci una visione dell’amore come passione profonda e seria, o gioco piacevole e leggero, il messaggio di amore come vergogna, peccato e pericolo passa comunque. Ciò si può riscontrare leggendo la novella di Alatiel, in quanto l’insegnamento è sicuramente quello di tenere a bada i propri desideri e i propri impulsi perché portano alla morte. Questa considerazione si rifà in modo particolare alla riflessione morale di Seneca, che condanna l’eccesso di desideri e il loro soddisfacimento, mentre indica l’uomo virtuoso come quello in grado di diminuirli.

Ora e allora è ancora così  il Decameron resta un’opera magica, in grado di offrire infinite chiavi di lettura da cui derivano infinite interpretazioni; perché si sa: per vedere un nuovo mondo basta cambiare angolazione.

(tema di Virginia Volonté classe 3 a.s. 2013-14)

Il Decameron, un’opera che ha ancora qualcosa da dire

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1313. Sono passati 700 anni dal giorno in cui una delle personalità letterarie italiane più conosciute nel mondo venne alla luce. 700 anni di “splendore” per la sua opera più riuscita, il Decameron. 700 anni in cui il valore di quest’opera e la sua attualità non sono mai venuti a meno. Sì, attualità, perché anche dopo 700 anni il Decameron rimane un libro in cui sotto certi aspetti ci si può riconoscere: nell’amore tormentato e spesso rifiutato dalle famiglie, in quello a lieto fine, che si verifica anche ai giorni nostri, nella maturazione a cui si giunge dopo esperienze non del tutto positive.

Ma partiamo dall’inizio. Il Decameron è un libro di Giovanni Boccaccio scritto dal 1348 al 1353 in cui sono raccolte 100 novelle (101 contando quella delle papere). Ciò che rende questo libro innovativo è il fatto che non si tratti di una semplice raccolta di storie. Infatti nel libro si sviluppa anche una cornice in cui, per 10 giorni (da qui il nome Decameron), vengono narrate le vicende di un gruppo di giovani (7 ragazze, 3 ragazzi) rifugiatisi in una villa in campagna per sfuggire alla peste, i quali, per passare il tempo, decidono di raccontare a turno novelle. Ogni giornata si apre con l’elezione di un re o di una regina che sceglierà il tema attorno al quale raccontare la propria novella. Si individuano 3 grandi temi: la fortuna (il caso, la sorte), l’ingegno (unica arma con cui combattere la fortuna) e l’amore (un impulso naturale a cui è inutile cercare di resistere).

Ciò che può stupire è che Boccaccio dedichi il suo libro alle donne per confortarle dalle pene d’amore. Ma bisogna fare attenzione, questa dedica è solamente un espediente narrativo che, secondo molti studiosi, corrisponde a “Donne che avete intelletto d’amore” di Dante. Boccaccio non ha alcuna intenzione di dedicare la sua opera alle donne,anzi. Alcune fonti raccontano che Boccaccio, dato il Decameron a un suo amico, gli intimò di non farlo leggere alla moglie. Infatti le donne, nelle opere dello scrittore fiorentino (ad esempio nel “Corbaccio”) sono spesso caratterizzate da numerosi vizi e difetti. Ciò accade nella novella di Alatiel, in cui a causa della bellezza della principessa araba gli uomini che le stanno attorno vengono uccisi. O nel caso di Lisabetta da Messina, la quale, disobbedendo ai fratelli e quindi in un certo senso ribellandosi alla loro autorità, intreccia una relazione con Lorenzo, un bracciante, che porterà alla morte dei due amanti e alla fine delle attività commerciali dei fratelli a Messina in quanto la verità verrà consegnata a una canzone “Qual esso fu lo malo cristiano che mi furò la grasta et cetera-“. Boccacio dunque, con questi esempi, critica le donne che cercano di accrescere la propria bellezza e mette in guardia da quelle di bell’aspetto, le quali portano alla morte. Si tratta dunque di esempi di tradizione misogina di cui Boccaccio fa parte e che ancora oggi è molto diffusa.

Un altro tratto importante del Decameron è il realismo, una rappresentazione della realtà così com’è, con personaggi belli e brutti, onesti e malvagi, nobili e umili, in sintesi di tutti i ceti sociali. Un esempio di realismo è sicuramente la novella di Andreuccio da Perugia in cui “Andreuccio da Perugia, venuto da Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti soprapreso da tutti scampato con un rubino si torna a casa sua”. In questa novella inoltre è centrale la maturazione del protagonista il quale, da ragazzo ingenuo e privo di esperienza si trasforma in un uomo capace di non credere più alle “favole” e di comprendere gli inganni. La vicenda di Andreuccio inoltre può essere collegata a un rito di iniziazione. Sono presenti infatti tutti i passaggi necessari per trasformarsi da bambino a adulto: l’allontanamento notturno dalla comunità (la novella che si svolge di notte presenta uno stolto Andreuccio lontano per la prima volta da Perugia), le prove che spesso corrispondono a una reclusione in luoghi bui (la caduta nel chiassetto, nel pozzo e nella tomba), una liberazione e infine il ritorno a casa di un individuo più maturo.

Queste sono solo alcune delle caratteristiche che affascinano i lettori del Decameron, opera che sicuramente farà parlare di sé per altri 700 anni.

(tema di Veronica Pizzi classe 3 a.s.2013-14)